Il forestale che credeva ai folletti

«Lo sciacallo dorato è un fantasma, non lascia tracce evidenti come il lupo, è più riservato e scaltro anche della volpe. Il metodo migliore per studiarlo sono le trappole. Le trappole che usano oggi gli zoologi sono una meraviglia della tecnologia»

Il bosco tra Friuli e Slovenia dove è ambientata questa storia (Foto Nicola Bressi)
Il bosco tra Friuli e Slovenia dove è ambientata questa storia (Foto Nicola Bressi)

Lo sciacallo dorato è entrato in Italia da nordest, arrivandoci da quella che un tempo si chiamava Jugoslavia; mentre oggi il confine è quello con la verde Slovenia.
E proprio in quei boschi di confine, dove da più tempo ormai vivono in Italia gli sciacalli dorati, studiamo la popolazione di questo interessantissimo canide, e i suoi rapporti con gli altri animali e con tutto l’ecosistema. Si osservano le sue tracce, qualche orma, escrementi da analizzare in laboratorio per avere certezze.

Lo sciacallo dorato è un fantasma, non lascia tracce evidenti come il lupo, è più riservato e scaltro anche della volpe. Il metodo migliore per studiarlo sono le trappole. Le trappole che usano oggi gli zoologi sono una meraviglia della tecnologia: scatoline verdi con strani forellini da nascondere sui tronchi. Dentro hanno un concentrato di chip e ottiche digitali, dalle fotocellule agli obiettivi. Queste trappole fotografiche, giorno o notte che sia, imprimeranno chi passa davanti a loro nella loro memoria. E poi, collegando al computer la scheda, una sorta di frammento grande meno di un’unghia, si svelerà la vita segreta del bosco. Alcune fototrappole, tanticchia più costose, ti mandano direttamente le foto sul telefono. Un messaggio WhatsApp dalla foresta in tempo reale. Le nostre, invece, donano più emozione, quegli attimi in cui le colleghi al computer e non sai cosa potrebbe apparire: il solito cinghiale, l’onnipresente gatto domestico incustodito, il fungaiolo compulsivo, oppure la scoperta zoologica del secolo: la specie che si credeva estinta, quella appena arrivata, o quella che fa qualcosa che non si credeva possibile.

Le fototrappole, però, bisogna nasconderle nel posto giusto. Un luogo sufficientemente impervio e fuori sentiero dove non passino le persone (non è solo questione di privacy; è che va a finire che te le rompono, o se le rubano) ma bello e agevole per il passaggio degli animali.

E così vagavamo per il bosco: io, da naturalista zoologo, e un agente della Forestale che collaborava al progetto di studio. Io, coi soliti vestiti da escursionista, avanzavo più agile; lui dietro, forse rallentato da una più seriosa divisa.

A un certo punto mi ricordo che da quelle parti c’è una grotta, un antro nascosto, ameno e stupendo. Mi ci portarono anni fa degli archeologi perché alcuni scavi rivelarono antiche frequentazioni umane, probabilmente pastori e cacciatori del neolitico.

«Vuoi che ci andiamo?», propongo al Forestale. «Se non la conosci, ne vale la pena».
E così, dopo una decina di minuti nel bosco, dietro ad alcune rocce ci appare. Pur essendo ampia, è una visione improvvisa, nascosta da una vegetazione oggi lussureggiante. Arrivati all’ingresso apprezzi la vastità dell’antro: più di una galleria autostradale. E ti senti piccolo in quell’enormità di buio e silenzio.
Girovaghiamo un po’. Ritrovo le tracce dei vecchi scavi, che hanno rivelato verità ben più antiche.

«Pensa quante migliaia di anni sono passati – rilevo – a quante generazioni hanno assistito queste pareti, a quanti umani prima di noi hanno dato ricovero; a quanti volti, a quanti sguardi. Sembra quasi di sentirsi osservati».
«Certo che siamo osservati», mi fa lui.
E io: «Beh, sì. Ci saranno centinaia di piccoli animali nelle fessure di queste pareti: uccelli, pipistrelli, ragni, insetti, molluschi…»
«Questi sono solo quelli che vedi tu», aggiunge lui laconico.
«Perché, tu ne vedi altri?»
«Io no, ma loro vedono noi».
«Loro chi?», chiedo al Forestale. «Chi intendi?»
«Gnomi, folletti, spiriti del bosco… li puoi chiamare in molti modi».
Accenno a un sorriso ironico: «Ah, certo, come no, i folletti…»
Stavo per aggiungere beffardo «le streghe, i draghi e magari pure gli extraterrestri», ma la frase mi si strozza in gola. Mi rendo improvvisamente conto che il Forestale è serio.
«I folletti, dicevi», gli faccio, «ma tu li hai mai visti?»
«Certo che no, non si fanno vedere se non a pochi eletti, ma loro vedono noi. Sono loro i veri abitanti del bosco».
«E come mai anche oggi, con tutte le fototrappole, non ne becchiamo mai uno?»
«Perché le fototrappole rilevano ciò che accade nella nostra dimensione, i Folletti appartengono a un’altra dimensione».

