In Ucraina è troppo facile essere accusati di tradimento
La legge non fa differenze tra chi ha collaborato con l'esercito russo durante l'occupazione e chi ha cercato di sopravvivere: nelle regioni orientali le conseguenze sono pesanti
di Davide Maria De Luca
All’ingresso del villaggio di Hroza, nella regione ucraina di Kharkiv, un grande manifesto è stato incollato sulla pensilina di cemento dove fermano gli autobus che fanno la spola tra la capitale regionale e la vicina città di Kupiansk. «Gli assassini hanno un nome», è scritto sopra la foto di due mani carbonizzate. Un’altra foto, più piccola, mostra il volto di un giovane sui trent’anni, gli occhi socchiusi e nascosti dall’ombra, un mezzo sorriso sulle labbra. Le lettere che indicano il suo nome, Volodymyr Serhiiovych Mamon, sono macchiate di rosso e la sua fronte è nascosta dalla parola: «Traditore». Un’ultima scritta chiude la composizione in basso: «In cambio dei soldi russi ha ucciso 59 dei suoi vicini».
Nel villaggio di Hroza tutti conoscono Volodymyr Mamon. Prima dell’invasione lavorava nella polizia locale ucraina. Poi, quando i russi hanno occupato il villaggio, ha iniziato a collaborare con loro. «Ha fatto carriera in fretta e un sacco di soldi», dice Olga, che gestisce il minuscolo negozio di alimentari del villaggio. La precedente proprietaria, come Mamon e un’altra decina di abitanti del villaggio, è scappata in Russia quando gli ucraini hanno liberato il villaggio insieme al resto della regione di Kharkiv.
A Hroza, tutti sanno anche di che cosa Mamon è accusato. All’una e un quarto di pomeriggio del 5 ottobre del 2023 un missile balistico russo ha colpito l’edificio dove era in corso la veglia funebre per ricordare un ragazzo morto in combattimento, mentre serviva nelle forze armate ucraine. Il missile, un enorme Iskander lungo sette metri e con cinquecento chilogrammi di esplosivo nella testata, ha raso al suolo il piccolo edificio. Nessuno di coloro che si trovavano all’interno è sopravvissuto. In tutto, 36 donne, 22 uomini e un bambino sono rimasti uccisi.
Insolitamente, il governo russo è sembrato riconoscere il suo ruolo dell’attacco. In una riunione al Consiglio di sicurezza dell’Onu, pochi giorni dopo, il rappresentante russo ha detto che al funerale erano presenti «importanti nazionalisti ucraini» e «numerosi neonazisti».
Secondo gli investigatori ucraini, sarebbe stato Mamon a informare le forze armate russe della veglia funebre. Dalla Russia, dove era fuggito dopo la liberazione di Hroza, Mamon avrebbe scambiato messaggi apparentemente innocenti con i suoi vicini fino a scoprire la data e il luogo della veglia, che avrebbe poi comunicato ai russi, dicendo loro che al funerale sarebbero stati presenti numerosi commilitoni del soldato deceduto. Secondo un’indagine delle Nazioni Unite, tutte le vittime dell’attacco erano civili.
Quello di Volodymyr Mamon è forse il più famigerato caso di collaborazionismo con l’invasore degli ultimi due anni e quello che ha avuto le conseguenze più gravi, ma sono migliaia i cittadini ucraini accusati dalle autorità di aver fornito sostegno alle forze armate russe. In nessuna regione i casi sono più numerosi che a Kharkiv, dove polizia e servizi di sicurezza hanno effettuato quasi 1.500 indagini, arrestato oltre seicento sospetti e aperto trecento procedimenti penali.
Anche se da oltre un anno gli ucraini non sono più riusciti a liberare significative porzioni di territorio, le indagini e le denunce nei confronti dei collaborazionisti non sono cessate. I processi più importanti si fanno in contumacia. Gli ucraini che hanno servito negli ranghi dell’amministrazione occupante o nelle forze armate russe sono fuggiti da tempo oltre la portata delle autorità. Quelli che arrivano davanti ai giudici ucraini sono spesso i piccoli impiegati, amministratori di quartiere e insegnanti, finiti in un modo o nell’altro a lavorare con l’invasione. Ma nonostante il loro ruolo spesso secondario, le autorità raramente trattano i loro casi con clemenza. Per il capo del dipartimento investigativo della polizia di Kharkiv, Serhii Bolvinov, «chiunque abbia collaborato con i russi è un potenziale Mamon».
Ma tracciare una linea netta per separare criminali e traditori da chi ha soltanto cercato di sopravvivere spesso non è semplice. E la giustizia ucraina a volte fatica a notare la differenza.
Svetlana Tsyba non ha l’aspetto di una collaborazionista pronta a mandare a morte i suoi vicini di casa. Di mezza età e corporatura minuta, parla della sua situazione con una sorta di tranquilla rassegnazione: «Non so se sono colpevole, se ho fatto qualcosa di male, ma nel caso sono pronta a risponderne». Dal soggiorno della sua abitazione si possono sentire distintamente i colpi dell’artiglieria che di tanto in tanto partono dalle linee ucraine o arrivano da quelle russe.
