Gli odiatissimi token dei concerti

Sono spesso l'unico modo per acquistare cibo e bevande, ma è un sistema che causa molti problemi e di cui gli spettatori si lamentano da anni

fan di vasco rossi a san siro
Fan di Vasco Rossi a San Siro nel 2019 (Carlo Cozzoli/LaPresse)
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Negli ultimi anni si è molto diffuso l’utilizzo di monete alternative valide solo all’interno di concerti, festival o grandi eventi: i cosiddetti token. Sono in sostanza gettoni che sostituiscono i contanti o le carte di credito e che servono per fare qualsiasi acquisto, soprattutto di cibo e bevande. Da quando furono introdotti, una decina di anni fa, sono cambiate molte cose – i pagamenti digitali sono molto più diffusi e sono state sviluppate app e altri sistemi per evitare le code – eppure i token sono sopravvissuti e continuano a essere la forma di pagamento prediletta da chi organizza i concerti.

Non è cambiata, invece, la loro reputazione tra le persone che partecipano ai grandi eventi: i token sono sempre stati odiatissimi e continuano a esserlo anche oggi.

I token si presentano come gettoni di plastica colorata e sono venduti all’interno delle aree dove si tengono i concerti. Il loro valore viene deciso dagli organizzatori. Può essere di un euro a token, oppure anche di due o tre euro l’uno. In alcuni casi gli organizzatori danno la possibilità di dividere il token, fisicamente, per ottenere mezzo token e assicurare pagamenti più precisi.

Quasi sempre è prevista una soglia minima di acquisto, cioè non possono essere cambiati meno di dieci euro in token. La soglia minima, insieme ai token con valore superiore a un euro, sono tra gli aspetti più critici e contestati perché spesso non sembrano essere stati pensati in relazione ai prezzi delle cose. Capita, infatti, che la soglia minima sia superiore a una combinazione di acquisti ragionevole (per esempio superiore al prezzo di due birre oppure di un panino e una birra), o che i token che valgono più di un euro abbiano multipli diversi da quelli dei prezzi delle cose (per esempio due token valgono 10 e una birra e un panino 9 euro) e quindi finiscano necessariamente con l’avanzare.

Dallo scorso anno Altroconsumo, associazione che tutela i diritti dei consumatori, ha invitato gli spettatori a raccontare la loro esperienza con i token. In un anno sono state inviate decine di segnalazioni, di cui molte nelle ultime settimane. «È indecente il minimo di spesa (5 token a 10 euro) e soprattutto il fatto che i token siano cambiabili a soli multipli di 5», ha scritto una persona che ha assistito al concerto degli Iron Maiden lo scorso 15 luglio a Milano. «Con cose che hanno addirittura prezzi a mezzo token (l’acqua costava uno e mezzo) diventa impossibile pagare per ciò che si consuma: si finisce per avere degli avanzi». Molte testimonianze sono state inviate dopo i concerti più grossi organizzati in Italia quest’estate: Depeche Mode a Bologna, Arctic Monkeys a Milano, Coldplay a Napoli e Milano, Blur a Lucca, Bruce Springsteen a Monza.

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Un altro dei motivi che portano le persone a odiare il sistema dei token è il fatto che non si possano restituire o utilizzare in altri concerti. I gettoni rimasti in tasca equivalgono a soldi che non si possono spendere perché perdono il loro valore al termine della serata. Questo limite è particolarmente grave nei frequenti casi in cui il cibo finisce, solitamente alla fine del concerto, e ci si ritrova con molti token non spesi e inutilizzabili, che sono un puro guadagno per chi organizza.

Un’altra conseguenza non trascurabile dell’adozione dei token riguarda i prezzi degli alimenti, più alti anche rispetto al normale rincaro che ci si può aspettare durante un grande evento.

Diversi organizzatori giustificano l’utilizzo dei token con la necessità di velocizzare i pagamenti e la distribuzione di cibo e bevande perché con i gettoni si salta il passaggio del pagamento alla cassa di ogni singolo banchetto: non c’è bisogno di fare calcoli e dare resti. Quasi sempre, tuttavia, il risultato non rispetta le aspettative perché invece di una coda se ne creano due: la prima per acquistare i token alla cassa dedicata e la seconda per prendere il cibo o le bevande ai banchetti. Insomma, per tutte queste ragioni il sistema dei token non è pensato per soddisfare le esigenze delle persone che ai concerti ci vanno.

In effetti diversi organizzatori di concerti sentiti dal Post dicono che il vero scopo dei token non è ridurre le code, quanto piuttosto la necessità di controllare in modo preciso quante birre, panini e cocktail vengono venduti durante i concerti.

