Il mondo dei senza musica

«Le serate-karaoke illustrano molto bene la mia teoria secondo la quale le canzoni funzionano come l’alcol, come collante sociale e ludico, e non saperle riconoscere, nelle situazioni in cui si è chiamati a fraternizzare e a divertirsi, è un po’ come essere astemi»

Gli strumenti musicali vengono passati nella botola prima dell'ottantesimo Ballo dell'Orchestra Filarmonica di Vienna alla Musikverein, 19 gennaio 2023 (Heinz-Peter Bader/Getty Images)
Gli strumenti musicali vengono passati nella botola prima dell'ottantesimo Ballo dell'Orchestra Filarmonica di Vienna alla Musikverein, 19 gennaio 2023 (Heinz-Peter Bader/Getty Images)
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Come il 4% circa della popolazione terrestre, sono amusica. La percentuale ovviamente è una stima, quello che invece è certo è che faccio una fatica terribile a distinguere una melodia da un’altra, e non sempre ci riesco. Se qualcuno canta o suona, e prende una stecca, non me ne accorgo: l’altezza delle note non la comprendo. Se all’uscita dal cinema tutti scambiano commenti estasiati sulla colonna sonora del film, nove volte su dieci sono costretta a riconoscere che io non ci ho fatto caso, e anche se mi spremessi le meningi per ricordarla non verrebbe a galla proprio nulla. Non sono semplicemente stonata: non è un problema di tecnica, quello che non mi permette di modulare un motivo con la mia voce. È che proprio non capisco come dovrei, come potrei fare. La parola stessa lo dice: ἀ-μουσία (a-musìa), mancanza di armonia. Per certi versi, sembra che somigli alla dislessia: le ricerche sull’amusia sono in corso, e ancora non è chiaro se si tratti di un disturbo di origine strettamente genetica oppure no. Pare, però, che, come la dislessia, nei bambini sia migliorabile con l’esercizio.

Io stessa, che in quanto adulta probabilmente non riuscirò mai a sentire la musica come la sente il restante 96% dei miei simili, mi rendo conto che in certe situazioni, se mi concentro, riesco a far caso a una melodia; solo che mi è categoricamente impossibile ricordarla, non appena smette di vibrare nell’aria. Fischiettare, canticchiare un motivetto, è fuori discussione. Se riconosco una canzone – e mi capita – è sempre per via delle parole, per le quali ho sviluppato fin dall’infanzia, forse per compensare il mio deficit, una memoria marmorea, per cui saprei recitare un vasto canzoniere dei grandi cantautori, da De Gregori a Guccini, continuando a storpiare, nella mia testa, i versi che non ho compreso bene ai primi ascolti: la paghi tutta, e apprezzi l’inflazione, per esempio; oppure, un incomprensibile la odiano oltremare al posto del Claudia, non tremare di Venditti. Le note iniziali di un brano non mi dicono niente, a meno che non lo abbia sentito migliaia di volte; e anche questo di tanto in tanto può capitare, perché anche se sono amusica ci sono state e ci sono, nella mia vita, canzoni che ascolto ossessivamente e non mi stancano mai. Anche un’amusica ascolta la musica, con una tendenza a variare di pochissimo il repertorio: per me è come rumore bianco, e anzi, la ripetizione è confortante: non riesco a soffrirla come accadrebbe a chi la sente davvero, e magari, alla quindicesima riproduzione di Martha My Dear potrebbe iniziare a seccarsi. Secondo la concisione pragmatica che spetta a ogni bella definizione scientifica, l’amusia è “l’incapacità biologica di comprendere, eseguire ed apprezzare la musica”.

Io, quando cerco di spiegarla a qualcuno, di solito dico solo che “non sento la musica”: al che si scatenano gragnuole di domande. Non è facile, me ne rendo conto, farsi un’idea precisa di quello che intendo; infatti, se non altro, l’amusia è un ottimo argomento di conversazione, e sa accendere grandi dibattiti anche fra sconosciuti, per non dire dei tentativi di emulazione degli ipocondriaci irriducibili (mi sa che ce l’ho anch’io), o di diagnosi per conto terzi, che spesso mascherano qualche frecciatina sulle doti canore di una suocera assente.

