Storia della lotta in classe

«In questi giorni di fine di ottobre, le mie lezioni vengono interrotte dai candidati delle liste scolastiche che mi chiedono cinque minuti per presentarsi. Negli anni ho visto perdersi pressoché del tutto i riferimenti ideologici – non solo comunismo, cattolicesimo, fascismo etc… ma anche semplicemente destra e sinistra – rimpiazzati dall’orizzonte quasi ansiogeno dell’apoliticità»

Manifestazione degli studenti contro l'arrivo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Torino per la conferenza Stato Regioni. Piazza Castello, Torino, 3 ottobre 2023 (ANSA/TINO ROMANO)
Manifestazione degli studenti contro l'arrivo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Torino per la conferenza Stato Regioni. Piazza Castello, Torino, 3 ottobre 2023 (ANSA/TINO ROMANO)
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La stragrande maggioranza degli studenti ignora l’esistenza dello Statuto degli studenti e delle studentesse (si può scaricare facilmente dal sito del ministero), un documento che li riguarda direttamente e contiene le regole per tutelarne i diritti e ricordarne i doveri. E lo ignorano, almeno nei fatti, anche molti docenti. È un testo molto chiaro e ispirante, del 1998; ecco una breve citazione che ne enuclea lo spirito:

Lo studente ha diritto alla partecipazione attiva e responsabile alla vita della scuola. I dirigenti scolastici e i docenti, con le modalità previste dal regolamento di istituto, attivano con gli studenti un dialogo costruttivo sulle scelte di loro competenza in tema di programmazione e definizione degli obiettivi didattici, di organizzazione della scuola, di criteri di valutazione, di scelta dei libri e del materiale didattico. Lo studente ha inoltre diritto a una valutazione trasparente e tempestiva, volta ad attivare un processo di autovalutazione che lo conduca a individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento.

Questo testo è uno dei molti esempi di come la scuola italiana possa essere uno spazio dove si impara insieme a costruire la democrazia, dove si può fare educazione politica. Invece ogni volta che si intravede una manifestazione studentesca particolarmente partecipata, il ministro dell’Istruzione (e del Merito) Giuseppe Valditara si sente in dovere di intonare uno dei refrain della destra al governo: «A scuola si studia, non si fa politica».

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Non solo per questo statuto, il ruolo di studentesse e studenti nella scuola dovrebbe, al contrario, essere quello di soggetti politici che contribuiscano alla riflessione e alle decisioni sul progetto educativo che li coinvolge. Dovrebbe essere così, ma non è quasi mai così. Eppure tra le differenze con le scuole medie che più sorprendono gli studenti over 14 c’è quella di essere chiamati a votare per eleggere i loro rappresentanti, di classe e d’istituto. Questa possibilità di democrazia sorprende perché le sue origini e il suo senso vengono quasi ignorate, e non discusse in classe dagli stessi docenti: se c’è qualcosa di cui praticamente non si parla mai a scuola è proprio la scuola.

Proprio in questi giorni, come sempre alla fine di ottobre, le mie lezioni vengono interrotte dai candidati delle liste scolastiche che mi chiedono cinque minuti per presentarsi. Prof, disturbiamo? Tra domande e risposte i cinque minuti diventano venti, ma chi abbia un po’ di dimestichezza con la politica studentesca del Novecento si troverebbe spiazzato: negli anni ho visto perdersi pressoché del tutto i riferimenti ideologici – non solo comunismo, cattolicesimo, fascismo etc… ma anche semplicemente destra e sinistra – rimpiazzati dall’orizzonte quasi ansiogeno dell’apoliticità. Noi siamo una lista apolitica era il disclaimer più invalso fino a qualche anno fa, oggi nemmeno serve specificarlo. Anche i programmi volano spesso basso: vogliamo un distributore in più al piano terra, proponiamo che la ricreazione duri cinque minuti in più, vogliamo mediare con la preside per ottenere la possibilità di entrare fino alle 8 e 10 alla prima ora… Se nel mondo degli adulti il conflitto è sparito, è normale che si veda poco anche tra i ragazzi. Così spesso le autogestioni diventano cogestioni, perché non vogliamo fare la guerra ai professori.

