L’accademia della fattura

«Sembra che tutto funzioni al contrario. Alcuni atenei vogliono il curriculum vitae del consulente alla fine, ma la cosa più strana è che a volte, per evitare discriminazioni di razza, sesso, genere, religione e così via, chiedano di togliere la foto e alcuni dati sensibili come sesso, nazionalità, data di nascita, codice fiscale, indirizzo, indirizzo email, numero di telefono. Insomma, tu mandi il curriculum, ma non sei contattabile»

Un visitatore dell'Harry Potter Studio Tour ai Warner Brothers Leavesden Studios di Londra, ammira un modellino del castello di Hogwarts, scuola di magia e stregoneria frequentata da Harry Potter, sulle cui modalità di fatturazione in verità nulla è dato sapere (Dan Kitwood/Getty Images)
Un visitatore dell'Harry Potter Studio Tour ai Warner Brothers Leavesden Studios di Londra, ammira un modellino del castello di Hogwarts, scuola di magia e stregoneria frequentata da Harry Potter, sulle cui modalità di fatturazione in verità nulla è dato sapere (Dan Kitwood/Getty Images)
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Magari avete una partita IVA, e dunque, per voi come per me, il mondo del lavoro funziona più o meno così: vi mettete d’accordo con un committente per una certa cosa da fare, definite nel modo più chiaro possibile i vostri compiti, i tempi e le modalità di consegna o di somministrazione, stabilite infine – dopo una trattativa piuttosto breve, in cui sostanzialmente annuite e accettate quel che vi è stato proposto trattenendo l’impulso di dire grazie – un compenso lordo e una o più date in cui emettere fattura. Tutto questo viene sancito dalla firma in calce a una Lettera di incarico.

Quando il fatidico giorno arriva, vi loggate con il vostro account a un sito per la fatturazione elettronica, compilate i campi (anzi: le “righe”) inserendo i dati del datore di lavoro, il suo codice univoco, la cifra pattuita, la marca da bollo, le modalità attraverso cui volete ricevere il denaro (bonifico, assegno, perfino contanti o Ri.Ba.), definite scadenze e esigibilità e inviate tutto al misterioso SdI, ovvero il Sistema di Interscambio – un’entità vasta e inesplorata, gestita dall’Agenzia delle Entrate, che riceve tutte le fatture, le controlla, le valida e le distribuisce, creando, immagino, un flusso continuo di documenti costantemente sorvegliati.

Mentre la vostra fattura è nella Terra di Mezzo del Sistema di Interscambio, nella vostra area Documenti vedete il simbolo ⏩, che sta a indicare che il documento è “in attesa di risposta”: vale a dire che qualcuno o qualcosa, da qualche parte nell’Interscambio, sta valutando se la procedura con cui avete compilato le “righe” è regolare e se la vostra fattura può essere inoltrata per il pagamento. Quando siete stati bravi, e avete compilato tutto per bene, il Sistema vi premia trasformando il segno ⏩ in una spunta verde ✅: è una cosa che avviene all’improvviso ma generalmente entro qualche giorno, e che dice che, finalmente, la vostra fattura ha attraversato la Terra di Mezzo ed è giunta a destinazione. Ora non dovete fare altro che aspettare, a volte 60 o 90 giorni, per essere pagati e poter finalmente mettere un piatto caldo sulla tavola dei vostri figli o portare le scarpe buone dal calzolaio, perché chiuda quel buchino lì da cui vi sembra che entri l’acqua.

A chi non ha la partita IVA tutto questo sembrerà avventuroso, perfino un po’ cervellotico e strambo. Lo è. Ma quella che ho appena descritto è per così dire la procedura base, ossia la cosa più semplice e lineare che vi può capitare. Perché vi potrebbe anche succedere di fare un lavoro, o un corso, o una consulenza per un’università italiana. E allora quello che ho appena descritto diventa una specie di Eden, una Mecca della semplicità e della logica.

Ora, bisogna dire che non tutte le università sono uguali, e che alcune di loro hanno procedure più snelle di altre (per esempio, mi è capitato di fare fattura a un conservatorio, e la procedura è stata in tutto e per tutto uguale a quella descritta poco sopra); ma, in generale, la mole di documenti da compilare e firmare per farsi pagare da un’Alma mater eccede di gran lunga quella richiesta da qualsiasi altro committente mi sia mai capitato di incrociare.

