La prima persona a cui venne diagnosticato l’autismo

Si chiamava Donald Triplett e nel 1943 la sua condizione fu descritta in un articolo scientifico: ha avuto una vita lunga e serena, finita pochi giorni fa

Donald Triplett nel documentario "In a Different Key"
Donald Triplett nel documentario "In a Different Key"
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Il 15 giugno è morta la prima persona nella storia a cui sia stato diagnosticato l’autismo: si chiamava Donald Triplett, aveva 89 anni e viveva a Forest, un paesino del Mississippi (Stati Uniti) con meno di seimila abitanti. Era il “Donald T.” o “Case 1” (“Caso 1”) citato nell’articolo scientifico del 1943 in cui lo psichiatra Leo Kanner parlò per la prima volta di “disturbi autistici del contatto affettivo”, descrivendo i comportamenti di undici bambini la cui condizione si distingueva «marcatamente e in modo unico» da tutto ciò che era stato analizzato fino a quel momento dalla psichiatria.

Sebbene ai tempi dell’infanzia di Triplett le persone con disturbi psichiatrici venissero spesso rinchiuse a vita all’interno di istituti analoghi ai manicomi, lui ebbe fin da giovane una vita serena e integrata nella propria comunità, un’esperienza molto diversa da quella di tante persone con disturbi nello spettro autistico che soprattutto in passato hanno vissuto emarginate anche a causa della scarsa comprensione delle loro condizioni. Per questo la storia di Triplett, che ha avuto una certa notorietà negli ultimi tredici anni grazie a un articolo della rivista Atlantic e a un libro e a un documentario che ne derivarono, è considerata un esempio molto positivo di come le persone con autismo possono realizzarsi nella vita.

Quando fu pubblicato l’articolo di Kanner Triplett aveva 10 anni. Era nato l’8 settembre 1933 in una famiglia benestante: sua madre era un’insegnante di inglese delle scuole superiori la cui famiglia possedeva la banca locale di Forest e suo padre era un avvocato che aveva studiato nella prestigiosa università di Yale.

A due anni Triplett era in grado di dire a memoria il Salmo 23 della Bibbia, quello che inizia col versetto «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla». Aveva poco interesse sia per il cibo sia per le persone intorno a lui, compresi gli altri bambini, e usava il linguaggio in maniera inconsueta, ad esempio associando numeri alle persone che incontrava e ripetendo frasi apparentemente prive di significato nel contesto delle conversazioni. In generale tendeva a ripetere ossessivamente alcuni gesti e movimenti, irritandosi molto quando veniva interrotto, ma mostrò di essere capace di fare a mente velocemente moltiplicazioni complicate senza sbagliarsi o cantare con un’intonazione perfetta canzoni che aveva ascoltato un’unica volta.

Per via di questi comportamenti nel 1937, a quattro anni, fu portato dai genitori in un istituto di cura per bambini, dove rimase per circa un anno, mostrandosi apatico. Poi i genitori decisero di riportarlo a casa, una scelta diversa da quella di tante altre famiglie di bambini con disturbi psicologici o psichiatrici dell’epoca, e sicuramente resa più semplice dalle loro buone disponibilità economiche.

I Triplett comunque continuarono a cercare di capire il figlio e nel 1938 lo portarono a Baltimora per essere visitato da Kanner, che insegnava alla Johns Hopkins University dove aveva fondato la prima clinica psichiatrica per bambini. Kanner osservò i comportamenti di Donald Triplett e poi si mise a cercare altri bambini che ne manifestassero di simili. Quando infine dedicò loro un articolo usò l’espressione «autismo» che era stata ideata qualche decennio prima dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per descrivere lo stato di concentrazione su sé stesse di alcune persone schizofreniche.

Grazie al sostegno della propria famiglia, che fece sì che andasse a scuola come i suoi coetanei, Triplett studiò matematica e francese all’università. Si laureò nel 1958 e poi cominciò a lavorare come cassiere nella banca di Forest, fondata dal nonno: lo ha fatto per quasi 65 anni. Fino agli anni Ottanta visse con i genitori; dopo la loro morte il suo fratello minore Oliver – morto nel 2020 – e poi suo figlio continuarono a dargli una mano. La famiglia creò anche un fondo per lui per assicurarsi che avesse sempre delle risorse economiche a disposizione, ma nella vita di tutti i giorni Triplett era comunque autonomo: aveva un nutrito gruppo di amici, guidava e giocava a golf, cantava in un coro e nel corso della vita fece molti viaggi da solo in giro per il mondo – alle Hawaii andò 17 volte.

Secondo i giornalisti John Donvan e Caren Zucker, autori dell’articolo dell’Atlantic sulla storia di Triplett e dei successivi libro e documentario, intitolati entrambi In a Different Key (traducibile come “In una tonalità diversa”), le risorse economiche della famiglia Triplett furono fondamentali per fargli vivere una vita serena, ma anche il più ampio contesto sociale di Forest ebbe un ruolo importante, perché si mostrò sempre accogliente. Peraltro lo fece senza conoscere la diagnosi di Triplett, almeno finché la sua storia e quella dell’articolo di Kanner non vennero divulgate nel 2010.

Nel 1943 Kanner ipotizzò che la condizione di Triplett fosse molto rara sebbene probabilmente ci fossero altri bambini che l’avevano. Da allora la frequenza delle diagnosi è aumentata molto: nel 2006 i Centers for Disease Control and Prevention, il più importante organo di controllo sulla sanità pubblica negli Stati Uniti, stimarono che un bambino su 110 avesse una condizione nello spettro autistico; qualche mese fa la stima è stata rivista e ora si ritiene che questi disturbi – che sono molto vari e diversi – riguardino un bambino su 36. Tuttora non si conoscono le cause di questo aumento nelle diagnosi.

– Leggi anche: La storia infinita del Centro per l’autismo di Avellino