• di Raffaella Silvestri
  • Storie/Idee
  • Venerdì 24 marzo 2023

Un incontro, in India

«A vent’anni F. ha cominciato a uscire con un ragazzo, uscivano la sera e tornava tardi, e la gente criticava, allora il padre le ha fatto pressioni per sposarsi, a 24 anni. Anche se non era d’accordo con la scelta del ragazzo, per ragioni che erano sbagliate ma che col tempo si sono rivelate giuste. Il ragazzo era di una casta diversa. Che era una ragione totalmente sbagliata per dire che le cose non avrebbero funzionato, però poi le cose non hanno funzionato»

Una rana sul lavandino del bagno del Burger Factory, Morjim Beach, Goa, India (Foto Raffaella Silvestri)
Una rana sul lavandino del bagno del Burger Factory, Morjim Beach, Goa, India (Foto Raffaella Silvestri)
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Bevevo chai sulla terrazza di un hotel con poche camere ricavate da un vecchio forte militare, con una chiesa al centro. Siamo al confine con Goa, dove i portoghesi hanno governato ininterrotti – cosa rara per le vicende coloniali indiane – per 450 anni, dal 1510 al 1961. Ho visto arrivare due donne indiane della mia età, appena più giovani, forse sui trenta. Le ho notate subito perché una sembrava mia sorella: occhiali da sole post serata con lenti azzurre, maglietta sbrindellata e rock, tono di voce alto. Non è sempre vestita così, ma voglio dire che quando mia sorella entra nella stanza uno se ne accorge. La compagna di quella che sembrava mia sorella aveva un caschetto castano con riflessi viola, una carnagione molto chiara. Hanno ordinato, e tutto mi sembrava più buono o quantomeno più interessante del mio tè, così le guardavo, e a un certo punto quella che era mia sorella mi ha parlato, in quel modo accogliente che hanno le persone estroverse.

Abbiamo cominciato a parlare: quello che bevevano era caffè freddo – con latte, latte ovunque in India – e ieri sera avevano mangiato tanta pizza per assorbire l’alcol e quel po’ di fumo che avevano trovato camminando al molo, dove c’era un goan thali shack cioè un baretto che serve birra e questo piatto di pesce, e fa da ritrovo per locals, turisti e fricchettoni, perché da lì parte il traghetto che collega il forte con il mondo.

Un gruppo di ragazze sulla spiaggia di Morjim Beach, Goa, India (Foto Raffaella Silvestri)

 

F. ha 30 anni e lavora a Google. Nell’estate dopo le scuole superiori ha passato due mesi a Napoli, dove ha fatto uno stage, e l’ha adorata. Non mi sorprende che un’indiana possa amare Napoli, e glielo dico, e lei dice sì, è stato il suo primo viaggio importante e l’ha invogliata a viaggiare in tutto il mondo, e in effetti a 30 anni ha visto tutti i posti: Stati Uniti, Sud America, è stata pure a Torino. Mi dice che quando comincerà a vivere di passive income (di rendita) prenderà una casa ad Amalfi e starà lì. Le dico che ci vuole una bella rendita, e lei dice che infatti l’unico problema di vivere in India è che il suo stipendio è un quarto di quello di R, la sua amica, che pure lavora a Google ma nella sede in Colorado, da sei anni, dopo aver iniziato la carriera anche lei in India. La rendita di cui parla F. non è una rendita di famiglia, di soldi di terra che vengono dal passato, una ricchezza generazionale. Non è la rendita di cui certi campano a Roma, è la rendita del futuro, che è il tempo dell’India, così come il passato è il tempo dell’Italia. Le avevano proposto di investire in una proprietà a Bali ma le è sembrato un investimento già superato, e in effetti Bali is dead, in mano ai russi speculatori da tempo. In un paese in cui l’età media è 28 anni, a 30 anni si è pienamente adulti, si investe; in un paese, il nostro, in cui l’età media è 46, a quasi 40 sei ancora ragazza. C’entra anche la crescita economica attorno al 6% (stabile a questo ritmo da vent’anni) contro una non-crescita, la nostra, che non è solo economica ma anche psicologica, di orizzonti e di speranze.

Loro, invece, sono proprio la prima generazione, in alcuni casi la seconda, che ha tutto alla propria portata. Basta che studi, che lavori, e non devi neanche studiare ingegneria: F. ha studiato letteratura inglese. Tutta intrisa di colonialismo, dice. Gli inglesi sono letteralmente ossessionati dalle ferrovie che hanno costruito qui, dice, un mio collega una volta mi ha detto ma perché parlate dei traumi transgenerazionali del colonialismo, se vi abbiamo costruito la ferrovia. Ci credi? E si trastullano con l’idea che ci hanno “dato l’inglese” vengono qui e tipo oh che bello, tutti parlano inglese. Del resto anche gli indiani hanno interiorizzato un senso di inferiorità e il razzismo, dice, ma le cose stanno cambiando, sono già cambiate.

