Sette brevi lezioni sulla metro di Roma

«Lo spaziotempo, sulla Linea B/B1, non esiste, e se volete la prova, sappiate che gran parte dei treni che coprono la linea Jonio-Laurentina e Rebibbia-Laurentina risale alla Terza guerra punica. Noi utenti fedeli e affezionati riusciamo a riconoscere l’età del treno in arrivo dal rumore»

Passeggeri a piedi per un guasto alla stazione di Termini sulla Linea B, Roma, 13 settembre 2019 (ANSA/FABIO FRUSTACI)
Passeggeri a piedi per un guasto alla stazione di Termini sulla Linea B, Roma, 13 settembre 2019 (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Sottoterra non ci si va solo da morti, sottoterra ci si va anche per prendere la metropolitana. Succede ogni giorno, siamo tutte colombe chiamate dal disìo di tornare a casa o di andare al lavoro. Noi, utenti del trasporto pubblico di Roma, firmiamo tacitamente un disclaimer che recita quanto segue: La nostra azienda non si assume alcuna responsabilità per la distorsione del tempo e dello spazio, o per gli effetti collaterali derivanti delle informazioni fornite dal display sui tempi di attesa, per es.: atti autolesionistici, possessioni demoniache, denutrizione, vene varicose, gotta.

Prendiamo la metro perché dobbiamo farlo, ogni mattina, ogni pomeriggio, ogni sera.

Il mondo di sotto non è lo stesso del mondo in superficie. Il mondo di sotto è una metafora, è buio, malsano, pieno di imprevisti, è un luogo in cui ogni essere umano è un’isola, in cui homo homini lupus e tutti sono pronti ad azzannarti la giugulare pur di guadagnarsi un posto a sedere. Guardiamoci in faccia, noi tutti passeggeri della metropolitana di Roma. Poco prima di entrare in una stazione fischiettiamo, saltelliamo lieti e festosi, gli uccellini ci volano attorno alla testa cinguettando, siamo tutti Cenerentola, abbiamo la pelle rosea e distesa, siamo l’incarnazione dell’ingenuità. Guardiamoci in faccia, amiche e amici. Lo sapete anche voi che appena entriamo in una stazione della metropolitana cambia tutto.

Noi, con la pelle rosea e distesa, diventiamo grigi. I lineamenti si deformano, ci guardiamo intorno con odio, quanto cammina veloce questo, quella mi sta superando, se non li raggiungo mi intasano la porta, e io resto fuori e la prossima metro passa tra cinque minuti. In metro siamo tutti nemici.

Lezione 1. La notte non esiste
“E famme scende, prima de sali’”. “Aho, e te sbrighi? Che ci hai preso ‘a residenza qua?” “Sto zaino me lo devo incolla’ io o lo levi de mezzo?” Questi sono gli scambi più graziosi, talvolta accompagnati da sgomitate, in cui si incappa nelle ore antelucane, di mattina, di pomeriggio, di sera, persino di notte. Di notte, si fa per dire. Perché a Roma la metro, di notte, funziona solo fino all’1:30 e soltanto il venerdì e il sabato. Il resto dei giorni chiude alle 11:30, tranne la linea A che, dal 4 luglio 2022, dal lunedì al giovedì si ferma alle 21 per una serie di brevissimi lavori di ristrutturazione che si concluderanno tra la fine del 2023 e gli inizi del 2024. Ma non temete: se dovete usufruire della gloriosa metro A avrete a disposizione le navette sostitutive, definizione eufemistica che sta a rappresentare degli avventurosi corsi di sopravvivenza al sovraffollamento planetario e alla siccità.

Lezione 2. Il tempo si distorce
Il primo, vero choc di qualsiasi utente della metro di Roma è rappresentato dalla distorsione del tempo. Chiunque si fermi a guardare il display della metro B/B1, per esempio, capisce al volo che quello è il luogo d’elezione al quale applicare i grandi insegnamenti della vita e della morte. Si guarda il display che recita: 7 minuti. Ci si prende quei trenta secondi per evitare di urlare al mondo che 7 minuti di attesa fanno venire voglia di morire, dormire ma, sicuramente, non di sognare, e poi ci si calma, ci si ammanta di dignità. Fermi. Sul marciapiede. Si tenta di far passare il tempo. Si guarda il cellulare. Oh, meno male che c’è un post interessante. C’è un bel reel su Instagram. Perfetto, saranno passati tre minuti, ormai. Ci si gira a guardare il display ed ecco i soliti 7 minuti. Sempre 7 minuti. Quei 7 minuti durano un quarto d’ora. Nel frattempo c’è gente che si è scambiata il numero di cellulare, ha flirtato, si è innamorata, sposata, riprodotta e ha cresciuto altri utenti della Metro di Roma, anche loro stanno aspettando che passino quei 7 minuti. Che passano, per carità, e finalmente ecco che sul display compare un solo minuto di attesa. Uno.

In quell’unico minuto le certezze si sgretolano, si scardina qualsiasi punto fermo. La voce registrata recita: Allontanarsi dalla linea gialla. Ed è precisamente quello il momento in cui centinaia di persone si ammassano sulla linea gialla, anzi, oltre la linea gialla: proprio davanti al buco nero.