Quando è l’ora di ricevere una fattura, alcune università mandano una mail colma di allegati, il primo dei quali è un Foglio di istruzioni per il pagamento della docenza (lo chiamerò FIPD), vale a dire un vademecum, a essere onesti abbastanza agile e schematico, in cui, per punti, vengono spiegati i passaggi alla fine dei quali il libero professionista potrà mandare il suo documento in visione al Sistema di Interscambio.

Le istruzioni variano di ateneo in ateneo, ma alcuni punti sono in comune, per lo meno stando alla mia esperienza personale:

1) tutti gli atenei vogliono la Lettera di incarico firmata. Ciò è sacrosanto, e il fatto che detta lettera venga richiesta, a volte, a corso finito, è una stranezza solo apparente: hanno bisogno di ricevere i documenti in una sola volta, credo, perché non vadano perduti in qualche loro Terra di Mezzo. Questa cosa dell’incarico firmato alla fine, però, prelude a un’altra stranezza, di cui al punto

2) tutti gli atenei vogliono il curriculum vitae del consulente, ma alcuni lo chiedono ora, alla fine. Sembra che tutto funzioni al contrario, ma la cosa strana di questa richiesta di cv non è tanto la tempistica, quanto che alcune università richiedano un documento con delle caratteristiche molto specifiche: per esempio, l’università a cui ho fatturato più di recente vuole un cv formato europeo (> si allega modello, fatto in InDesign), ma con alcuni accorgimenti rispetto allo standard che ti insegnavano all’Informagiovani: per evitare discriminazioni di razza, sesso, genere, religione e così via, dal cv bisogna togliere la foto e alcuni dati sensibili; sono dati sensibili: sesso, nazionalità, data di nascita, codice fiscale, indirizzo, indirizzo email, numero di telefono. Insomma, tu mandi il curriculum, ma non sei contattabile (del resto, ti hanno già contattato…). Però vogliono la firma in calce (mi rendo conto ora che lo scrivo che a questo giro la firma me la sono dimenticata) e la scansione della carta di identità, dalla quale i miei dati sensibili (per lo meno il sesso, la data di nascita, l’indirizzo, la nazionalità e la foto) sono ricavabili facilmente. Dunque c’è qualcosa che non capisco; con il punto

3) si entra nella modulistica più spiccatamente burocratica: arriva la Dichiarazione sostitutiva di atto notorio, ai sensi dell’art. 15, co. 1, lett. C) del D. lgs n. 33/2013. Non so bene cosa sia, ma so che ne ho compilate molte, di dichiarazioni come questa. In pratica, se ho capito, dici che non lavori per la Pubblica Amministrazione o confessi di avere svolto/svolgere attività di qualche tipo per soggetti pubblici o privati finanziati da pubbliche amministrazioni;

4) per il Mod. 64 di solito chiamo Giorgia. Lei è la mia commercialista: ci stiamo molto simpatici, facciamo lunghe chiacchierate a proposito di libri e di viaggi, cazzeggiamo via WhatsApp e in virtù di questa nostra amicizia lei non fa una piega quando le mando il messaggio con scritto AIUTO. Nel Mod. 64 devi mettere i tuoi dati (anche alcuni di quelli sensibili, come il telefono e la mail – e a questo punto, dopo che hai passato un quarto d’ora a cancellarli dal cv Europass, ne hai comunque inviata una parte tramite la scansione della carta d’identità e ora completi l’opera, ti senti davvero un cretino), dichiari l’ente previdenziale a cui sei iscritto, immetti i numeri del conto corrente, della partita IVA, dichiari di nuovo l’ente previdenziale a cui sei iscritto, definisci il tipo di incarico per cui devi essere pagato (professionale, di collaborazione coordinata e continuativa, occasionale – è qui che mi serve l’aiuto di Giorgia, perché non è una cosa così semplice, per me: sono punti pieni di numeri, percentuali, contributi, commi), dichiari una volta per tutte l’ente previdenziale a cui sei iscritto, firmi;

