I tatuaggi sono cambiati da quando possiamo rimuoverli?

Le tecnologie laser che permettono di eliminarli sono sempre più efficaci e sicure e forse li hanno resi meno indelebili

(Patrick Smith/Getty Images)
(Patrick Smith/Getty Images)

Negli ultimi anni molte persone famose e comuni hanno raccontato e mostrato sui social network la rimozione di un proprio tatuaggio. Per esempio nel 2018 la showgirl Belén Rodríguez pubblicò su Instagram il video di una seduta per eliminare il tatuaggio che condivideva con l’ex marito Stefano De Martino dopo la fine della loro storia; lo scorso settembre la conduttrice televisiva Ema Stokholma ha fatto lo stesso, dicendo di volersi far rimuovere i tanti tatuaggi che le ricoprono il corpo e invitando gli altri a non farsene.

 

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Su TikTok invece ci sono molti video di persone che mostrano la pelle prima e dopo le sedute o che si levano in diretta la fasciatura facendo vedere eventuali pustole e arrossamenti. Queste testimonianze hanno contribuito a far parlare e a normalizzare l’idea della rimozione dei tatuaggi, che vent’anni fa era ancora una pratica non molto comune: era dolorosa, poteva lasciare cicatrici, non garantiva la scomparsa totale del tatuaggio ed era molto lunga e costosa.

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In parte è ancora così, come sottolinea Luca Font, che da 15 anni è uno dei tatuatori più noti a Milano: «rimuovere dei pezzi anche solo di medie dimensioni è molto lungo, costoso e faticoso: penso che sia qualcosa a cui si ricorre in extrema ratio, mi sembra che le persone preferiscano passare da altri modi, per esempio coprendoli con altri tatuaggi». Infatti un tatuaggio, anche se piccolo, non si cancella in una sola seduta: in base alla tecnologia utilizzata e al tipo di tatuaggio ne servono dalle 6 alle 12, distanziate un mese mezzo o due di tempo l’una dall’altra e con un costo che parte da circa cento euro a seduta. Inoltre rimuovere un tatuaggio è più doloroso che farlo, non è detto che scompaia del tutto né che la pelle tatuata ritorni esattamente come quella attorno che non lo è mai stata.

Sempre Font racconta che nella sua esperienza non ha visto tanti tatuaggi rimossi completamente: «è una tecnologia utilizzata di più per alleggerirli, per scolorirli un po’ e farci sopra qualcos’altro, e per questo anche io la consiglio. Tra le cose tolte del tutto che ho visto, i risultati sono abbastanza discutibili: dopo 10 sedute di laser ancora un filo si vedeva». Font ricorda anche che «a metà degli anni Dieci sembrava che la rimozione con il laser sarebbe stata il business del futuro» e che alcuni istituti di tatuaggi discutevano se offrire a propria volta questo servizio. «Ma poi è una cosa che è morta nel nulla e da allora a me non sembra che ci sia stata una flessione nelle coperture o nel ritocco dei lavori vecchi».

Secondo i dati di un’indagine condotta dall’Istituto superiore di sanità e realizzata su un campione di circa 8.000 persone rappresentative della popolazione italiana dai dodici anni in su, nel 2015 le persone tatuate erano 6,9 milioni, circa il 12,8 per cento del totale, che saliva al 13,2 per cento considerando anche chi si era rimosso i tatuaggi. Il 92,2 per cento di chi aveva almeno un tatuaggio ne era soddisfatto, il 17,2 diceva di volerne rimuovere almeno uno e tra questi il 4,3 per cento lo aveva fatto. La ricerca non specificava come fossero stati rimossi, ma molto probabilmente nella maggior parte dei casi si era ricorsi alla tecnologia laser, quella più diffusa dagli anni Novanta.

