Can che abbaia morde, spesso

«Una frase fatta, in un certo senso, è la sintesi del nostro fondamentale disinteresse ad approfondire o della nostra refrattarietà a osare. Non c’è nulla di male a compatire affettuosamente qualcuno che ammiri scrivendogli “Chi non ti ama non ti merita”, ma sembra evidente che la frase in sé debba aver richiesto uno sforzo mnemonico o creativo pressoché nullo – oltre a essere di una consequenzialità discutibile e di un valore edificante tutto da dimostrare»

Il cane da pastore Jep abbaia alle pecore. Louth, Australia, 21 febbraio 2019. (Foto di Jenny Evans/Getty Images)
Il cane da pastore Jep abbaia alle pecore. Louth, Australia, 21 febbraio 2019. (Foto di Jenny Evans/Getty Images)
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Qualche mese fa, nel pubblicare una serie di storie su Instagram, mi capitò di utilizzare un dato statistico della cui attendibilità non ero per niente sicuro, ma che non mi preoccupai di verificare preventivamente perché il mio unico obiettivo era condividere un paio di considerazioni divertenti.

A quale dato statistico mi riferisco?

A quello secondo il quale chi fa un uso reiterato e ossessivo di proverbi o di “frasi fatte” sarebbe più ignorante, sprovveduto o addirittura stupido della media.

Non ricordo quale sia la fonte di questo dato e non sapevo nemmeno a chi fosse venuta l’idea per un’indagine così peculiare, né tantomeno potevo immaginare in base a quali criteri (statistici o clinici) fosse giunto a una conclusione del genere.

Ma prima di tutto: cosa s’intende per “frase fatta”?

È una banalità, talvolta evidente e colossale, altre volte non immediatamente distinguibile come tale ma, qualora esaminata con un pizzico di cura, facilmente identificabile come composta per il 99% da aria fritta, la cui diffusività è molto spesso inversamente proporzionale al grado di utilità, fattibilità o verità di ciò che esprime.

Eccone un piccolo florilegio: “Mi spezzo ma non mi piego”, “Cadi nove volte, rialzati dieci”, “Sopra le nuvole c’è sempre il sole”, “Il momento più buio è quello che precede l’alba”, “Se puoi sognarlo, puoi farlo”, “Il meglio deve ancora venire” (che si piazza trionfalmente tra le mie preferite), “Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso” (attribuita addirittura a Mandela), “Barcollo ma non mollo”, “Più sogni, più andrai lontano” (questo dovrebbe averlo detto Michael Phelps), “Non importa quanto vai piano, l’importante è non fermarsi” (questo è Confucio, evidentemente in uno dei suoi giorni meno ispirati), “Se l’opportunità non bussa, costruisci una porta” (Milton Berle, che tuttavia era un comico e non escludo che la frase abbia un sottinteso molto più ironico di quanto non sembri avere già).

Subito dopo aver pubblicato le due o tre stories cui alludo mi arrivò un messaggio privato: era una mia corregionale pescarese, Serena Iacobucci, che si era riconosciuta come autrice dello studio neuro-scientifico (condotto nel 2021 insieme al suo team nel Laboratorio di Economia Comportamentale del dipartimento di Neuroscienze di Chieti) dal quale una rivista o un quotidiano online aveva tratto l’articolo a cui avevo fatto riferimento.

Tralasciando la coincidenza sbalorditiva del menzionare una ricerca la cui autrice non solo è abruzzese, ma anche mia follower (la tentazione sarebbe di commentare il tutto usando una frase fatta: “chi non crede nelle coincidenze, le perde”), sottolineo che nelle mie stories fui probabilmente sbrigativo e superficiale, ma nient’affatto severo. Oltre ai verbi al condizionale, che uso anche qui, ricordo bene che nel primo dei miei commenti anteposi un cauto “ehm” alla parola “stupido”: non avevo intenzione di offendere chiunque fosse abituato a scrivere amenità come “Solo chi cade può rialzarsi”, oppure “Chi non ti ama non ti merita”, per commentare le mie facezie da social.

Ma qual è il problema di usare formule così trite, insulse e poco significative, se la finalità è comunque apprezzabile? Che c’è di male nel consolare, incoraggiare, esortare a non abbattersi mediante frasi semplici, sintetiche, riconoscibili e assolutamente non fraintendibili proprio perché ormai invalse nel parlato quotidiano? Perché qualcuno sarebbe (fate sempre caso al condizionale) meno brillante degli altri solo perché utilizza più spesso proposizioni il cui larghissimo uso, in qualche modo, ne dimostra e legittima l’efficacia, la saggezza, forse persino il grado di verità?

