Karl Lagerfeld, il logo e la morte

«Tra il 1933 e il 2019 Lagerfeld ha costruito un notevole impero economico ed è diventato un personaggio di riferimento conosciutissimo all’interno del mondo della moda con una popolarità molto vicina a quella di una rockstar. E questo succede per una serie di motivi che non hanno quasi niente a che vedere con la sua capacità come designer»

Karl Lagerfeld alla Condé Nast International Luxury Conference a Palazzo Vecchio, Firenze, 22 aprile 2015 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for Conde' Nast International Luxury Conference)
Karl Lagerfeld alla Condé Nast International Luxury Conference a Palazzo Vecchio, Firenze, 22 aprile 2015 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for Conde' Nast International Luxury Conference)
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La morte è uno dei momenti migliori per proclamare la vittoria della personalità sul valore reale, per ricostruire le narrazioni, per spostare l’attenzione, per glorificare, santificare, fare entrare direttamente in paradiso senza passare dal via.

Ma anche per fare perdurare il valore economico dell’opera di chi è morto. Morire può essere un atto supremo di sopravvivenza, qualcosa che ti fa accedere all’eterno.

Karl Lagerfeld, una delle personalità più popolari del mondo della moda, è morto il 19 febbraio del 2019 e in questi giorni al Metropolitan Museum di New York è già protagonista di una mega mostra celebrativa, iniziata come sempre con quel gigantesco evento circense che si chiama Met Gala, una parata stellare di quasi tutte le celebrity del pianeta che consiste sostanzialmente nel percorrere un red carpet con abiti quasi sempre improbabili. Il tutto pensato, voluto e coordinato da Anna Wintour, potentissima editor in chief di Vogue America e responsabile dei contenuti globali di Condé Nast, la casa editrice di Vogue.

Potrebbe sembrare strano che, a poco più di quattro anni dalla sua scomparsa, Karl Lagerfeld acceda direttamente all’olimpo dei creatori di moda attraverso un omaggio fatto da uno dei più importanti musei del mondo. Ma non è strano per niente.

Per capire quanto la figura di Karl Lagerfeld sia rappresentativa di un sistema, la moda, ma di quanto sia anche centrale nella rappresentazione della personalità nel mondo contemporaneo bisogna partire dalla sua data di nascita che, nella realtà è il 10 settembre 1933, ma nella finzione narrativa di Lagerfeld stesso è a volte il 1935 e a volte il 1938, a seconda del momento storico in cui la dichiarazione viene rilasciata. Anche le sue modeste origini borghesi sono state chiarite solo di recente nel libro del 2006 The Beautiful Fall della giornalista inglese Alicia Drake, facendo non poco innervosire Karl che aveva sempre lasciato intendere di venire da una famiglia con ascendenze nobili, oltre che, stranamente, svedesi. Lagerfeld ha peraltro intrapreso un’azione legale contro la pubblicazione del libro in Francia (che è infatti stato tradotto solo nel 2010) per invasione della privacy, sostenendo che le notizie sulla sua origine erano false. Drake è poi riuscita a dimostrare che era invece tutto vero e che le sue documentazioni e testimonianze erano credibili.

Farsi credere più giovane di cinque anni può sembrare un dettaglio trascurabile ma è fondamentale per capire quanto il meccanismo dell’artificio sia importante nella costruzione di una personalità pubblica che, alla sua morte, aveva accumulato 178 milioni di euro, ed era stato direttore creativo di Chloé, Chanel e Fendi, tra le altre cose. L’esecuzione testamentaria è peraltro bloccata da 4 anni dalla corte d’appello amministrativa di Parigi perché, a quanto rivela un’inchiesta del sito Glitz.paris, Lagerfeld si era dimenticato di pagare 20 milioni di euro di tasse, usando società di comodo in Lichtenstein e Curaçao.

Tra il 1933 e il 2019 Lagerfeld ha costruito un notevole impero economico ed è diventato un personaggio di riferimento conosciutissimo all’interno del mondo della moda con una popolarità molto vicina a quella di una rockstar. E questo succede per una serie di motivi che non hanno quasi niente a che vedere con la sua capacità come designer.

Il suo più grande successo professionale è l’aver preso in mano un marchio praticamente morto, come era Chanel nel 1983, e averlo portato a essere uno dei marchi del lusso più importanti al mondo. Per capire come questo sia stato possibile basta guardare la sua prima sfilata di ready to wear disegnata per la maison della doppia C e paragonarla, in termini di design, a una delle sue ultime: non c’è praticamente nessuna differenza. La tranquilla uniforme chic che Coco Chanel aveva creato nell’ultimo periodo della sua vita, fatta di perfetti tailleur in lana bouclé per ricche mogli di industriali borghesi, diventa uno squillante insieme di opulenza smodata, appesantita da chili di paccottiglia dorata, perfetta per gli anni dell’edonismo reaganiano.

Quello che succede di interessante è che Lagerfeld capisce che la moda è passata da essere un segno di appartenenza a una classe privilegiata a un mezzo di distinzione sociale completamente interclassista. Il suo lavoro sulla popolarizzazione del logo, della camelia e del bouclé, le tre icone di Chanel, serve a confortare gli spiriti culturalmente analfabeti di una nascente classe planetaria di miliardari che non solo non hanno origini borghesi, ma non sanno neanche cosa borghesia voglia dire. Uno dei miracoli di Lagerfeld è stato rendere il logo di Chanel il centro dell’identità di marca, la chiave della motivazione di acquisto, facendo dimenticare a tutti gli abiti che di volta in volta c’erano dietro.

