Il più schivo e misterioso dei Beatles

In mezzo agli altri tre George Harrison fu un po' fratello minore, un po' schiacciato, infine premonitore: oggi avrebbe compiuto 80 anni

di Giacomo Papi

George Harrison in un campo della Cornovaglia nel 1967. (Chapman/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)
George Harrison in un campo della Cornovaglia nel 1967. (Chapman/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)
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Sulla prima pagina del Liverpool Daily Post del 25 febbraio 1943, esattamente ottant’anni fa, si parlava dei pesanti combattimenti in corso nel Donbass, della polmonite del primo ministro britannico Winston Churchill e della richiesta di libertà di Gandhi, in sciopero della fame contro il dominio del Regno Unito sull’India, che lo stesso Churchill aveva appena respinto. George Harrison nacque quel giorno, poco dopo la mezzanotte, al 12 di Arnold Grove in una piccola casa con bagno esterno da cui sei anni dopo la famiglia avrebbe traslocato per trasferirsi in una più grande.

George era il quarto figlio – la sorella Louise è morta a 91 anni il 29 gennaio di quest’anno – di Harold, un conducente di autobus prima impiegato nella marina mercantile, e Louise French che, secondo la leggenda tramandata dal biografo di Harrison Joshua Greene, rallegrava tutto il vicinato con la sua voce da usignolo e, ogni domenica, mentre era incinta di George, ascoltava musica indiana alla radio per diffondere la calma nel cuore del bambino che aveva nel ventre.

La verità è che i biografi di George Harrison hanno cercato spesso segni e presagi, come se fossero stati contagiati dalla spiritualità e dalla ricerca di senso e serenità che Harrison inseguì per tutta la vita. Anche per questo appare sfuggente, il più schivo e misterioso dei Beatles: fu sempre schiacciato tra il genio di Paul McCartney e quello di John Lennon, ma in molte cose riuscì a essere il primo.

Il 10 gennaio 1970, ribellandosi a McCartney, ebbe la forza di abbandonare per 12 giorni le riprese del documentario Let It Be e di pretendere che il gruppo si spostasse agli Apple Studios (è tutto raccontato in Get Back, il documentario di Peter Jackson uscito l’anno scorso), ma fu anche il primo a subire la violenza e a intuire il pericolo rappresentato dai fan, tra i primi a portare nella musica leggera occidentale quella orientale e a collaborare alla pari con musicisti di altre culture, il primo ad avere successo anche come solista, il primo a organizzare un concerto di raccolta fondi per il Bangladesh nel 1971, cioè a capire con almeno dieci anni di anticipo rispetto all’evento Band Aid di Bob Geldof il potenziale del rock nella beneficenza.

In compenso firmò l’ultima canzone registrata dai Beatles, il 3 gennaio 1970: “I Me Mine”, Io me mio, un verso che avrebbe dato il titolo alla sua autobiografia, ma che retrospettivamente appare come un manifesto programmatico della vita dopo i Beatles, come un’accusa al narcisismo di tutti e un’orgogliosa rivendicazione di sé.

Si racconta che per lui il rock arrivò come un’epifania nel 1956, a 13 anni, quando andando in bicicletta per Liverpool sentì “Heartbreak Hotel” di Elvis Presley uscire da una finestra e ne fu folgorato. Convinse sua mamma a comprargli la sua prima chitarra acustica e cominciò a suonarla. Poco dopo, sull’autobus che li portava a scuola, The Liverpool Institute High School for Boys, Harrison conobbe Paul McCartney che, pur avendo soltanto nove mesi di più, per tutta la vita rimase convinto che fossero diciotto (lo dice nel documentario The Beatles Anthology del 1995).

A 16 anni Harrison lasciò la scuola per lavorare come apprendista elettricista in un grande magazzino di Liverpool, e fu anche la possibilità di avere nella band uno che sapeva aggiustare gli amplificatori a convincere McCartney a presentarlo a Lennon per farlo entrare nei Quarrymen, il gruppo da cui sarebbero nati i Beatles (per farsi prendere, George suonò “Raunchy”, un pezzo del sassofonista Bill Justis). Lennon sarebbe stato un altro fratello maggiore, molto più riconosciuto e accettato da Harrison di quanto non sarebbe mai stato McCartney: «Mi seguiva come un maledetto ragazzino, gironzolandomi intorno tutto il giorno», avrebbe raccontato Lennon a Rolling Stone nel 1971; «mi ci vollero anni per considerarlo alla pari».

Nell’agosto del 1960, dopo aver cambiato il nome in The Silver Beetles e poi in The Beatles, Long John (Lennon), Paul Ramon (McCartney), Stuart de Staël (Stuart Suitcliffe, che avrebbe lasciato il gruppo per fare il pittore e sarebbe morto di emorragia cerebrale a 22 anni nel 1962), il primo batterista Pete Best e Carl Harrison (Harrison, in omaggio al chitarrista americano Carl Perkins) raggiunsero Amburgo su un pulmino scassato per esibirsi all’Indra, un club curiosamente battezzato come il dio dei temporali e delle folgori dell’induismo. Fu qui che Harrison, prima di essere rispedito a casa dalla polizia perché minorenne, andò per la prima volta con una donna, nella stessa stanza con gli altri che alla fine applaudirono. Il resto è noto, relativamente parlando.