Prima di poter parlare e ridere e scrivere della mia amusia, naturalmente, ho attraversato una sequela di fallimentari tentativi di negare a me stessa la mia piccola deformità. Quando ero molto piccola, all’asilo, ci facevano battere le mani a ritmo. Ovviamente andavo sempre fuori tempo. Ilaria, concentrati!, mi dicevano, e io mi concentravo, ma non cambiava niente. Solo che l’imbarazzo, allora, lo conoscevo a malapena, e così continuavo imperterrita a battere le mani senza seguire gli altri. A otto anni, in piena crisi mistica, pretesi di andare a cantare nel coro della parrocchia. Ma non riuscivo mai a capire quando dovessi cominciare, e così rimanevo lì, all’erta, a bocca chiusa, in attesa di una nota che non sapevo riconoscere. Poco più tardi, ardimentosa, mi iscrissi a un corso di chitarra: speravo che avrebbe risolto i miei problemi, e invece il giorno del saggio fui collocata in ultima fila, con l’ordine di suonare senza toccare le corde, per evitare di sballare tutti gli altri.

L’adolescenza è un’impresa impegnativa; ma un’adolescenza amusica è ancora più difficile. Se un ragazzo per cui hai una piccola cotta ti chiede che musica ascolti, non dovresti – come facevo io a quattordici anni – rispondere che la musica non ti piace: è il genere di risposta che crea solo sconcerto e spaesamento. Ancora peggiore si rivelò la soluzione opposta: ascolto un po’ di tutto, dicevo, ed era anche vero, in un certo senso… ma che compassione, a ripensarci. Mi ritrovavo con CD di compilation diligentemente selezionate da questi poveri ragazzini, e poi mi toccava pure commentare i brani, e non sapevo mai cosa dire. Il vero problema è che per me all’epoca non era nemmeno un valido argomento di conversazione, perché non sapevo che esistesse, l’amusia.

L’ampiezza delle conseguenze sociali dell’amusia – di cui, modestamente, credo di essere un tipico prodotto, e a cui, difatti, imputo molti dei tratti della mia personalità, alcuni buffi, altri sghembi, altri ancora estremamente fastidiosi – credo sia tutta squadernata nei tre verbi in cui si declina la definizione corrente: chi soffre di amusia, la musica è incapace di comprenderla, di eseguirla, di apprezzarla. Ma, se non riesce a capire la musica, riesce a capire benissimo quanto spazio occupi nella vita di tutti i giorni, nelle abitudini più diffuse, degli altri. La settimana di Sanremo per moltissime persone è una festa, un carnevale contemporaneo che risucchia grandi e piccini in un tunnel di motivetti orecchiabili, vecchi successi, duetti fra antiche glorie e cantanti emergenti; per me, è la settimana in cui sono costretta a inventarmi ogni genere di scuse per schivare gli inviti a seguire interminabili serate tutti insieme sul divano, a cantare a squarciagola o a disquisire sulle performance canore. Per fortuna, alla peggio posso sempre commentare i vestiti o accodarmi alle reprimende sui monologhi; ma, vi assicuro, rimane comunque una corvée.

Questo significa che, sì, sarà pur un grande argomento di conversazione, ma la solitudine di una persona amusica, e il livello di imbarazzo che può provare in una delle – tantissime! – situazioni sociali al cui centro è la musica, possono raggiungere picchi straordinari. E non c’è carisma né potere in grado di tamponare l’isolamento e limitare le figuracce: Oliver Sacks, in un capitolo del suo saggio sulla Musicofilia (Adelphi 2008, trad. di Isabella Blum) racconta che Che Guevara – uno degli amusici famosi, nel cui novero pare si possa contare anche Sigmund Freud, che difatti di musica si occupò pochissimo – si sia esibito una volta in un bel mambo, sulle note di un tango suonato da un’orchestra imbarazzata.

