• di Giampaolo Cadalanu
  • Storie/Idee
  • Venerdì 6 ottobre 2023

Il silenzio dall’Afghanistan

«Dopo una quindicina di viaggi da inviato, il ricordo delle persone ha finito per diventare più solido. Con gli afghani ho parlato in una lingua fatta in parti uguali di parole inglesi e gesti italiani, ho riso, mangiato i ravioli di montone e bevuto innumerevoli tè. Ma non riesco a immaginare una strada per riprendere i contatti con chi è rimasto»

Un ragazzo alla manifestazione per il secondo anniversario del ritiro della Nato e il ritorno ai poteri dei talebani. Kabul, 15 agosto 2023 (Nava Jamshidi/Getty Images)
Un ragazzo alla manifestazione per il secondo anniversario del ritiro della Nato e il ritorno ai poteri dei talebani. Kabul, 15 agosto 2023 (Nava Jamshidi/Getty Images)

L’unico che ancora risponde al vecchio numero è l’interprete. È un pashtun, ha legami etnici con i talebani e già ai tempi dell’intervento occidentale borbottava commenti critici verso gli americani. Adesso si è riciclato per diventare una specie di tour operator con la benedizione del gruppo al potere a Kabul. Il suo profilo WhatsApp propone come immagine la foto di una chiacchierata con un signore barbuto, avvolto in una sciarpa nera a righine. È Zabihullah Mujahid, il portavoce ufficiale degli “studenti coranici” [la traduzione della parola talebani, ndr].

Dagli altri amici rimasti in Afghanistan non arrivano più segnali. È impossibile sapere che cosa sta succedendo e come stanno. Ed è inutile provare a cercare le donne, neanche quelle che al tempo erano state coraggiose al punto da parlare con un giornalista italiano: oggi nell’Emirato islamico non c’è spazio per loro. Sono tornate al silenzio, a un ruolo nascosto, relegate in casa, lontane da ogni contatto con l’esterno.

L’Afghanistan, e soprattutto gli afghani, non si possono dimenticare. Dopo una quindicina di viaggi per lavoro qualche immagine si è un po’ sbiadita, ma il ricordo delle persone ha finito per diventare più solido. Con gli afghani ho parlato, a volte inventando un linguaggio fatto in parti uguali da parole inglesi, gesti italiani e universali. Ho riso, mangiato i ravioli di montone e bevuto innumerevoli tè.

Ho provato a comunicare in qualche modo con i fantasmi azzurri coperti dal burqa e mi è capitato di gridare per avvertire i bambini che giocavano con un razzo inesploso nel cortile del palazzo bombardato di Amanullah Khan. E mi fa male pensare che oggi, ventidue anni dopo l’avvio dell’operazione Enduring Freedom che avrebbe dovuto liberare il paese e a due dal ritiro degli Stati Uniti dalla capitale Kabul, ottenere un visto dal regime talebano che oggi governa il paese è diventato quasi impossibile e ogni legame con gli amici di un tempo è stato reciso.

Qualcuno se n’è andato, qualcuno è scomparso del tutto. Solo Fawzia Koofi – il suo nome possiamo farlo, è un personaggio pubblico e ha lasciato l’Afghanistan – continua a parlare liberamente. L’ex vicepresidente del Parlamento e attivista per i diritti delle donne ogni tanto si fa viva da qualche città europea, si azzarda a promettere che tornerà in patria, che non pensa ad altro. Chissà se si ricorda del nostro ultimo incontro, nei mesi precedenti al ritiro del contingente militare NATO, quando si era lasciata andare all’ottimismo. Allora aveva ancora un braccio fasciato per un proiettile dei fondamentalisti, ma voleva a tutti i costi confidare nelle istituzioni governative elette durante il periodo di presenza statunitense: «Dovranno fare qualche compromesso con i talebani, ma reggeranno. Non sono pessimista. Gli afghani hanno sperimentato la libertà, non accetteranno di tornare indietro».

La storia ha deluso Fawzia. Sotto la guida di una figura misteriosa come il mullah Hibatullah Akhundzada, il paese è tornato quella strana miscela fra islam, medioevo e modernità, che vale solo per l’accesso dei comandanti alle comunicazioni globali, mentre il resto della popolazione langue in una crisi economica senza sbocchi ed è tagliata fuori da ogni contatto con il resto del mondo.