Lezione 3. Il corpo si disgrega
I vagoni aperti risucchiano braccia mani menti civiltà. Non sono rari i feriti che, dimentichi di avere un corpo, restano stritolati dall’assalto al posto a sedere. C’è chi perde gli arti, c’è chi perde il senno. Tutti perdiamo tempo, e quindi tutti perdiamo la vita. Deformità del volto, gambe con muscoli che non sapevamo di avere e che cercano di tenersi in equilibrio non potendo sorreggersi agli appositi sostegni, braccia e mani impiegate a controllare continuamente che i solerti borseggiatori non siano passati ad aggiungere il danno al danno: ciascuna fermata della Metro B/B1 dura quanto l’Ulysses di Joyce, ciascuna fermata è uno stream of consciousness fatto di una colorita varietà di turpiloquio masticato a bassa voce: “Mortacci tua, spostete.” “Se t’avvicini n’antro po’ te corco.”. Lo spaziotempo, sulla Metro B/B1, non esiste, e se volete la prova, sappiate che gran parte dei treni che coprono la linea Jonio-Laurentina e Rebibbia-Laurentina risale alla Terza guerra punica. Noi utenti fedeli e affezionati riusciamo a riconoscere l’età del treno in arrivo dal rumore che produce: se sferraglia e cigola, allora è stato usato contro i cartaginesi. Io, per esempio, ho il mio treno preferito, vecchio ma arzillo. La metà delle porte è bloccata sin dal Pleistocene. Su una di queste c’è un foglio stampato: “PORTA OUT OF ORDER. È ROTTA.” Sotto, qualcuno ha aggiunto a penna, in un dialetto un po’ approssimativo ma feroce: “Voi a noi c’avete rotto er cazzo, no la porta”.

Lezione 4. Oltre l’infinito
La Metro C non fa eccezione, anzi. La Metro C vorrebbe essere moderna e invece è l’imitazione struccata e senza panciera della Lilla di Milano.

Ma se sulla Metro B/B1 noi, noi povere anime lussuriose animate dal desiderio carnale di arrivare a destinazione ci sentiamo scaraventate in un tempo passato, molto passato, quasi in un dopoguerra di binari mezzi rotti, di scioperi a macchia di leopardo, di stazioni chiuse così, per dispetto, e il nostro tempo si distorce verso il passato, sulla Metro C sprofondiamo nel vortice di 2001: Odissea nello Spazio, e precisamente nella parte intitolata “Giove e oltre l’infinito”. La Metro C è il monolito e tutti noi, coraggiosi utenti, siamo Bambini delle Stelle, siamo tutti David Bowman che, evoluti in una forma di vita superiore, attendono, con distaccata curiosità, l’arrivo del treno San Giovanni/Pantano/San Giovanni.

Lezione 5. Il silenzio cosmico
Ciò che sulle altre due linee metropolitane di Roma porta alla deformazione fisica e psichica, sulla Metro C spoglia gli esseri umani del loro corpo. Le entità disincarnate che si aggirano sul marciapiede parlano a bassa voce, si guardano intorno timorose, trattengono il respiro fissando il display. L’attesa va dai 9 ai 12 minuti: alle volte, sorprendentemente, raggiungiamo i 7 (il che ci crea un cortocircuito identitario: dove siamo? Dove stiamo andando? Ma soprattutto: è la metro giusta?). Succede anche, tuttavia, che i minuti vadano assottigliandosi per poi aumentare di nuovo. La leggenda narra che, più di una volta, otto minuti siano diventati dodici, e poi quindici, e poi venticinque.

La gente mormora, il brusio si fa più intenso, ma nessuno grida, nessuno sbuffa, nessuno, in sostanza, reagisce da essere umano: siamo tutti puri spiriti, sul marciapiede della C. Si vocifera che Beckett – il quale, come tutti gli intellettuali visionari, aveva previsto il futuro – si sia ispirato alla Metro C per Aspettando Godot.

La Metro C che parte da Pantano e va verso il centro di Roma mette, tuttavia, a dura prova l’impalpabilità dei passeggeri. Succede che sia talmente affollata da non poter chiudere le porte, talmente allagata da richiedere corsi di sub, talmente ben frequentata che qualche audace ragazzo tira fuori un coltello per fare “’o spòjo” (letteralmente: “Lo spoglio”) a un coetaneo reo di indossare scarpe, giacche o felpe molto costose.

Sulla linea C regna sovrano quel silenzio che gronda soggezione. Sulla linea C nessuno guarda il cellulare, nessuno ascolta la musica dal cellulare, nessuno parla al cellulare con il viva voce, per il semplice motivo che, sulla metro C, non è prevista la copertura per i telefoni cellulari, eccezion fatta per le tratte esterne. Del resto, anche sulla B1, da Sant’Agnese/Annibaliano a Jonio gli utenti restano isolati. Effettivamente, anche la B1 è una metro molto moderna, con stazioni che sembrano uscite pari pari da Spazio 1999, con scale mobili rotte, ascensori non funzionanti, perdite d’acqua dal soffitto. Del resto, la vita è fatta di toppe e di inciampi: la Metro di Roma ci insegna a stare sempre all’erta. Grazie, Maestra.