La famosissima borsa in pelle trapuntata con la catena d’oro, la 2.55 (chiamata così perché uscita nel febbraio del 1955) viene creata da Coco Chanel per liberare le donne dall’impraticità delle borse da portare a mano. È la prima borsa a tracolla della storia e porta con sé un messaggio radicalmente femminista, ammesso che si possa usare questo termine per un oggetto che già all’epoca costava migliaia di dollari. Nel nuovo vocabolario di Lagerfeld la 2.55 diventa invece un’icona del riconoscimento istantaneo, la prova dell’appartenenza a un mondo di privilegio e di ricchezza, uno status symbol facile da capire e facile da portare. È ancora oggi uno dei massimi oggetti del desiderio per chi vuole sentirsi membro del non più ristretto clan dei ricchi, soprattutto dei nuovi ricchi.

Ma Lagerfeld non ha solo dato al mondo la ricetta del lusso accessibile, l’ha anche, per primo, popolarizzata. Nel 2004 ha inaugurato una serie infinita di collaborazioni tra marchi del lusso e il gigante del fast fashion H&M lavorando sull’idea di democratizzazione attraverso uno spot memorabile in cui una massa di ricchissimi in vacanza a Cannes viene colta di sorpresa dalla notizia della collezione in uscita e, inorridita, si sente dire da un Lagerfeld estremamente ironico «If you are cheap, nothing helps». Da quel momento il gioco di Karl diventa sempre più spericolato e le sue incursioni nel mercato di massa sempre più frequenti.

Con questa operazione la figura del designer elitario viene definitivamente seppellita e un mondo infinito di possibilità si apre di fronte a marchi che avevano fino a quel momento parlato a una ristretta cerchia di ricconi. Profumi e rossetti possono in effetti essere comprati da tutti e Lagerfeld trasforma sé stesso e Chanel in portatori sani di marketing globale, parlando a tutte le categorie sociali, rendendo lusso e moda qualcosa di facilmente masticabile anche alle masse. E portando Chanel a un fatturato superiore ai 15 miliardi di euro annui.

Lui stesso diventa un personaggio da rotocalco sottoponendosi nel 2001 a una drastica dieta che gli permette di perdere 30 chili in poco più di un anno e pubblicando poi un libro in cui illustra il suo metodo infallibile. Vengono messi in commercio pupazzetti, gadget e t-shirt con il suo viso facendolo arrivare a un livello di popolarità mai raggiunto da nessun designer prima.

Nel frattempo le sue sfilate diventano momenti di entertainment, giganteschi show mediatici in cui gli abiti sono solo una piccola parte mentre al centro della narrazione finiscono produzioni sempre più dispendiose con riproduzioni di missili a grandezza naturale o di spiagge caraibiche complete di vere dune di sabbia e vere onde di mare.

Il sistema del marketing attraverso la celebrità dagli anni 2000 in poi viene seguito da molti altri, comprese, ovviamente, le celebrity stesse che nella moda, sulle copertine dei giornali e poi sui social media, prendono il posto di modelle e designer. Rihanna ha un marchio di beauty, Fenty, che viaggia oltre i 600 milioni di dollari di fatturato. Kim Kardashian da sola arriva a incassare 80 milioni di dollari all’anno. Ma gli esempi sono moltissimi.

Come dice Amy Odell, scrittrice della biografia non autorizzata su Anna Wintour in una puntata del podcast StyleZeitgeist, Karl Lagerfeld dovrebbe essere celebrato e ricordato per molte cose ma non per essere stato un fashion designer influente. I suoi abiti non hanno mai cambiato il modo di vestire delle persone nel mondo e nessuno si ricorda di un solo capo iconico uscito dalla sua matita. Lui, come molti altri dopo di lui, ha usato la moda per aprire la strada a nuove e redditizie vie di commercializzazione di prodotti, appiattendo il significato dei contenuti e favorendone così la moltiplicazione, la comprensione, l’accettazione indiscriminata.

Quella del marketing è un’area molto importante per la sopravvivenza dei marchi oggi ma non è, e non dovrebbe mai diventare, il centro del messaggio. Lagerfeld ha dimostrato che può esistere il prodotto senza il contenuto ma questo non è un motivo sufficiente per riconoscerlo come autore e dedicargli una mostra. Chi è in grado di raccontare una storia e chi ha le capacità di venderla sono, ancora oggi, persone molto diverse. E giudicare entrambe attraverso i risultati economici è una ricetta che non dovrebbe funzionare.

Andrea Batilla
Andrea Batilla

Dopo aver collaborato con alcuni dei più importanti marchi del Made in Italy come Romeo Gigli, Trussardi, Aspesi, Cerruti, Les Copains, Bottega Veneta, si occupa di consulenza strategica per aziende del lusso ed è investment consultant per il gruppo Mayhoola. Per cinque anni è stato direttore della scuola di moda dell’Istituto Europeo di Design di Milano, sviluppando una stretta collaborazione con Franca Sozzani, direttore di Vogue Italia. Il suo ultimo libro Come Ti Vesti (Mondadori, 2023) è un saggio sul significato storico e culturale del modo di vestire occidentale. Ha un profilo Instagram con più di 80 mila followers che si occupa di divulgazione e critica di moda. Ha co-diretto il semestrale PIZZA e scritto per Domani, Dust Magazine, Il Corriere della Sera, Il Post.

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