Il regime non ha accettato nessun compromesso: persino l’impegno solenne preso a Doha con gli Stati Uniti di non ospitare organizzazioni terroristiche in grado di pianificare attentati all’estero è stato smentito dalla scoperta che Ayman al Zawahiri, leader di al Qaida, era ospite a Kabul di un ministro talebano. La CIA lo ha individuato ed eliminato, ma è morta anche ogni illusione sull’atteggiamento del governo degli “studenti coranici”. E anche se i talebani tenessero fede all’impegno, a preparare attentati ci pensa l’Isis-Khorasan, organizzazione terroristica odiata dagli “studenti” ma ben radicata nel contesto dell’Emirato integralista.

Per Malalai Joya, un’attivista definita dalla BBC “donna più coraggiosa del mondo”, non dev’essere cambiato molto: anche con il vecchio regime era costretta a dare interviste in clandestinità. Però aveva sempre voglia di ridere e di misurare il suo punto di vista con altri: mi vien voglia di andarla a cercare in Spagna, dove si è rifugiata, per riprendere qualche discussione mai finita.

Ma non riesco a immaginare una strada per riprendere i contatti con chi è rimasto in Afghanistan. Chissà dove sono i ragazzi che avevano scelto un nome ingenuo come “Ambasciatori di gentilezza”. Li avevamo incontrati nel caffè di L., a bere tè allo zafferano: due chitarre, un violino e soprattutto la voce della giovanissima M., gli occhi a mandorla degli hazara, che suonavano in mezzo alla polvere e agli scarichi delle auto per raccogliere soldi per i bambini senza famiglia.

La padrona del ristorante, L., sarà sicuramente a Dubai o dovunque i dollari messi da parte le abbiano permesso di rifugiarsi. Nei giorni scorsi i talebani hanno emesso un decreto che vieta i caffè con giardino, colpevoli di favorire innocenti incontri fra i due sessi. Non so nemmeno immaginare dove avranno nascosto le chitarre i quattro adolescenti che mi avevano ospitato nel loro soggiorno, perché con l’aiuto di un video su YouTube gli insegnassi la musica di “Bella ciao”. E  che cosa avranno fatto S. e J., studenti della scuola americana? Davanti a una spremuta di melagrane, lui raccontava di sognare una carriera come ingegnere e lei di voler diventare una diplomatica e poi entrare in politica e – sempre se Dio lo vorrà – anche diventare la prima presidente donna dell’Afghanistan. Dove saranno, oggi? Avranno trovato il modo di fuggire attraverso l’Iran o saranno rimasti, lei in casa e lui nei prati della periferia, a guardare l’unica capra di famiglia?

Ho perso ogni collegamento con H., reporter per una rete internazionale a Herat, che si era prestato con grande pazienza ad ascoltare una “chiacchierata” sul giornalismo investigativo organizzata dal contingente militare italiano. Lui era un veterano che per lavorare doveva prima di tutto sopravvivere agli attentati e respingere le minacce degli integralisti. I siti specializzati riferiscono di omicidi senza sosta fra gli operatori dell’informazione. Spero solo che H. abbia cambiato nome e mestiere.

Mi fa male pensare tutto quello che è svanito dopo la decisione americana di lasciare l’Afghanistan. Mi piacerebbe che il mondo non lo dimenticasse. Mi chiedo che cosa avrà fatto l’autista S. che voleva a tutti i costi portarmi a casa sua nella provincia del Logar a mangiare kabuli pilau, il riso con mandorle e uva passa, ma che poi era stato costretto a rimangiarsi l’invito, perché «adesso i talebani sanno che lavoro con gli occidentali, non posso ritornare neanch’io». Era sopravvissuto a una bomba stradale che gli aveva distrutto la Toyota Corolla, sono sicuro che avrà trovato una strada per lasciare il paese. E che ne sarà stato di F., il giovane tagiko che era stato allevato dai sovietici dopo l’invasione del 1979, e che era rimasto spaesato e incredulo a vedere Sylvester Stallone sconfiggere i russi cattivi nel film Rambo III?

– Leggi anche: Vent’anni di guerra al terrore

Giampaolo Cadalanu
Giampaolo Cadalanu

Segue da oltre trent'anni le crisi e i conflitti in mezzo mondo, ed è stato per molti anni inviato di Repubblica.

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