Angelina Jolie con l’allora marito Billy Bob Thornton: sul braccio si vede il tatuaggio con il nome di lui che lei si fece rimuovere dopo il divorzio, nel 2003. La foto è stata scattata il 31 luglio 2001 a Hollywood, California (Vince Bucci/Getty Images)

Prima dell’utilizzo della tecnologia laser, introdotta lentamente dagli Sessanta, i tatuaggi venivano eliminati attraverso metodi meccanici o chirurgici che però erano molto dolorosi, lasciavano spesso cicatrici e avevano effetti collaterali. Per esempio, tra i metodi meccanici, la salabrasione consisteva nella cancellazione del pigmento di colore bruciando il tessuto di pelle con il cloruro di sodio, mentre la dermoabrasione rimuoveva l’inchiostro sfregando e carteggiando lo strato superficiale della pelle. Tra i metodi chirurgici c’erano la criochirurgia, che necrotizzava i tessuti applicando azoto liquido, e l’asportazione di piccole aree del corpo in zone facili da trattare.

La tecnologia laser per asportare i tatuaggi venne utilizzata per la prima volta nel 1967 dal dermatologo Leon Goldman: il tatuaggio oggetto della procedura scolorì, ma restarono delle cicatrici. Negli anni Ottanta si riprovò con i laser ad anidride carbonica, che però erano sempre dolorosi, comportavano cicatrici e richiedevano l’anestesia.

In quegli anni i medici John Parrish e Rox Anderson formularono il concetto di fototermolisi selettiva, che ancora oggi è alla base della rimozione dei tatuaggi con il laser e che funziona in questo modo: si indirizzano sulla parte di pelle da trattare degli impulsi laser di brevissima durata, nell’ordine del miliardesimo di secondo (nanosecondi) o del millimiliardesimo di secondo (picosecondi), che hanno un’altissima energia per un singolo impulso. Il laser raggiunge il pigmento di inchiostro, che si trova nel derma, lo strato più profondo della pelle, e lo riduce in granuli che vengono smaltiti dall’organismo nei giorni successivi al trattamento, ovvero vengono “mangiati” dalle cellule del sistema immunitario, come i macrofagi, e smaltiti attraverso i reni o il fegato.

I frammenti di pigmento non vengono sempre smaltiti del tutto, ma possono restare in circolo o venire depositati nei linfonodi: come spiega il dottor Marco Iera, specialista in chirurgia plastica, estetica e ricostitutiva, il pigmento «è sempre un corpo estraneo e l’organismo tenta in qualche modo di riassorbirlo». La durata di una seduta varia dai 5 ai 15 minuti a seconda del tipo di laser utilizzato e, come detto, non ne basta una ma possono esserne necessarie anche una decina o più. Dopo ogni seduta è meglio evitare l’esposizione solare e della luce delle lampade abbronzanti per almeno un mese.

Al momento si utilizzano principalmente i laser Q-Switched e i Picolaser (che si distinguono in PicoSure e l’ancora più recente PicoWay), che prendono il nome dalla velocità con cui la luce emette le pulsazioni, cioè rispettivamente in nanosecondi o in picosecondi, e che lavorano su quattro lunghezze d’onda (532nm, 755nm, 1064nm, 1320nm). I Q-Switched si diffusero negli anni Novanta e venivano utilizzati anche per rimuovere pigmentazioni cutanee, lentiggini, contro l’acne e per i peeling. I Picolaser sono più recenti e considerati all’avanguardia: rompono i pigmenti in particelle 100 volte più piccole rispetto ai Q-Switched, facilitandone l’eliminazione dal sistema linfatico. Inoltre richiedono solitamente meno sedute, che sono più brevi e meno dolorose.

Molti però continuano a lavorare con il laser Q-Switched, per esempio il dottor Iera lo preferisce «perché è meno aggressivo: dopo la rimozione laser la pelle subisce sempre un trauma e delle volte ci può essere una cicatrizzazione ipertrofica se si lavora con delle potenze molto traumatiche», come quelle più potenti dei Picolaser.

Va anche detto che non esiste un laser migliore di un altro, ma dipende dal tipo di tatuaggio: per esempio quelli neri scoloriti nelle tinte del blu, del verde e del viola e quelli nei colori pastello vengono via meglio con i Picolaser; a volte si utilizzano prima i Q-Switched e poi si conclude con i Picolaser per eliminare eventuali aloni dovuti alla presenza dei frammenti di pigmenti. In alcuni casi la rimozione non avviene del tutto, soprattutto se i tatuaggi sono multicolori, mentre quelli eseguiti dai professionisti sono più difficili da trattare di quelli fatti da amatori perché i pigmenti si depositano più in profondità.