La premessa è che tutti, più o meno consapevolmente, proferiamo frasi non proprio memorabili, ogni singolo giorno. Nelle normali conversazioni molto di rado si approfondiscono temi che costringono le rispettive facoltà razionali o sensibilità personali a produrre considerazioni di spessore. Non c’è nulla di male, vorrei sottolinearlo: buona parte delle interazioni umane non ha lo scopo di barattare informazioni indispensabili, ma di consolidare quotidianamente (o periodicamente) i rapporti esistenti tramite lo scambio di comunicazioni semplici, poco strutturate, per la cui produzione si investe il minimo impegno intellettivo o emotivo. Pensate allo sforzo che imporremmo ai nostri cervelli se a ogni singola conversazione dovessimo proporre costrutti sintatticamente e filosoficamente elaborati, invece di limitarci a chiacchierare del tempo, del film visto la sera prima o delle imminenti semifinali di Champions League nel modo più rilassante e stereotipato possibile.

Il problema sorge quando la totalità della nostra produzione semantica, riflesso inevitabile di quella intellettiva, non riesce a oltrepassare il crinale delle banalità; sorge quando non riusciamo a rendere più ampio e profondo il livello delle nostre riflessioni e, di conseguenza, più acuta e brillante la nostra capacità di comunicare; sorge se ci accontentiamo di cabotare a pochi metri dalla riva della convenzionalità, invece di osare qualcosa di minimamente creativo. Che sia per pigrizia, per paura o perché consapevoli di una limitata dotazione di mezzi espressivi, poco importa: il risultato finale è quasi sempre identico.

Una frase fatta, in un certo senso, è la sintesi del nostro fondamentale disinteresse ad approfondire o della nostra refrattarietà a osare. Non c’è nulla di male a compatire affettuosamente qualcuno che ammiri scrivendogli “Chi non ti ama non ti merita”, ma sembra evidente che la frase in sé debba aver richiesto uno sforzo mnemonico o creativo pressoché nullo – oltre a essere di una consequenzialità discutibile e di un valore edificante tutto da dimostrare.

Pensateci bene. A parte il fatto che il 99,99999% della popolazione mondiale non ci ama (anche perché non ha idea di chi siamo… ma non mi pare il caso di fargliene una colpa), se anche coloro che ci conoscono a fondo non provassero nei nostri confronti altro che una benevola indifferenza, per quale motivo non dovrebbero essere degni di noi? Perché dovrebbero amarci tutti? E poi, a pensarci bene, che significa “meritarsi” qualcuno?

La maggior parte delle frasi fatte non regge ad analisi logico-semantiche persino più grossolane di questa. Prendiamo “Il meglio deve ancora venire”. Sì, d’accordo, lo speriamo… ma in base a cosa? Come facciamo a ritenerlo così probabile? Quali dati oggettivi ce ne danno un minimo di certezza? Non sarebbe il caso di concedere credito, invece, all’evidenza secondo cui la totalità dei fatti (morte esclusa, naturalmente… che tuttavia non includerei nella categoria del “meglio”) non potrà mai essere pronosticata con sicurezza?

E il Confucio (non molto ispirato) di cui sopra? “Non importa quanto vai piano, l’importante è non fermarsi”: a prima vista si direbbe una limpida esortazione a procedere verso le nostre ambizioni non badando troppo al tempo che impiegheremo a concretizzarle, considerato che pazienza e perseveranza sono virtù essenziali all’ottenimento di qualunque risultato. Ma siamo sicuri che procedere a testa bassa verso l’obiettivo sia sempre e comunque la strategia migliore? Non sarebbe meglio, ogni tanto, fermarsi a riflettere se quell’aspirazione così enorme e lontana non sia dettata solo dalla smania di arrivare a tutti i costi a un traguardo che a un tratto, potremmo scoprire, non desideriamo davvero? Siamo sicuri che molte delle nostre ambizioni non siano imposte dalla frenesia di uniformarsi ai precetti di una società così assurdamente performante e competitiva? Più in generale: come faccio a sapere esattamente cosa voglio se non me ne allontano? Se non smetto di pensarci ossessivamente, come l’invito a “non fermarsi” sembrerebbe suggerire?

Analogo discorso per alcuni dei detti più popolari della nostra tradizione.

Pensate a “can che abbaia non morde”, della cui presunta saggezza ho sempre diffidato: le mie nozioni di etologia sono rudimentali – tra l’altro non sono esattamente un cinofilo – ma anche traslando il proverbio dalla psicologia canina a quella umana non credo sia molto prudente ignorare una potenziale minaccia solo perché è inequivocabilmente manifestata da un intimidatore: la cronaca nera è tristemente zeppa di aggressioni precedute da chiari e ripetuti avvertimenti.

