• di Gaja Cenciarelli
  • Storie/Idee
  • Domenica 24 dicembre 2023

La vita è meravigliosa?

«Quel pomeriggio di dicembre, passando davanti al salotto, per prima cosa ho sentito la voce di Clarence, l’angelo di seconda classe, che parlava a James Stewart e mi sono detta che mio padre stava vedendo il suo film preferito, come da tradizione. Ero serenamente convinta di vederlo sorridere e invece il mio immutabile padre, l’uomo che non piangeva mai, stava piangendo. E quel pianto era un cambiamento. La montagna si era spostata, non c’era più nessuno che mi nascondesse. Buffo che tutto questo sia accaduto per via del film di Natale che più di ogni altro celebra l’immutabilità dei punti di riferimento»

James Stewart, Donna Reed e la piccola Karolyn Grimes in La vita è meravigliosa di Frank Capra, 1946
James Stewart, Donna Reed e la piccola Karolyn Grimes in La vita è meravigliosa di Frank Capra, 1946
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Di quel pomeriggio ricordo lo sgomento di una certezza che andava in frantumi. Ero sicura di non aver visto bene. Non potevo aver visto bene. Mi ricordo che sono ripassata in corridoio, buttando un occhio falsamente distaccato a mio padre, seduto in poltrona. Di quel pomeriggio ricordo anche il profumo del ragù, mia madre che preparava le polpette, il calore della cucina. Uno di quei momenti in cui mi sono sentita immutabile, eterna, protetta in quel pomeriggio perfetto perché prevedibile, un’abitudine confortante. Ho sempre aspirato all’immutabilità: dei fatti, delle opinioni, delle persone, delle abitudini.

Quasi tutto quello che ho imparato dai libri e dal cinema è stato mio padre a insegnarmelo. Il cinema e i libri sono categorie immutabili: ogni volta che ne ho avuto bisogno, erano lì, sempre uguali, pronti ad alimentare la mia ossessione di stabilità. La mia educazione sentimental-cinematografica era iniziata con i film di Errol Flynn, Gary Cooper e Leslie Howard: La primula rossa, Nero Wolfe, Il conte di Montecristo. Soprattutto storie di eroi, di uomini coraggiosi che, grazie all’intelligenza e alla forza di carattere, superano qualsiasi avversità.

Un campionato a parte mio padre lo riservava a Frank Capra. Era appassionato di Frank Capra. Conosceva a memoria tutti i suoi film. Mi aveva contagiato, ero diventata fan di Angeli con la pistola, soprattutto perché c’era Peter Falk, l’attore che aveva dato vita all’antieroe per eccellenza: Il tenente Colombo. Il lessico familiare prevedeva che mio padre, classe 1922, e io citassimo intere battute a memoria di Angeli con la pistola: io mi commuovevo e lui restava impassibile. Immutabile. Il mio immutabile padre, l’uomo che non piangeva mai, l’uomo che non ha pianto quando sono morte sua madre e le sue sorelle; l’uomo che, a sedici anni, ha cacciato di casa suo padre, minacciandolo di morte con una baionetta, dopo che per l’ennesima volta era tornato a casa ubriaco e aveva picchiato la moglie. Non ha pianto e non lo ha rivisto mai più. Non ha pianto nemmeno quando gli hanno detto che era morto. Mio padre, sopravvissuto alla tubercolosi, alla fame, alla prigionia nazifascista, alle trincee, alla povertà, non piangeva mai. Questa era una delle mie immutabili certezze, una delle mie confortanti abitudini. Io invece piangevo ogni volta che provavo dolore, ogni volta che provavo commozione.