Il lato positivo è che la prospettiva dello straniamento pone chi soffre di amusia in una posizione favorevole all’osservazione antropologica. Per non annoiarmi mentre guardavo gli altri dedicarsi alla musica, ho coltivato il mio amore per le parole, per i gesti degli amici, che intanto ballavano, cantavano, suonavano, o semplicemente discutevano, per ore, di cose che non potevo capire. Chi soffre di amusia, e sperimenta dunque quel senso di inettitudine che sempre mi avvolge come uno scomodissimo bozzolo in ognuna delle tante situazioni in cui la musica occupa il centro della scena, si rende conto con un’intensità altrimenti impossibile di quanto siano diffuse, queste situazioni, e dell’importanza rituale che rivestono nella vita sociale. Gli innamorati hanno “la loro canzone”, i bambini imparano l’inglese cantando ossessivamente Twinkle twinkle little star, i gruppi di amici nel fiore della giovinezza (ma non solo) escono la sera per andare a ballare, in gita scolastica si strimpella la chitarra e si canta sul pullman. C’è chi si iscrive al corso di tango e trova lì l’amore della sua vita; chi affronta odissee per partecipare a maratone di musica elettronica, e passa sette giorni su un prato di qualche remoto angolo di Europa in precarie condizioni igieniche, fra debito di sonno, inedia, disidratazione, a ballare, ballare, ballare: e tu, amusica, sai che certo ne varrà la pena, ma sai anche che non potrai mai capire perché.

E poi ci sono le serate-karaoke, quelle che ti hanno portata a conoscere il terrore più puro – quello che ti prende quando qualcuno ti si avvicina, ti rifila il microfono e ti dice che ora tocca a te, e tu ti paralizzi. Magari, chi ha cantato prima non era proprio un interprete provetto; era però comunque qualcuno disposto a esibirsi in quegli improbabili locali vecchiotti e scintillanti, in cui le persone sono felici di cantare, anche male, anche solo per ridere. Le serate-karaoke illustrano molto bene la mia teoria secondo la quale la musica funziona come l’alcol, come collante sociale e ludico, ed essere amusici, nelle situazioni in cui si è chiamati a fraternizzare e a divertirsi, è un po’ come essere astemi: vedi tutti quanti che se la spassano, in uno stato di lieve alterazione, e tu rimani lì, imperturbabile nella tua estraneità all’esaltazione che corre nelle vene degli altri, che accende i loro occhi, i sorrisi. E tu li guardi, e pensi che il tuo destino sia guardare la vita che scorre, e un sacco di altri pensieri malinconici.

Ma nel 2005 (mentre me ne stavo a guardare gli amici della mia amica Paola che cantavano a squarciagola Albachiara su una spiaggia del Salento, intorno al falò, mentre il cielo già stingeva nell’alba), una scienziata dell’università di Montréal, Isabelle Peretz (che un paio d’anni prima, in un articolo scritto insieme a Krista L. Hyde aveva stimato al 4% la percentuale amusica della popolazione mondiale) realizzava, in collaborazione con i suoi colleghi dell’università di Helsinki, una misurazione dell’amusia congenita, e pubblicava i risultati dello studio negli Annals of Neurology. Qualche anno dopo, in quello e in altri studi sull’amusia si imbatté una mia cara amica, all’epoca dottoranda al Max Planck di Lipsia. Avevamo trascorso insieme, dai tempi del liceo, innumerevoli serate in cui lei mi aveva vista accampare una scusa dopo l’altra per tentare di boicottare il piano generale, sempre lo stesso: andare a ballare in qualche remoto centro sociale, il che per me significava starmene in piedi appoggiata contro il muro e rispondere a un’interminabile sequenza di perché non balli?

“Mi sa che ho capito cos’hai che non va con la musica”, mi disse dunque la mia amica, che di lì a poco sarebbe diventata una neuroscienziata e che grazie al cielo quella sera non aveva voglia di andare a ballare; e seduta stante mi sottopose al test. Mi fece ascoltare una serie di suoni per capire se distinguevo toni e semitoni, e poi di melodie che mi parevano tutte uguali, ma evidentemente non lo erano: il risultato è stato indubitabile (ci sono versioni del test disponibili online, volendo potete farlo anche voi). Per me fu uno di quei momenti di svolta impossibili da dimenticare. Uno di quei momenti in cui una cosa che ti era sempre sembrata un problema cambia improvvisamente faccia. Non avevo certo superato l’amusia, ma non mi importava più troppo, perché finalmente avevo una spiegazione, e una parola, per rispondere a chi mi chiede perché non ballo.

Tag: amusia
Ilaria Gaspari
Ilaria Gaspari

Ilaria Gaspari è nata a Milano. Il suo ultimo libro è Vita segreta delle emozioni (Einaudi 2021). Vive a Roma, collabora con diverse testate e con Radio3, e tiene corsi di scrittura.

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