Altri esempi? “A tavola non s’invecchia” (un nutrizionista ribatterebbe che dipende da ciò che mangiamo), “Con le buone maniere si ottiene tutto” (imperdonabile eccesso di ottimismo), “Quando si chiude una porta si apre un portone” (anche qui non ci giurerei), “Donna al volante pericolo costante” (le statistiche dicono che sono gli uomini a provocare più incidenti), “Chi si scusa si accusa” (strano invito a non prendersi la responsabilità dei propri errori), “Ciò che s’impara da giovane non si dimentica da vecchi” (non è così automatico, purtroppo), “Il lavoro non ha mai ammazzato nessuno” (no comment).

In aggiunta al fatto che l’abuso di proverbi e frasi fatte ci preclude il salubre sforzo immaginativo di produrre considerazioni personali – spesso molto più significative e pertinenti delle presunte perle di saggezza che saremmo tentati di utilizzare – le ricerche di neurologia e psicologia sociale configurano scenari persino più inquietanti.

«Le persone che attribuiscono un significato eccessivo a frasi che non ne hanno poi molto», mi dice Serena Iacobucci in un lungo e illuminante vocale, «hanno una tendenza molto maggiore della media a lasciarsi influenzare dalle fake news e a fare ricorso a medicine alternative la cui efficacia è più che dubbia o tuttora indimostrata, come l’omeopatia. Questo tipo di ricerca si basa su un’intuizione di Noam Chomsky, il linguista, filosofo e scienziato cognitivista che nel 1957 formulò una celebre frase (“Incolori idee verdi dormono furiosamente”) come esempio di proposizione grammaticalmente ineccepibile ma priva di senso: a partire da alcune delle sue teorie, alcuni ricercatori hanno ideato la Bullshit Receptivity Scale (Scala di Sensibilità alle Cazzate) che misura la predisposizione di un individuo a lasciarsi influenzare da idee e teorie non documentate o addirittura palesemente infondate».

Quindi non è solo una questione di povertà espressiva: il rischio è che le parole di un buon amico che ti esortano a non lasciarti vincere dalla depressione (“non esiste vincitore senza cicatrici”) siano seguite da un suggerimento molto più discutibile (“mia cognata cura queste cose con il Reiki: ti do il numero”), da una considerazione ispirata al più ingenuo complottismo (“e comunque siamo tutti depressi da quando ci bombardano con queste scie chimiche”) e persino da una pseudoanalisi potenzialmente pericolosissima (“inutile andare dai medici, sono tutti d’accordo con le multinazionali del farmaco”).

Chi fa un uso reiterato di banalità, proverbi e frasi fatte sarebbe dunque più incline a lasciarsi abbindolare da una bullshit. La differenza tra una bullshit e una semplice bugia è proprio nel carattere estremamente subdolo della prima. Chi ti dice una menzogna è ben consapevole dell’inattendibilità delle sue parole, il che, in un certo senso, ne circoscrive il grado di pericolosità: se un individuo conosce la verità, pur avendo deciso di alterarla o nasconderla, può sempre essere tradito dalle esitazioni del suo linguaggio paraverbale o non verbale. Chi diffonde bullshit, invece, crede ciecamente in ciò che sostiene, oppure non si cura affatto del discrimine tra vero e falso, considerato che il suo unico scopo è di sopraffare dialetticamente l’avversario. Serena Iacobucci mi ricorda il celebre caso della contesa tra Donald Trump e il premier canadese Justin Trudeau, che affermava come il Canada non avesse alcun disavanzo commerciale con gli Stati Uniti: parole alle quali Trump si oppose con veemenza, esponendo dati puntuali e verosimili, anche se in seguito ammise di averli quasi completamente inventati e di non avere idea di quale fosse la verità sulla questione.

Sembra evidente che l’unico antidoto a questo genere di manipolazioni sia sviluppare una coscienza critica: leggere, informarsi, diversificare le fonti, imparare a selezionare quelle più autorevoli ed escludere del tutto i propalatori di notizie sistematicamente prive di riscontri affidabili. In questo modo diventeremo meno stupidi? Molto probabile. E magari, pur nella situazione tutt’altro che rassicurante in cui si dibatte l’umanità, potremo almeno individuare e respingere i fantasiosi allarmismi che attentano alla nostra serenità già insidiata da guerre, tensioni internazionali, cambiamento climatico.

Ricordando a noi stessi che possiamo trovare zampilli di saggezza un po’ dappertutto, persino nel calderone sabbatico dei social media: come ci ricorda l’ineffabile Toni Bonji in un post su Instagram di qualche settimana fa, un noto filosofo greco diceva che c’è un solo segreto per essere sempre felici.

Non essere mai tristi.

A me sembra una frase di lucida, toccante, luminosa verità.

Voi che ne pensate?

Fabio Bacà
Fabio Bacà

È nato nel 1972 a San Benedetto del Tronto, dove vive, scrive e insegna ginnastiche dolci. Nel 2019 Adelphi ha pubblicato il suo esordio, Benevolenza Cosmica a cui è seguito nel 2021 il suo secondo romanzo, Nova, finalista ai premi Strega e Campiello.

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