Osservavo quest’uomo alto, in divisa, forse nella fondina aveva l’arma d’ordinanza, che parlava in modo quasi imperioso… che però mi raccontava storie di folletti, come una nonnina accanto al letto del nipotino con la febbre.
Sotto sotto avevo ancora un filo di speranza che fosse un abile attore e mi stesse prendendo in giro.
Gli chiedo: «Ma se stanno in un’altra dimensione, come possono loro vedere noi?»
“Perché noi umani non abbiamo la capacità di esplorare le innumerevoli dimensioni che coesistono nel reale. Ciò che noi chiamiamo mondo, chiamiamo realtà, è soltanto uno dei molti mondi e delle molte realtà che ci circondano e che non vediamo».
«Dunque tu ritieni che proprio ora dei folletti ci stiano osservando».
«Contemporaneamente sì e no; dipende dalla dimensione».
(«I folletti di Schrödinger», pensai, «altro che il gatto»; ma me lo tenni per me)
Vedendomi silenzioso e basito, il Forestale spiegò:
«Tu sei troppo ancorato alla scienza, Nicola. La scienza ci permette di indagare un ambito estremamente ristretto. Sembra che ti apra la mente, invece a volte te la chiude. È la nostra immaginazione, il nostro istinto, sono loro gli strumenti più forti che abbiamo per conoscere nuovi mondi e nuove dimensioni».
Niente, ci credeva proprio. Gli dissi allora che l’immaginazione non produce fotografie di sciacalli dorati e che era meglio tornare a cercare un posto adatto per rilevare le specie che vivevano nella nostra stessa dimensione.
«Che ne sai tu in quante dimensioni abitano gli sciacalli?», mi disse.
Ammetto che cominciai a domandarmi se la conoscenza che certi Forestali hanno dei funghi e delle erbe non sia molto più variegata di quella di uno scienziato naturalista.

Tornato a casa, la nuova dimensione che mi si aprì dopo quel discorso fu solo quella degli agenti del Corpo forestale che credono ai folletti. Ancora oggi rifletto su quanto anche le persone più insospettabili abbiano bisogno di credere nel soprannaturale. Magari per dare riposo e consolazione a pensieri ed esperienze che, nella sola razionalità, possono pesare troppo. A volte la nostra realtà, la dimensione in cui viviamo, è drammaticamente crudele, cinica, insensata. Pensare che la nostra dimensione non sia l’unica, e che ci sia sempre e comunque un’alternativa, qualcosa di migliore, o anche solo di diverso probabilmente ci rasserena. A volte sono i folletti, a volte un paradiso ultraterreno, altre volte la convinzione (quante volte me lo son sentito dire nel mio lavoro) che si possa vivere in pace con tutte le specie di animali del mondo senza mai ucciderne o imprigionarne nessuna.

Forse ognuno di noi, in fondo, ha i suoi folletti personali con cui ha bisogno di convivere.

Nicola Bressi
Nicola Bressi

Naturalista e zoologo, già direttore e oggi curatore del Museo di Storia Naturale e del sistema museale di Trieste. Si occupa dei rapporti tra uomo e natura, cercando soluzioni di coesistenza tra economia e biodiversità. Da bambino, non trovando aquile e cerbiatti attorno a casa, ha iniziato a occuparsi di rospi, bisce e ragni. Da allora studia le “specie problematiche”, quelle che ci pongono (o a cui noi poniamo) problemi di convivenza: dal lupo alle zanzare. Ha sempre considerato comunicazione e divulgazione parte del lavoro, e oggi insegna Comunicazione della Scienza all'omonimo master della SISSA, e prova a farlo pure su Twitter.

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