Lezione 6. Il crollo della quarta dimensione
Il crollo della quarta dimensione porta con sé uno stravolgimento nelle relazioni. Ogni viaggio sulla metro di Roma è un microcosmo con leggi proprie. I limiti del mio linguaggio non sono più i limiti del mio mondo, lo spazio vacilla e il pendolare è politico. Non ci sono spazi inoccupabili: chi di noi non salirebbe su un vagone affollato con un monopattino o una bicicletta? In fondo, c’è posto per tutti, salvo rimetterci qualche caviglia. Ma che importa? Abbiamo i nostri beneamati mezzi pubblici che ci portano a destinazione, prima o poi. Forse. Se non si rompono nel bel mezzo della galleria che precede la stazione di Piramide, per esempio.

Siamo tutti fratelli, sulla metro, in lotta per sopravvivere. Nessuno si scandalizza se una signora di mezza età, con la messa in piega di Sofia Loren in La Contessa di Hong Kong prenota un’ecografia in viva voce, rendendoci partecipi della sua incontinenza e dunque della necessità di avere un appuntamento verso le 8:30 del mattino perché, dalle 14 in poi, per lei “è tutto un corri corri”. Nessuno si adombra se il vagone della metro A, la mattina alle 7, è una cacofonia di musica mediorientale, di gridolini che esultano “Delicious”, “Amazing”, di giubilanti “Ammazza, ho vinto tutto”, di video di cucina, di vocali intimi: tutti, rigorosamente, ascoltati a un volume che supera la soglia del dolore. Quando l’altoparlante sentenzia: “Attenti agli zingari, attenti agli zingari”, qualcuno annuisce, qualcuno sbarra gli occhi, la maggior parte continua a giocare a Candy Crush. Pure gli zingari si guardano le spalle. Eh gli zingari, signora mia, ci sono anche a Milano, ma fanno paura quelli che li filmano. Eh i cinesi, signora mia. Eh, i sudamericani, gli arabi, i russi, gli americani, i turisti, quelli con i tatuaggi, quelle che non ridono, quelli che guardano le serie tv al cellulare, signora mia. Eh però pure lei, signora mia. Siamo tutti fratelli. Siamo tutti uguali, sulla Metro. Siamo tutti odiatori, sulla Metro. Litighiamo per uno sguardo, sulla Metro. Siamo tutti allegri naufraghi, sulla Metro. Sottoterra siamo tutti uguali tranne gli zingari. A Termini si cambia ma fino a un certo punto.

Lezione 7. L’infinita vanità del tutto
Se si chiama Termini, un motivo ci sarà. Va da sé che Termini corrisponde alla seconda persona singolare, presente indicativo, del verbo “Terminare”, sinonimo di morire. Se vi dicono che è uno sbaglio, non credeteci. “Ricordati che devi morire”, diceva il frate a Troisi, in Non ci resta che piangere. Innanzitutto, a Termini, sottoterra, a ogni ora del giorno e della sera, ci sono molte più persone che in un sabato sera qualsiasi nel centro di Roma. Il che, ovviamente, riduce l’ossigeno a disposizione, per non parlare della luce. A Termini salta tutto. I passeggeri della Metro B, deformati fisicamente e psichicamente, che devono prendere la linea A. I passeggeri della Metro A, che hanno già raccolto i puri spiriti e gli “spòjati” della Metro C e che devono prendere la Metro B. Ogni istante di attesa sulla linea gialla sembra una sequenza di Metropolis, ma senza androidi accorsi a salvare i cittadini in schiavitù.

A Termini abbiamo tutti la stessa età: dai quindici in su, dimostriamo tutti gli anni di Benjamin Button appena nato. Termini è una pulsar ragno e la pulsar ragno è la vedova nera delle stelle. Se ti fermi a Termini vieni stritolato dal suo abbraccio mortale, e l’unica speranza è che la metro passi entro dieci minuti. Altrimenti, termini.

Ogni volta che scendi sottoterra la pulsar comincia ad attirarti nella sua ragnatela: irresistibili odori corporali che coprono tutta la gamma delle fragranze, inclusa quella dell’alcol consumato alle sei e mezza del mattino; turpiloquio diffuso come spezie in un kebab; il posto a sedere è un miraggio. Puoi solo sperare di ricavarti un piccolo spazio accanto alle porte opposte a quelle da cui si sale e si scende, ricordandoti di scegliere il lato giusto, cioè il senso di marcia. Perfino i virus, che i passeggeri spargono a tonnellate con le loro espettorazioni libere, terminano, a Termini.

Gaja Cenciarelli
Gaja Cenciarelli

Vive e lavora a Roma. È specializzata in scritture femminili, in letteratura anglo-irlandese e dei paesi di lingua inglese. Sta ritraducendo tutta l'opera di Flannery O'Connor. Tiene corsi di traduzione e Insegna lingua e letteratura inglese. Il suo ultimo romanzo è Domani interrogo (Marsilio).

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