Siamo a pochi chilometri da Kupiansk, la città che dallo scorso ottobre è divenuta uno dei punti più contesi del fronte ucraino. Hroza è a meno di mezz’ora da qui, sulla strada per Kharkiv. Svetlana Tsyba lavora nell’amministrazione locale di un piccolo villaggio poco lontano, Kindrashivka, dove si occupa un po’ di tutto: dalla verbalizzazione delle riunioni dell’amministrazione locale alla gestione dell’anagrafe, ma la sua specializzazione sono i servizi sociali per l’infanzia.
Come quella di milioni di altri ucraini, la sua vita è stata sconvolta il 24 febbraio 2022. Alle sei di mattina si stava preparando per andare a lavorare quando da Kharkiv ha ricevuto una telefonata di suo figlio. «Mamma che fai? Lo sai che la guerra è iniziata? Accendi la televisione. Putin ci attacca».
L’invasione è iniziata giovedì, sabato i russi erano già arrivati a casa sua. Dalle finestre, Tsyba poteva vedere l’enorme colonna di mezzi corazzati muoversi verso Kharkiv. «È difficile da descrivere a chi non l’ha visto. Erano centinaia. Sollevavano polvere, facevano un rumore infernale e con i loro cingoli distruggevano le strade». Per i successivi sei mesi il fronte sarebbe rimasto pochi chilometri più avanti, dividendola dal figlio Denys.
Con l’invasione, Tsyba e i suoi colleghi hanno perso contatto con il governo ucraino e per mesi sono stati ignorati dai russi, che erano concentrati su una guerra che non sembrava affatto andare come pianificato. Nel caos di quei giorni, gli impiegati pubblici come Tsyba erano l’unico punto di riferimento per centinaia di persone. «Siamo stati una specie di psicoterapeuti. Le persone ci chiamavano e noi cercavamo di rassicurarle. “Non preoccupatevi, dicevamo, faremo questo, faremo quello”. Nel frattempo mio figlio era a Kharkiv, sotto le bombe», racconta.
Ma dopo il primo shock, è ricominciata una strana normalità. C’erano nascite e morti da registrare, aiuti da distribuire e danni da riparare. Con le comunicazioni con Kiev interrotte, Tsyba scriveva in calce ai documenti ufficiali: “A causa dell’occupazione russa non possiamo protocollare questo documento”. Fortunatamente i russi non se ne sono mai accorti.
Il limbo è durato per due mesi. Poi, a giugno, i russi hanno preso il controllo dell’amministrazione locale. Tsyba racconta che il loro diretto superiore è diventato il contatto con le autorità occupanti e ha chiesto loro di continuare a lavorare. Non era una scelta allettante: «Se lavorate con me gli ucraini vi manderanno in prigione – gli aveva detto – Se non lo fate potreste finire nelle prigioni russe».
In quei giorni il parlamento ucraino aveva già approvato la legislazione che oggi costituisce la base legale per perseguire coloro che hanno collaborato con le autorità occupanti. Si tratta di due articoli del codice penale, il 111 e il 436, approvati in tutta fretta alla fine di febbraio e a metà marzo del 2022.
Secondo l’ong Zmina, che lo scorso autunno ha pubblicato un’ampia indagine sul fenomeno del collaborazionismo, gli articoli sono scritti in modo tale che qualsiasi attività condotta sotto l’occupazione può essere considerata collaborazionismo. Persino pagare le tasse può portare a una condanna.
«Gli articoli sul collaborazionismo sono scritti in un modo che non rende necessario andare a vedere le ragioni che hanno spinto una persona ad agire in un certo modo. – spiega Onysiia Syniuk, esperta legale dell’ong Zmina e coordinatrice del rapporto sul collaborazionismo – Se hai occupato una posizione nell’amministrazione, sia che si tratti di un incarico di altro livello che di un ruolo di impiegato o nei servizi sociali, allora sei colpevole automaticamente. Non c’è spazio per provare niente di diverso».
Messa davanti a una scelta impossibile, Tsyba decise di continuare a lavorare. «È quello che ho fatto per tutta la vita», dice. In più, gli abitanti del villaggio continuavano ad aver bisogno di aiuto. Fino a settembre, quando gli ucraini liberarono il suo villaggio insieme a Hroza e a gran parte della regione di Kharkiv, rimase al suo posto ricevendo uno stipendio in rubli.
L’arrivo degli ucraini, inizialmente, non portò a grandi cambiamenti. Il suo capo, come Mamon, scappò con gli abitanti, insieme a decine di altre persone compromesse con gli occupanti. Tsyba e gli altri impiegati di basso livello continuarono a fare quello che facevano sotto i russi: riparare i danni agli edifici, distribuire aiuti umanitari e cercare di dare conforto alle persone. «Ma quando le autorità ucraine ci hanno pagato il primo salario, ci hanno detto che avrebbero dovuto controllarci», dice. Il 14 settembre Tsyba ricevette una visita dagli agenti del servizio di sicurezza ucraino SBU. «“Sali in macchina”, mi dissero, e mi portarono a Shevchenkove».