Parliamo molto di razza e colonialismo, di come in generale gli europei imparano a scuola che “il grande impero britannico” ha governato l’India grazie al commercio. In realtà, la repressione violenta, lo sfruttamento sistematico di persone e risorse, la schiavitù, le vere e proprie stragi sono paragonabili a quelle avvenute in Africa. L’unico episodio di cui si ha una vaga cognizione in U.K. è il massacro di Jallianwala Bagh Gardens, del 1919, in cui si sparò sulla folla riunita pacificamente e bloccata al centro di un dedalo di vie nella città di Amritsar, in Punjab, durante un festival religioso per il quale migliaia di persone erano arrivate dalle campagne. Questo evento è rimasto fissato perché ci sono cittadini britannici oggi che in piazza quel giorno avevano un nonno, un qualcuno che ne ha tramandato memoria, ma non rappresenta un’eccezione, è solo un giorno nella storia di una colonizzazione sistematicamente sanguinaria.

Molto meno, per esempio, si studia il massacro del 1857, cioè la repressione di quella che nelle fonti britanniche è chiamata “la Ribellione indiana” e in quelle indiane “Prima guerra di indipendenza”. Iniziò come ammutinamento dei soldati indiani stipendiati dalla Compagnia delle Indie, ma si estese anche ai civili e fu sedata ferocemente, segnando la fine di qualsiasi illusione di “cooperazione pacifica” fra Compagnia delle Indie e popolazione locale: nella corrispondenza privata del tempo si trovano racconti di pratiche sadiche come costringere gli indiani a leccare il sangue delle altre vittime.

Uno dei grandi fraintendimenti della vicenda coloniale britannica nasce dal fatto che gli inglesi, pur trovandosi sempre in inferiorità numerica, riuscirono a dominare un territorio dalla popolazione così numerosa. Questa circostanza ha alimentato vari miti sul “potere degli scambi commerciali” e la loro convenienza reciproca, o su una presunta superiorità dei costumi britannici riconosciuta dagli indiani. Semplicemente, gli inglesi si avvalevano di un esercito professionale di circa 300.000 soldati indiani (sfruttando la frammentazione politica del territorio) e 50.000 britannici. Ma ancora prima, in un resoconto di William Bolts del 1772, è attestato che alcuni tessitori di cotone si auto-mutilavano tagliandosi i pollici per sottrarsi alle condizioni di lavoro disumane imposte dagli inglesi (a lungo si è pensato, mal interpretando il testo, che fossero gli inglesi a mutilare i lavoratori). La Storia è scritta dai vincitori, ma ora i vinti cominciano a scrivere (o a fare podcast, come Empire di Anita Anand o film come RRR, su Netflix).

I genitori di F. si sono resi conto presto che lei avrebbe fatto una vita diversa dalla loro, e l’hanno accettato. Credo che faccia parte del gruppo di caste più elevate, ma questo è un argomento che mi imbarazza e, anche se lo tira fuori lei, io non faccio domande (vorrei). Il sistema di caste è trans-religioso, coinvolge tutta la popolazione (quindi non solo gli hindu appartengono a una casta, ma anche i musulmani, cristiani, sikh, buddisti, giainisti, e le caste sono trasversali, ovvero un cristiano per esempio può essere di qualsiasi casta, tranne la più alta, quella dei bramini, che sono solo hindu e sono il 4%).

A vent’anni F. ha cominciato a uscire con un ragazzo, uscivano la sera e tornava tardi, e la gente criticava, allora il padre le ha fatto pressioni per sposarsi, a 24 anni. Anche se non era d’accordo con la scelta del ragazzo, per ragioni che erano sbagliate ma che col tempo si sono rivelate giuste. Il ragazzo era di una casta diversa. Che era una ragione totalmente sbagliata per dire che le cose non avrebbero funzionato, però poi le cose non hanno funzionato e F. si è separata l’anno scorso, è tornata dai genitori e adesso aspetta il divorzio, che è una cosa complessa in India. Anche se il divorzio è consensuale, se il marito non si presenta all’udienza, e poi non si presenta anche alla seconda udienza, il divorzio è annullato e non si può ripresentare la domanda e lei dice che è in ansia ma è preparata anche a vivere da separata, nel caso peggiore. Il divorzio in India rientra anche nella personal law, che è regolamentata dalle singole comunità religiose, e sia F. che R. sono hindu (nella Common Law ci sono sentenze diverse e dal 2023 c’è la possibilità di divorziare senza aspettare i sei mesi obbligatori attualmente richiesti per i tentativi di riappacificazione e conciliazione). R., invece, è già divorziata.