Nel giugno 1961 i Beatles suonarono e cantarono nel singolo “My Bonnie” di Tony Sheridan. Qualche mese dopo un tipo di nome Raymond Jones si presentò in un negozio di Liverpool a chiedere il disco, che era uscito solo in Germania. Due giorni dopo lo chiesero due ragazze. Uno dei responsabili, che si chiamava Brian Epstein, ne ordinò 200 copie e si comprò un biglietto per andare a sentire suonare i Beatles al Cavern Club di Liverpool. Era il 9 novembre 1961, il 24 gennaio Epstein sarebbe diventato il manager della band. Il 14 agosto Ringo Starr accettò di entrare nel gruppo come batterista fisso e il 15 Pete Best suonò per l’ultima volta con i Beatles al Cavern, ma un gruppo di suoi fan si presentò sotto casa di Starr a protestare: “Pete forever! Ringo never!”. Qualcuno colpì Harrison e gli fece un occhio nero, e così Epstein si convinse ad assumere una guardia del corpo.

Per la prima volta i Beatles avevano sperimentato la follia dei fan, che durante la tournée americana avrebbe reso incontenibili migliaia di ragazzine, l’8 dicembre 1980 avrebbe causato la morte di John Lennon e il 30 dicembre 1999 l’accoltellamento di George Harrison ad opera di un ragazzo schizofrenico nella sua villa inglese. Harrison, probabilmente, fu il primo ad avvertire il pericolo che presto, con il successo, si sarebbe aggravato: «Mi resi conto che era una cosa seria, era la mia vita a essere condizionata da tutta questa gente urlante. Con quello che stava succedendo, con i presidenti che venivano assassinati, le dimensioni enormi della nostra fama mi rendevano nervoso», avrebbe detto nel 1987 in un’intervista a Rolling Stone.

In un’altra intervista dello stesso anno, rispondendo a una domanda sull’assassinio di John Lennon, disse: «Tutti ti dicono, ok, uno dei tuoi migliori amici è stato assassinato, quindi di certo devi sentirti nervoso di essere assassinato anche tu. Be’, va bene stare attenti, ma non voglio andare in giro avendo paura per la mia vita». Per la prima volta nella storia, a causa dell’esplosione demografica ed economica del dopoguerra, i giovani erano diventati una massa e un mercato di consumatori – i famosi baby boomer – che si comportavano con modalità nuove, più gioiose ma anche talvolta violente e incontenibili.

All’inizio del 1963 – sessant’anni fa, un altro anniversario – uscì Please Please Me, il primo album dei Beatles. Un anno più tardi, il 9 febbraio 1964, il gruppo si esibì al The Ed Sullivan Show, il programma televisivo americano che fu visto da 73 milioni di spettatori (il momento del passaggio dal successo inglese a fenomeno di massa epocale e mondiale è raccontato nella mostra di fotografie di Paul McCartney 1963–64: Eyes of the Storm che aprirà il 23 giugno 2023 alla National Portrait Gallery di Londra).

Alla fine del 1963 era uscito anche l’album With the Beatles, dove compare la prima canzone di Harrison, “Don’t Bother Me”, che significa non infastiditemi e, pur parlando d’amore, potrebbe essere letta come una preghiera ai fan. Era stata scritta come un esperimento, un giorno che era a casa con l’influenza, per dimostrare a sé stesso di sapere scrivere come Lennon e McCartney. Sarebbe stata la prima delle ventidue firmate soltanto da Harrison incise dai Beatles.

Fino alla metà degli anni Sessanta, però, il suo contributo fu legato soprattutto alla chitarra. Sta nelle tre note iniziali di “And I Love Her” e nell’arpeggio finale di “A Hard Day’s Night”, ma il suo posto rimase un passo indietro rispetto agli altri due. Durante la tournée americana, i giornali lo soprannominarono “The Quiet Beatle”, il Beatle tranquillo, anche se probabilmente fu il meno tranquillo dei quattro (la vera ragione del suo silenzio, ancora una volta, fu il mal di gola e l’ordine dei medici di non forzare la voce). La definizione che Harrison dava di sé stesso a quei tempi – “the Economy-class Beatle”, il Beatle che vola in economy – era più ironica, ma rivela l’inizio di un’insoddisfazione che lo avrebbe presto portato a cercare nuove strade per emanciparsi dall’ombra degli altri due.

Nel 1965, in un ristorante di Londra, Harrison provò per caso un sitar, lo strumento a corde indiano simile alla chitarra, e ne rimase molto colpito. Qualche mese dopo David Crosby gli presentò Ravi Shankar, il musicista indiano maestro del sitar, che sarebbe stato un altro suo fratello maggiore. Cominciarono i viaggi in India e le canzoni dei Beatles si arricchirono di riverberi e sonorità sempre più orientali, non solo nelle canzoni firmate da Harrison come “Love You To”, “Taxman” oWithin You Without You, ma anche negli arrangiamenti, per esempio, di “Norwegian Wood” o di “Strawberry Fields Forever.