Di solito i contratti di fornitura si basano su una trattenuta relativa alle vendite: chi fornisce cibo e bevande è tenuto a versare una percentuale agli organizzatori sulla base di quanto vende. Grazie al meccanismo dei token, chi organizza riceve in anticipo i soldi dagli spettatori e alla fine della serata distribuisce il ricavato ai fornitori sulla base di quanto hanno venduto (che passa dal conteggio dei token), trattenendo la parte pattuita. Il vantaggio di questo sistema è la massima trasparenza nei rapporti tra organizzatori e fornitori. «È un modo per non farsi fregare da venditori di panini e birre dei quali, evidentemente, non si fidano fino in fondo», ha scritto Luca De Gennaro, critico musicale e conduttore radiofonico italiano. «Dopodiché è un sistema sbagliato. Vi assicuro che non piace neanche ai promoter stessi. Crea code, casini, nervosismi per tutti».

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Dino Lupelli, tra i promotori di Linecheck, un festival che si tiene a Milano diventato negli ultimi otto anni una delle più importanti conferenze europee sull’industria musicale, dice che i token sono stati uno strumento utile fino a quando non si sono diffusi i pagamenti digitali. «Ora non avrebbero più senso di esistere, ma molti si affidano ancora ai token perché l’economia della musica dal vivo è precaria e questa precarietà impone agli organizzatori di ricavare il più possibile da incassi esterni», dice. «Purtroppo il margine di guadagno ottenuto dai biglietti è bassissimo, se non nullo, quindi dalla vendita di cibo e bevande dipende la sostenibilità economica del concerto. Per questo motivo le vendite vanno controllate con attenzione».

Negli ultimi anni sono state sviluppate alcune soluzioni alternative più a misura di cliente. Molti festival hanno iniziato a proporre come metodo di pagamento un braccialetto con un codice QR: il braccialetto si può ricaricare online, anche da mobile, e in questo modo si evita la coda alle casse per l’acquisto dei token. Il codice viene letto dai dispositivi ai banchetti e registra tutti gli acquisti. «Di fatto è un tecnologia cashless che ci permette di offrire un servizio molto più veloce», dice Giuseppe Conte, che dal 2017 è tra gli organizzatori del Viva Festival in valle d’Itria, in Puglia. «Si fa un’unica fila e non c’è movimento di contante, quindi ci sono meno rischi».

Oltre che al Viva, questa tecnologia è stata adottata dal Miami di Milano, dall’Ortigia Sound System, dal Club to Club di Torino. Ha un costo non indifferente per gli organizzatori: ogni braccialetto costa da 1 euro a 1 euro e 50, e a ogni pagamento vanno sottratti alcuni centesimi come prezzo per la transazione. C’è poi un costo di attivazione, sostenuto dagli spettatori: nella maggior parte dei casi, però, viene data la possibilità di chiedere un rimborso della quota non spesa. Cosa che con i token di plastica non è possibile.

Il braccialetto è stato adottato in particolare dai festival, che non si limitano a vendere il biglietto di un concerto ma cercano di proporre un’esperienza che va al di là della proposta musicale. L’organizzazione, il luogo dell’evento, l’attenzione al suono e ai servizi per gli spettatori sono i motivi che spingono le persone a tornare. I token fisici e i relativi problemi causerebbero reazioni negative con effetti anche sugli sponsor interessati a investire in eventi che funzionano. Chi organizza un unico e grande evento, invece, punta soprattutto a guadagnare il più possibile dalla serata. «In questo senso sarebbe più sensato proporre un’operazione trasparenza nei confronti di chi acquista i biglietti», continua Lupelli. «Il pubblico dovrebbe avere la possibilità di capire come vengono spesi i soldi e come gli incassi vengono ripartiti all’interno dell’organizzazione. A quel punto si capirebbe che la maggior parte degli eventi stanno in piedi a fatica, e forse ci si renderebbe conto che organizzare un grande evento costa un sacco di soldi».

Una possibilità ancora poco esplorata consiste nel cashless puro, cioè nei pagamenti esclusivamente digitali attraverso carte di credito, pagamenti mobile e via app. I pagamenti cashless consentirebbero di acquistare cibo e bevande ancora più velocemente senza token e braccialetti. Inoltre la registrazione dei pagamenti assicurerebbe agli organizzatori un controllo sulle vendite. Finora in Italia questa soluzione non si è diffusa perché si vuole dare la possibilità a tutti di fare acquisti, anche alle persone che non hanno carte di credito o dispositivi per i pagamenti da mobile.