Nel frattempo, il sole si è fatto scorticante sulla terrazza, anche se siamo all’ombra, questo sole arriva ovunque, la colazione è diventata un brunch, e adesso F. ci fa provare un cocktail locale, che prepara lei, perché ha fatto un corso di mixologia a Barcellona.

Dice: adesso ci facciamo una doccia ci ritroviamo qui e ti portiamo a vedere davvero cos’è Goa e Goa la sera e la notte. Ci ritroviamo nel sole delle quattro e trovo F. che parla con il gestore dell’hotel, un uomo attraente che – mi pare – ci prova con lei. Le sta spiegando che stasera c’è una serata di musica elettronica (Goa è una capitale della musica elettronica insieme a Ibiza e Berlino) e poi qui c’è musica dal vivo, e qui c’è quest’altra cosa, dei nuovi cocktail con delle etichette di gin locale. Ma ci prova? Le chiedo dopo, al molo. Mah, dice, è uno di quegli uomini tipici dell’India del nord, che sono come i napoletani: sono affascinanti, seduttivi, ma alla fine l’unica donna che amano è la madre, tu non sarai mai all’altezza, e ti inondano di luce e ti fanno sentire come se dalla tua bocca sgorgasse oro fuso, ma poi spostano lo sguardo e ti lasciano lì, all’ombra.

Parliamo di femminismo. Del modo in cui in azienda non ha mai percepito un soffitto di cristallo, cioè degli ostacoli all’avanzamento della sua carriera legati all’essere donna, mentre fuori gli uomini sono così facilmente emasculated. Cioè suscettibili, hanno bisogno di essere pedestalized, di non essere messi in discussione. Ho l’impressione che non stiamo parlando solo degli uomini indiani, ma di uno stesso uomo che oggi potrebbe vivere a New York a Roma a Mumbai. Parla con gli stessi termini del femminismo liberal americano, ma precisamente applicati alla sua vita: a Napoli per strada le hanno messo le mani addosso, dice, ma non aveva gli strumenti per registrare la cosa come una molestia, adesso li avrebbe. Discute continuamente col padre su cose come il bodyshaming.

Mentre andiamo verso il mare F. sembra friggere, non vede l’ora di arrivare, ma questo è proprio un po’ il suo modo di stare, e mi sembra significativo, di tutto, di questo Paese che sta andando da qualche parte a velocità altissima, ma non si sa ancora dove. Pablo Trincia, nel podcast Megalopolis – Mumbai 2050, ipotizza che per quell’anno Mumbai sarà inondata a causa del cambiamento climatico. Ne dubito. Dire 2050 qui è come dire fra tre secoli: al problema si sarà trovata una soluzione, anche se oggi non ce la immaginiamo (oggi l’India è al terzo posto al mondo per emissioni di anidride carbonica).

Nel 2015 la rupia era talmente bassa che la mia stanza sulla spiaggia costava 5€ a notte. Adesso la stessa stanza costa dai 50 ai 250€, e i posti turistici cominciano a preferire il turismo interno, che diventa eco-friendly e “sostenibile”. Hanno chiuso il Curly’s perché una ragazza famosa è morta di overdose. Ma giusto perché era famosa, dice F., perché qui in India la gente muore in continuazione per le ragioni più diverse, non è che stanno a chiudere i locali per questo. Non dire così, le dice R.

F. ci porta in un locale sulla spiaggia che sembra una location da film prima che ci girino il film e arrivino i turisti a rovinare tutto – ha gli hamburger migliori di tutta l’India, dice F. Intendono hamburger vegetariani, R. si lancia in una filippica contro il cibo negli Stati Uniti. Il parmigiano non è vegetariano, mi dice, chissà se il pecorino. Vado in bagno: una rana mi fissa dal lavandino. Non buttate nello scarico carta igienica, assorbenti, e le vostre aspirazioni.

Andiamo a bagnarci nell’oceano. È quel momento appena passato il tramonto in cui l’oceano riflette tutta la luce, e la spiaggia sembra un prato; infatti corrono tutti, verso il mare, che è caldo e rosa. Per un attimo, F. si ferma, soddisfatta. Non dura molto: dai andiamo, dice.

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Raffaella Silvestri
Raffaella Silvestri

Scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato Filosofia di genere a Helsinki e Filosofia delle scienze sociali a Cambridge. Ha scritto i romanzi La Distanza da Helsinki (Bompiani, 2014) e La Fragilità delle certezze (Garzanti, 2017). Ha una newsletter, Velluto.

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