Era la prima volta, almeno per musicisti a un livello di popolarità così enorme, che la musica orientale entrava nel rock e nel pop. L’interesse per l’India coincise con quello per la meditazione, e in qualche misura sostituì l’uso dell’LSD, la sostanza psichedelica che Harrison aveva consumato più degli altri ma che aveva abbandonato di colpo dopo un viaggio a San Francisco con la sua fidanzata Pattie Boyd. Ma l’India allentò anche la simbiosi con gli altri. Crebbero nuove amicizie come quella con il chitarrista Eric Clapton, che poi si sarebbe messo con Pattie, la moglie di Harrison, e arrivarono nuovi fratelli maggiori, e quindi nuove influenze musicali, come Bob Dylan. Ma aumentò anche, in maniera impressionante, la capacità di Harrison di scrivere canzoni.

Nel 1968 uscì “While My Guitar Gently Weeps”, nel 1969 “Here Comes The Sun” e “Something”, tre delle canzoni più grandi del gruppo e forse di sempre. In seguito McCartney avrebbe raccontato al suo biografo Barry Miles di avere detto a Lennon nel 1969: «Fino a quest’anno le nostre canzoni sono state migliori di quelle di George. Oggi sono le sue buone almeno quanto le nostre».

Per poco più di dieci anni, i Beatles avevano funzionato come una macchina che si alimentava a competizione ed emulazione, un po’ come la Firenze del Rinascimento o l’Atene di Pericle. Ma l’equilibrio non reggeva più, come è evidente guardando Get Back: in studio McCartney continuava a comportarsi da fratello maggiore, pur con grazia e gentilezza, ma Harrison non lo accettava più, era insofferente, irrequieto, fumava una sigaretta dietro l’altra e alla fine trovò la forza di andarsene. Mentre Starr se ne sta in disparte e Lennon altrove, con Yoko Ono sempre più vicina, Harrison riuscì a sottrarsi anche simbolicamente alla fame con cui McCartney sembrava sapersi nutrire del gruppo per creare la musica. Il 3 gennaio 1970 i Beatles registrarono la loro ultima nuova canzone insieme (anche se Lennon mancava). Era “I Me Mine”, di George Harrison, che a soli 27 anni si prese l’ultima parola.

Nel 1991 avrebbe raccontato: «A volte mi sentivo come avessi un milione di anni. Mi stava facendo invecchiare. Era questione di fermarmi o morire». Nel novembre 1970 uscì il suo primo album solista, il primo di un Beatle da solo dopo lo scioglimento. (Il primo in assoluto era stato Wonderwall nel 1968, sempre di Harrison). È un triplo LP che si intitola All Things Must Pass, un titolo che è contemporaneamente un addio al gruppo, ma anche una dichiarazione religiosa, l’affermazione dell’idea secondo cui vivere bene significhi prepararsi a morire, senza attaccarsi a nulla. Il disco infatti contiene una preghiera – “My Sweet Lord” che sarebbe diventato un inno generazionale (anche se Harrison sarebbe stato condannato per avere inconsapevolmente plagiato “He’s So Fine” di Ronnie Mack) – e un inno alla morte, “The Art of Dyingche Harrison aveva scritto al tempo dei Beatles, ma non aveva proposto.

La vita di George Harrison sarebbe continuata per altri trent’anni in cui avrebbe pubblicato altri sei album da solista (più quelli con i Travelling Wilburys, cioè Tom Petty, Jeff Lynne, Bob Dylan e Roy Orbison, altri fratelli, spesso maggiori); avrebbe organizzato il primo concerto di beneficenza della storia, The Concert for Bangladesh del 1971, con Bob Dylan, Eric Clapton, Ringo Starr, Ravi Shankar e altri amici; si sarebbe sposato di nuovo, con Olivia Arias, con cui nel 1978 avrebbe avuto il suo unico figlio, Dhani, battezzato come la sesta e settima nota della scala musicale indiana; si sarebbe dedicato ai suoi altri amori, il giardinaggio, le auto da corsa e il cinema (arrivò a ipotecarsi la casa per produrre Brian di Nazareth dei Monty Python, dopo la rinuncia della EMI terrorizzata dalle possibili accuse di blasfemia. Tra il gruppo di comici legò soprattutto con Eric Idle che, come Harrison tra Lennon e McCartney, era schiacciato tra John Cleese e Michael Palin); avrebbe lavorato di nuovo con McCartney e Starr al progetto Anthology nel 1994; si sarebbe ammalato di tumore alla gola nel 1997; sarebbe stato pugnalato con quaranta coltellate da uno schizofrenico che riuscì a entrare in casa sua il 30 dicembre 1999; e sarebbe morto a 58 anni a Los Angeles in una casa di proprietà di Paul McCartney circondato da Olivia, Dhani, Ravi Shankar e da un gruppo di hare krishna che cantavano. Le sue ceneri furono sparse nel Gange.

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