In tante scuole esistono e sono vivi e diffusi movimenti studenteschi fortemente politicizzati, da Osa a Cambiare rotta, dalle reti femministe a quelle ecologiste, ma sono minoranze, embrioni, avanguardie oppure gli ultimi sopravvissuti di una lunga storia. Perché nella scuola italiana non è sempre andata così.

La data chiave per la storia politica della scuola risale esattamente a cinquant’anni fa, un anniversario passato del tutto in sordina, quando tra il luglio 1973 e il maggio 1974 fu emanata una serie di norme note come “decreti delegati” (in realtà erano una legge delega e 5 decreti del presidente della Repubblica). In particolare è importante il decreto 416 del 1974 che si occupa dei cosiddetti organi collegiali, le assemblee con potere decisionale che oggi costituiscono l’infrastruttura democratica della scuola: consigli di classe, collettivi, consigli di istituto, assemblee d’istituto, giunta d’istituto.

Il nostro incipit è il febbraio 1966. In una scuola superiore di Milano avviene l’episodio che viene considerato storicamente l’innesco di tutto il Sessantotto italiano. Sulla Zanzara, il giornale studentesco del liceo Parini di Milano, viene pubblicata un’inchiesta su quello che «pensano le ragazze d’oggi» dove si affronta la questione del sesso con relativa libertà, al di là dei condizionamenti della morale e della religione. Ne nasce uno scandalo, l’esito del quale è l’incriminazione del preside e dei tre autori dell’articolo, tutti minorenni (che saranno poi assolti), con il ricorso alla visita medica, cioè all’ispezione corporale, prevista da una circolare fascista.

Un titolo dell’Espresso sul processo agli studenti del Liceo Parini di Milano nel 1967

È la prima presa di parola da parte degli studenti, ne seguiranno migliaia in tutta Italia, trasformandosi in picchetti, mobilitazioni permanenti e nei primi “scioperi studenteschi”. L’anno successivo, il 1967, le piazze si riempiranno di studenti tra cui molti minorenni, e la pubblicazione di Lettera a una professoressa di don Milani farà deflagrare la politicizzazione del mondo della scuola. Come recita in stampatello l’avvertenza in testa al libro di don Lorenzo Milani e dei ragazzi di Barbiana, «QUESTO LIBRO NON È SCRITTO PER GLI INSEGNANTI, MA PER I GENITORI. È UN INVITO A ORGANIZZARSI».

(Qualche giorno fa, dopo la presentazione di una lista in classe, ho chiesto: avete mai sentito parlare di don Milani? Non lo conosceva nessuno).

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In realtà i genitori, anche loro, avevano cominciato a organizzarsi. Nel 1968 nasce l’Associazione genitori a livello nazionale (Age), con sede a Roma; ed è presentato un disegno di legge per la costituzione obbligatoria di un comitato genitori in ogni scuola. Si diffonde la convinzione che la frattura tra scuola e famiglia sia dannosa e debba essere sanata a livello collettivo, tanto che le associazioni di genitori sorgono come funghi in tutta Italia.

Anche le attuali, abusate lagnatio sulla noia e sterilità delle chat dei genitori, dove i dibattiti si riducono a pettegolezzi o agli accordi per i regali agli insegnanti, potrebbero essere lette alla luce di quel tempo non lontanissimo in cui molti si sentivano coinvolti in battaglie politiche a scuola. «Sia gli studenti che i professori si trovano in una situazione di non potere», scrivono gli studenti del Parini su un numero della Zanzara del 1970.

Non era un’iperbole. Nello stesso anno le assemblee degli studenti a scuola cominciano a essere sciolte dall’intervento della polizia; nel 1971 fa scalpore il divieto da parte di un preside di un incontro con Sandro Pertini organizzato dagli studenti. Il cammino della democrazia scolastica è accidentato; proprio per questo vale la pena ricordarlo. Quando viene approvata, la riforma dei decreti delegati è contestata perfino da una percentuale non piccola di quegli stessi studenti che l’avevano sostenuta perché, secondo loro, l’apertura concessa rischiava di riprodurre le stesse forme di oligarchia attive nel resto della politica: la ristretta democrazia rappresentativa degli organi collegiali sarebbe servita solo a ridurre la potenza di una vera democrazia diretta.