La possibilità di rimuovere i tatuaggi, al di là della sua realizzazione effettiva, potrebbe comunque aver cambiato il modo in cui i tatuaggi vengono percepiti. L’Atlantic racconta per esempio che chi appartiene alla cosiddetta generazione Z (cioè i nati tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Dieci) si fa ormai un tatuaggio con la consapevolezza che, volendo, potrà rimuoverlo. Per le generazioni precedenti si trattava invece di qualcosa di indelebile, che diventava parte del proprio corpo per sempre.

Non significa che per questo i tatuaggi vengano fatti con più leggerezza rispetto a prima, anche perché in molti si tatuavano d’impulso già trent’anni fa; non significa nemmeno che vengano fatti con l’idea di cancellarli se non piacciono più, perché molte persone, anche adesso, preferiscono mantenere un tatuaggio in cui non si riconoscono perché rappresenta un momento della propria vita e quel che si è stati a un certo punto. È possibile, però, che stia avvenendo un ripensamento del concetto di tatuaggio in sé, com’era già accaduto nell’Ottocento e poi nel Novecento, quand’erano diventati sempre più popolari e utilizzati per esprimere la propria individualità e unicità. Secondo Font, rimozione a parte, «i più giovani hanno un atteggiamento più disinvolto nel tatuarsi non perché lo possono togliere ma perché è sdoganato, anche in zone dove prima non lo era, per esempio dai cantanti trapper».

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I tatuaggi esistono dai tempi antichi (la cosidetta mummia di Similaun, ritrovata in Trentino-Alto Adige nel 1991, è il primo essere umano tatuato di cui si conosca l’esistenza: visse tra il 3.300 e il 3.100 a.C. e aveva 61 tatuaggi) ma a lungo il loro significato era diverso a seconda della cultura di appartenenza. Per esempio nell’Antica Roma venivano utilizzati per marchiare gli schiavi e, racconta sempre l’Atlantic, «in molte comunità un tatuaggio era segno di appartenenza, di riuscita: un uomo poteva riceverne uno dopo aver combattuto in battaglia» ed era «il tatuaggio non un tuo tatuaggio».

Lars Krutak, antropologo studioso di tatuaggi, ha raccontato di aver parlato della possibilità di rimuovere i tatuaggi con persone anziane di alcune comunità, come i Konyak Naga in India e i Kalinga nelle Filippine, e tutti dicevano che «non riesco nemmeno a rispondere, nessuno penserebbe mai di togliersi un tatuaggio».

Nel Medio Evo, in Europa, si tatuavano i pellegrini che tornavano da Gerusalemme in ricordo del viaggio e dal Cinquecento divenne comune tra i marinai: era un modo per identificarsi inequivocabilmente se si fosse annegati in mare o fatti prigionieri. Nell’Ottocento i marinai statunitensi si facevano tatuaggi di persone care o date importanti e li indicavano nelle prime forme di passaporti sempre per poter essere riconoscibili ed evitare la coscrizione nella marina militare britannica, che avveniva di frequente (e da cui erano esenti in quanto cittadini americani e non britannici). Nello stesso secolo i tatuaggi si diffusero tra i nobili europei: erano per esempio tatuati Edoardo VII d’Inghilterra, Giorgio V, e lo zar Nicola II.

Nel Novecento, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, iniziarono a tatuarsi anche persone della classe media e borghese per indicare l’appartenenza a una controcultura. Dagli anni Ottanta popstar e calciatori hanno reso i tatuaggi ancora più popolari e mainstream, sdoganandoli e trasformandoli in una moda, in un ornamento, in una forma d’arte (tant’è che i tatuatori iniziarono a chiamarsi tattoo artist) e in un’espressione strettamente individuale, per ricordare o raccontare qualcosa di sé.