Di tutti i film di Frank Capra ce n’era solo uno che non avevamo mai visto insieme: La vita è meravigliosa. È la storia di un uomo buono e generoso, devoto alla famiglia e agli amici, ma che a un certo punto si ritrova sommerso dai debiti. Tanto è disperato che, la sera della vigilia di Natale, vuole togliersi la vita. In suo aiuto arriva Clarence, angelo di seconda classe, che gli mostra come sarebbe la vita dei suoi cari senza di lui, facendogli capire che, grazie alla sua presenza, il mondo è un posto migliore. La vita è meravigliosa è il film di Natale. Non esiste canale che non l’abbia trasmesso. Ogni anno la tradizione si ripete, ci sono persone che vogliono assolutamente vederlo perché, altrimenti, non sarebbe Natale. Ormai si trova anche sulle piattaforme non a pagamento (a colori, e a spezzoni).

Quel pomeriggio di dicembre, passando davanti al salotto, per prima cosa ho sentito la voce di Clarence, l’angelo di seconda classe, e mi sono detta che mio padre stava vedendo La vita è meravigliosa da solo, come da tradizione. E ho indugiato troppo sul suo viso, serenamente convinta di vederlo sorridere con quella smorfia sorniona che, per me, è da sempre l’espressione di Roma.

Mio padre è stato sempre la chiave di lettura attraverso cui interpretavo il cinema e la vita: ho pianto quando mi ha portato a vedere E.T. Avevo dodici anni e ho pianto in una sala affollatissima, consapevole solo della presenza di mio padre accanto a me. Granitico, l’espressione sorniona. Solo una cosa si è lasciato sfuggire durante la visione: «Questa scena l’ha presa da Miracolo a Milano». I ragazzi in bicicletta stanno fuggendo e, a un certo punto, spiccano il volo, stagliandosi contro una luna immensa. Aveva ragione. E mentre io piangevo, ogni tanto gli lanciavo qualche occhiata. Lui era impassibile, appena sorridente, faceva sì con la testa, come se quel film – qualsiasi film – parlasse in una lingua intelligibile solo a lui, usando codici misteriosi, inviando messaggi segreti.

Mi potevo permettere di piangere perché mio padre non piangeva. Questo l’ho capito solo dopo. Mi piaceva abitare gli spazi oscuri che avevo dentro perché mio padre era la montagna dietro cui mi riparavo, che mi faceva ombra e mi nascondeva.

«Signore, se porterò a buon fine questa missione, potrei avere poi le ali? Sono più di duecento anni che le sto aspettando, e già si comincia a mormorare…» dice Clarence, l’angelo custode di George Bailey (James Stewart). Si ride, si prova tenerezza, ci si rilassa. C’è una famiglia, è Natale. È un film sentimentale, è rassicurante, è caldo come la cucina di mia madre quando preparava le polpette. Non può succedere niente di brutto, di nuovo, di diverso. È il film più innocuo che ci sia.

Nella scena finale, James Stewart ritorna al mondo e corre a casa, dalla sua amatissima moglie e dai figli. Smette di avere paura della vita che rischia di farlo crollare rovinosamente. Sceglie di esistere, malgrado tutto, e torna dai suoi cari. Abbracci, baci, amore, amicizia. C’è un tintinnio nell’aria e James Stewart capisce che, finalmente, Clarence ha messo le ali.

Sono rimasta inchiodata sulla soglia del salotto, quel pomeriggio di dicembre di tantissimi anni fa, perché ho sentito anche un suono che faticavo a definire o, forse, che non volevo identificare.

Mi sono fatta coraggio e, con l’andatura più disinvolta di cui ero capace, sono entrata nella stanza guardandomi in giro, fingendo di cercare un libro nello scaffale dietro la poltrona di mio padre. E in quel momento ho visto un uomo che singhiozzava, gli occhi rossi completamente inondati di lacrime. Era impossibile sbagliarsi. Stava tirando su col naso e piangeva, senza nemmeno preoccuparsi di asciugarsi le lacrime. Non mi aveva visto, non faceva caso a me. In quale spazio oscuro, solo suo, si fosse perso in quel momento non era dato sapere. Lo stesso spazio oscuro che, molti anni dopo, lo fece scoppiare in un pianto disperato quando morì il nostro gatto.