Nonostante le contestazioni alle prime elezioni – febbraio 1975 – per consigli d’istituto, collegi docenti, consigli di classe partecipano 20 milioni di persone, con una percentuale media di oltre l’80 per cento: una tra le elezioni più partecipate della storia repubblicana. Sono numeri che oggi sarebbero impossibili anche per le elezioni politiche, e che chiaramente sono molto distanti dalle percentuali medie delle attuali elezioni scolastiche, intorno al 20 per cento. Ma sono numeri che confutano le tesi di chi si ostina a rubricare il Sessantotto italiano come apoteosi della crisi di autorevolezza della scuola – esempi recenti, nel 2023: La rivoluzione del merito di Luca Ricolfi e L’equivoco don Milani di Adolfo Scotto di Luzio – mistificando, fino a rimuoverlo, il portato rivoluzionario di quel tempo, piuttosto breve, in cui anche per il sistema formativo italiano cambiò moltissimo, se non quasi tutto.

La domanda è che cosa rimanga di quella stagione. Perché oggi è così difficile convincere qualcuno a candidarsi al consiglio di classe? È vero che le liste degli studenti sono poche e spesso confuse dal punto di vista politico, ma quelle dei genitori? Non esistono. E quelle dei docenti? Praticamente nemmeno quelle. Come fanno i ragazzi ad appassionarsi alla politica se per gli adulti la politica sembra una scocciatura? Così l’attivismo di molti professori si riduce spesso ai meri compiti burocratici, e la loro presenza è in genere invisibile in tutti i collegi docenti; così le assemblee studentesche non di rado vedono una partecipazione di 30 o 40 persone.

Durante la pandemia si diceva che il rapporto tra famiglie e scuole non sarebbe dovuto tornare alla normalità – «perché la normalità era il problema» – e invece è rimasto identico, se non peggiorato. Si poteva sperare in un cambiamento perché durante i lunghi mesi della Dad si era avuta come una doppia epifania: i genitori avevano potuto rendersi conto di quello che accade in classe (professori spesso in crisi, inadeguati, lezioni deprimenti…) e i docenti avevano avuto accesso alle case dei loro studenti (spazi per studiare carenti, situazioni famigliari complicate, assoluta disomogeneità sociale…). Non è andata così.

Oggi quando si parla di rapporto tra scuole e famiglia si usa un termine scolastico – comunità educante – ma nei fatti questa comunità è ben poco coesa. Ben poco comunità. Succede così che nello spazio dove dovremmo imparare la democrazia – e quindi anche il conflitto – impariamo a trattare tutto come un sondaggio o un derby. Invece di sentirci parte di una comunità educante ci ritroviamo impigliati in una sorta di guerriglia educante, a difesa degli interessi particolari di una delle componenti scolastiche: che sia lo spirito corporativo dei prof, la reputazione dei rispettivi figli, il brulichio della chat dei genitori, il moralismo di adulti che stigmatizzano i ragazzi.

Se l’apparato circolatorio di una democrazia non viene irrorato di sangue, quel corpo diventa anemico. Quello che accade nel dibattito parlamentare, debilitato dall’astensionismo e dal decisionismo, accade anche alle superiori. Però di questo enorme astensionismo scolastico – in particolare di studenti e genitori – non si parla mai quando si discute della crisi della scuola e delle molte emergenze educative che coinvolgono i rapporti tra adulti e ragazzi. Nel passaggio di testimone tra una generazione e l’altra, la politica è l’eredità che non viene trasmessa. La scuola non è soltanto un luogo dove non ci si educa alla democrazia, ma diventa uno spazio dove ci si educa all’astensionismo e all’inerzia.

Questa relazione tra scuola e famiglia ridotta a poco più di una sospettosa cortesia potrebbe essere davvero lo spazio di una sfida politica invece. Quando faccio i colloqui con i genitori, e mi chiedono: Che posso fare per mio figlio?, ci ragioniamo insieme, e poi prolungo il colloquio di un altro minuto. Gli dico: Perché non si candida a rappresentante? Perché non segue un po’ di più le attività della classe? Perché non pensa a cosa può fare per i figli degli altri? Per gli altri genitori?

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Christian Raimo
Christian Raimo

Nato nel 1975 a Roma, dove ancora vive, insegna filosofia e storia al liceo. Collabora con diverse testate, fa parte del progetto di giornalismo indipendente Sveja. Ha pubblicato da poco il podcast Willy, una storia di ragazzi. Il suo libro più recente è L’ultima ora (Ponte alle Grazie, 2022).

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