5) varie ed eventuali. Qui si spalanca un piccolo mondo: di solito, le università chiedono di leggere e approvare il loro Codice di comportamento, che vi risparmio. Quello che mi entusiasma ogni volta è che chiedono di approvarlo ma, non volendo una firma, o una dichiarazione spontanea di adesione ai principi etici dell’ateneo, ciò che in realtà si aspettano sembra essere un’adesione intima, privata: devi leggere, collaboratore, e condividere nell’animo i nostri principi. Ancora: uno che conosco mi ha scritto che, a lui, una certa università italiana ha chiesto una volta, per una singola lezione, di firmare un plico di carte infinito, tra cui anche una dichiarazione antisismica. Spero che, almeno, la lezione non fosse online. A questo proposito, in passato mi è capitato di fare lezioni online per un ateneo dell’Italia orientale in cui a tutti gli studenti era fatto obbligo di tenere spenta la telecamera, per evitare che qualcuno (leggi: il prof., cioè io) facesse in segreto foto ai volti delle studentesse più carine e le rivendesse nel deep web. Giuro che è vero. La lezione in questione, nello specifico, durava sette ore e prevedeva, grazie a dio, anche delle esercitazioni: ma provate voi, a stare in cattedra per sette ore davanti a uno schermo nero e coi microfoni silenziati.

La prima volta che ho seguito questo iter, aiutato a distanza e confortato da Giorgia, sono arrivato al momento di aprire il sito per la fatturazione provando sentimenti contrastanti: ero inorridito, sì, da tutta questa burocrazia, ma tutto sommato ero anche orgoglioso perché, alla fine, ce l’avevo fatta – io! –, avevo domato il Minotauro, avevo tutta la documentazione al completo e potevo, finalmente, compilare le “righe”. Così sono entrato nel sito per la fatturazione, ho inoltrato la fattura allo SdI e mi sono seduto sulla riva del fiume. Due settimane dopo, anziché la spunta verde ✅, c’era però una x rossa ❌. Nel FIPD si dice che una fattura può essere rifiutata entro 15 giorni dall’invio allo SdI, ma non si dice quali sono i motivi di questo rifiuto. (Fate attenzione: loro ti devono pagare per un lavoro che hai fatto tu, ma si riservano il diritto di rifiutarti un documento e dunque non pagarti perché non hai fatto qualcosa nel modo che loro ritengono giusto). Ho ricontrollato tutto, e tutto, ovviamente, mi sembrava fatto correttamente: l’errore, perché un errore c’era senza dubbio, non era nella modulistica, ma in qualcosa che avevo fatto tra le “righe”. Così ho scritto AIUTO a Giorgia. Lei si è fatta mandare di nuovo il materiale, è entrata nel mio portale, ha controllato da cima a fondo e mi ha scritto: «I moduli sono ok. Te l’ha rifiutata perché hai fatto una fattura. Questa università richiede una parcella».

Non ho ancora capito quale sia la differenza, a parte che una fattura ha il codice TD01 e una parcella il codice TD06: ma non la voglio nemmeno sapere, la differenza. Però nel FIPD e nella lettera di incarico si parla di notula o fattura elettronica, questo ve lo do per certo. È solo in un allegato:

6) “Info per i pagamenti di fatture elettroniche per i professionisti” che c’è scritto, a chiare lettere, «Tipologia documento TD06 (parcella) e non TD01 (fattura). Altrimenti rifiutare». Altrimenti – era la parola che usava mia madre quando cominciava un discorso che, di solito, finiva con una sculacciata.

Ora sono diventato abbastanza bravo, al netto del fatto che mi sono dimenticato di mettere la firma sul cv. Nove giorni fa ho compilato tutto, ho fatto le scansioni, ho mandato la parcella (TD06). Ogni tanto entro nel mio portale per vedere se, alla fine della riga, c’è la spunta verde ✅, che dice che tutto è bene quel che finisce bene: ma non è comparsa ancora. Non vi nascondo che, ogni volta che compare la spunta verde ✅, tiro un sospiro di sollievo: altrimenti, altrimenti, potrei dover ricominciare daccapo, stavolta senza sapere bene dove ho commesso l’errore fatale.

Andrea Tarabbia
Andrea Tarabbia

È nato a Saronno nel 1978 e vive a Bologna. Il suo romanzo più recente è Il Continente bianco.

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