Io, del resto, non sapevo più chi era mio padre.

Che cosa aveva pensato lui, in tutti quegli anni? Chi credevo che fosse, mio padre? Quali erano i suoi veri sentimenti?
Non lo sapevo. Non l’ho mai saputo. Forse non l’ho mai voluto sapere, forse volevo fingere che non ne avesse o che, diversamente da me, sapesse tenerli a bada perché era più forte. Ma non era così. Non era così. Papà, non sei quello che credevo, pensai. E adesso in cos’altro posso credere?
Volevo abbracciarlo, consolarlo. La sua fragilità mi annientava. Non era mio padre, non era mio padre. Non avrei saputo nemmeno da dove cominciare, per consolarlo. Lui continuava a piangere anche durante i titoli di coda, immobile, in poltrona.

Sono tornata in cucina, sconvolta. Mamma, ho detto a bassa voce. Mamma, è successa una cosa tremenda. Forse papà sta male.
Che cos’ha? Mia madre aveva alzato la testa di scatto.

Papà stava vedendo La vita è meravigliosa e si è messo a piangere. Papà sta piangendo, singhiozza. Che dobbiamo fare? Veniva da piangere anche a me, mentre parlavo. C’era qualcosa di irrecuperabile, irredimibile in quel pianto.

Mia madre, con una scrollata di spalle, aveva risposto: E vabbè, lascialo stare.
Non capivo più nemmeno lei. Lasciar stare mio padre che piangeva? Com’era possibile non preoccuparsi? Dovevamo aiutarlo.
Ma… non è che sta male?
Ma quale male. Sta solo piangendo.

Come se anche quel pianto fosse un codice che condividevano tra loro, in una lingua intelligibile soltanto tra pari e da cui io ero esclusa. Come facevo a spiegare a mia madre che non era normale che mio padre piangesse? Come avrei potuto farle capire che il pianto di mio padre era la fine del mondo come lo conoscevo?

Io volevo una spiegazione. Volevo che quell’evento sconosciuto e inaspettato potesse essere definito e circoscritto dalle parole giuste. Avrei avuto meno paura, se fossi riuscita a chiamarlo in qualche modo. Ma la spiegazione non arrivò mai. Avevo troppa paura di chiedere a mio padre. Mia madre non mi avrebbe seguito sulla strada della paura dei cambiamenti, era un percorso che aveva intrapreso molti anni prima di me e sapeva che la pietà non avrebbe fatto altro che dimezzare i miei tempi di reazione. Ma quel pianto era un cambiamento. La persona che ai miei occhi era stata sempre forte, incrollabile, impermeabile ai mutamenti, era cambiata. La montagna si era spostata, non c’era più nessuno che mi nascondesse.

Buffo che tutto questo sia accaduto per via del film di Natale che più di ogni altro celebra l’immutabilità dei punti di riferimento.

L’impossibilità di avere una spiegazione per quel pianto mi ha paralizzata. È stato lo scroscio violento, lo strappo. Non c’erano abbastanza lacrime per quel dolore e quindi ho smesso di piangere anche io. In qualche oscuro spazio dentro di me credevo che la vita avesse smesso per sempre di appartenermi.

Non ho pianto quando è morta mia madre, né mio padre, né quando ho perso tutto. Ho pianto solo, e disperatamente, quando è morta la mia gatta, piango sempre quando, a Natale, vedo La vita è meravigliosa.

– Leggi anche: Frank Capra e le cose meravigliose

Gaja Cenciarelli
Gaja Cenciarelli

Vive e lavora a Roma. È specializzata in scritture femminili, in letteratura anglo-irlandese e dei paesi di lingua inglese. Sta ritraducendo tutta l'opera di Flannery O'Connor. Tiene corsi di traduzione e insegna lingua e letteratura inglese. Il suo ultimo romanzo è Domani interrogo (Marsilio).

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