Nella caserma del centro amministrativo del distretto c’era molta gente: impiegati pubblici, poliziotti, agenti di polizia e del SBU. Tsyba fu interrogata per un giorno e una notte. Anche suo marito fu chiamato a testimoniare. Alla fine, gli agenti che la interrogavano sembrarono soddisfatti, racconta. «Mi hanno detto: “Noi non abbiamo altre domande, non ci sembra che hai fatto niente di male, ma il giudice potrebbe decidere qualcosa di diverso”».
Da allora Tsyba non ha più saputo niente del suo caso, ma ancora oggi, oltre un anno dopo, non riesce a essere tranquilla. «Durante l’occupazione i russi sono venuti a casa nostra. Mio marito è un cacciatore e loro hanno portato via il suo fucile. Significa che abbiamo dato armi ai russi? Si può andare in prigione per questo».
Ma è il suo ruolo nell’amministrazione locale a preoccuparla di più. «Una delle mie colleghe è in prigione. Non sono una giurista, so solo che lei durante i bombardamenti era negli scantinati con gli altri civili, faceva il pane come lo facevo io e come me andava in giro a distribuire il latte delle fattorie. Se ha fatto altro, io non lo so». Se il caso di Tsyba dovesse arrivare a un giudice, le possibilità di finire assolta sono molto ridotte. Su quasi ottocento casi di collaborazionismo giudicati fino allo scorso ottobre, le assoluzioni sono state soltanto due.
Syniuk, l’esperta legale dell’ong Zmina, non è sorpresa dai timori di persone come Tysba. «Semplici impiegati nell’amministrazione occupante sono stati portati in tribunale e condannati – dice – e per chi fino ad ora ha evitato il tribunale non è semplice accettare le rassicurazioni che non gli accadrà niente».
I precedenti non sono incoraggianti. Il progetto giornalistico ucraino Graty, che si occupa di monitorare il sistema giudiziario ucraino, ha raccolto una serie di storie di processi per collaborazionismo. In un caso emblematico, due donne di Liman, poco più di un’ora di macchina da Kupiansk, sono state condannate per aver partecipato ai lavori del loro comitato di quartiere durante l’occupazione, un impiego volontario e non remunerato. L’accusa principale nei loro confronti è di aver contribuito alla distribuzione di aiuti umanitari forniti dalla Russia.
La legislazione sul collaborazionismo e i problemi che provoca sono stati criticati anche dalle Nazioni Unite, ma provare a modificarla è considerato politicamente tossico in Ucraina. Sui media e in parlamento c’è spazio solo per chi chiede un ulteriore inasprimento delle pene. In parlamento si sono accumulate dodici proposte di emendamento, ma nessuna che sia davvero efficace nel risolvere i problemi denunciati da Zmina. E in ogni caso, gli emendamenti sono tutti bloccati.
Nonostante il timore di politici e grandi media nell’affrontare la questione, Syniuk sostiene che l’opinione pubblica ucraina sia molto più divisa sul tema di quanto possa sembrare. «Le persone che hanno sperimentato l’occupazione a volte sono molto radicali, altre volte hanno un atteggiamento nei confronti degli indagati del tipo: “Ma non hanno fatto niente di male”. I politici invece vedono un solo lato della storia e pensano: “Perderemo consensi se facciamo qualcosa per migliorare la legge”».
A parte Zmina, media come Graty e la stampa internazionale, sono poche le istituzioni dotate di reale influenza interessate a occuparsi della questione. «Penso che non si rifletta abbastanza sulle ricadute di questa legislazione», dice Syniuk. I problemi sono parecchi, dice: dall’uso che i russi fanno di questa legislazione come tattica terroristica per ottenere la collaborazione delle persone o spingerle ad abbandonare i territori liberati, fino ai problemi che la caccia ai traditori potrebbe causare alla futura riconciliazione nazionale. «C’è tensione nelle comunità e senza comprendere cosa è davvero collaborazionismo le persone hanno già iniziato ad accusarsi le une con le altre».
Infine, c’è una questione pratica. Processi e indagini per collaborazionismo rischiano di sommergere un sistema giudiziario che è già arrivato al limite, schiacciato dagli oltre 100 mila casi di crimini di guerra russi raccolti nell’ultimo anno. Cosa accadrà se nel prossimo futuro le forze armate riusciranno a liberare nuovi territori sottoposti a occupazione? Nei territori che la Russia controlla da più tempo, come la Crimea, l’intera popolazione potrebbe essere accusata di collaborazionismo se si adottassero le interpretazioni più stringenti della legge. Questa riconquista oggi può sembrare improbabile, ma secondo Syniuk il momento di agire è questo. «Se non vogliamo finire travolti, dobbiamo iniziare a pensare adesso alla legislazione che vogliamo e al modo concreto con cui la metteremo in pratica».