L'impianto nucleare di Essenbach in Germania (Armin Weigel/dpa via ANSA)

La grande rinuncia al nucleare della Germania

Entro pochi mesi il paese chiuderà gli ultimi tre reattori ancora attivi, nel bel mezzo di una crisi energetica: sarà l'ultimo capitolo di una storia molto travagliata?

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Wyhl è una piccola città nella Germania sud-occidentale, poco distante da Friburgo e quasi al confine con la Francia. È un posto tranquillo vicino al Reno, uno dei più lunghi fiumi d’Europa, e a una riserva naturale nata al posto di una centrale nucleare. Nei primi anni Settanta, la popolazione locale si oppose fermamente alla costruzione dell’impianto, nonostante il governo federale tedesco avesse approvato tutti i piani necessari per la sua realizzazione. Alla fine di febbraio del 1975, il sito dove sarebbe stato realizzato il cantiere fu occupato per un paio di giorni dai manifestanti, fino a quando intervenne la polizia con la violenza per fermare l’occupazione.

I filmati degli agenti che sgomberavano gli occupanti, per lo più famiglie di contadini, resero la storia di Wyhl di rilevanza nazionale e internazionale. In segno di solidarietà, nei giorni dopo lo sgombero si unirono alla protesta gli studenti dell’Università di Friburgo: il caso divenne sempre più difficile da gestire per il governo e infine con l’intervento della magistratura fu annullato il progetto di costruzione. L’impianto non fu mai realizzato e al suo posto oggi c’è una riserva naturale.

La vicenda di Wyhl è considerata da storici e osservatori come uno degli episodi fondativi del movimento contro il nucleare, e fu di certo di fortissima ispirazione per iniziative simili organizzate altrove. I movimenti contro l’impiego delle tecnologie nucleari hanno una lunga storia in Germania, paese che negli anni si è comunque dotato di un numero notevole di reattori nucleari per la produzione di energia elettrica. Il paese ne possiede 17, ma in una decina di anni li ha fermati praticamente tutti, rimanendo con appena tre reattori che saranno chiusi il prossimo aprile, salvo nuovi ripensamenti del governo.

La Germania è il paese più grande ed economicamente avanzato al mondo ad avere deciso di abbandonare totalmente l’energia nucleare, una scelta che il movimento contro il nucleare considera una delle proprie principali vittorie, ma che continua a essere molto discussa da politici, esperti e dagli stessi ambientalisti. Secondo alcuni analisti, la fine del nucleare tedesco sta danneggiando la Germania sia in termini economici sia ecologici, e potrebbe comportare danni ancora più seri a causa della crisi energetica seguita all’invasione russa dell’Ucraina.

L’impianto nucleare di Neckarwestheim nel Baden-Württemberg, Germania (AP Photo/Michael Probst,file)

Meno reattori attivi implica la necessità di compensare la produzione di energia elettrica in altro modo e di gestire una complessa transizione energetica. Per il medio-lungo periodo la Germania ha avviato la costruzione di centrali solari ed eoliche, quindi per produrre elettricità da fonti rinnovabili, ma nel breve periodo per colmare la parte di energia non più prodotta dagli impianti nucleari ha dovuto fare affidamento anche sui combustibili fossili, aumentando per esempio il ricorso alle centrali termiche che bruciano carbone, altamente inquinanti.

Alcune analisi hanno rilevato come in termini di emissioni di anidride carbonica e altri gas serra, le centrali a carbone abbiano inquinato molto di più di quanto avrebbero fatto gli impianti nucleari. Chi è contro il nucleare ha segnalato invece che quelle centrali avrebbero prodotto ulteriori scorie radioattive e rischi di contaminazioni. Il confronto in Germania è molto acceso e queste due posizioni riassumono solo parte dell’ampio dibattito, che con la crisi energetica si è arricchito di ulteriori valutazioni e di qualche rincrescimento per le scelte di politica energetica fatte in passato.

2022, no, sì
La decisione di chiudere le centrali nucleari non è diretta responsabilità dell’attuale governo guidato dal cancelliere Olaf Scholz. Il primo ad affrontare la questione in modo piuttosto incisivo fu il cancelliere Gerhard Schröder alla fine degli anni Novanta, quando con il proprio governo sostenuto dai Socialdemocratici e dai Verdi decise la chiusura di tutti i reattori nucleari tedeschi entro il 2022. Il piano fu rivisto alla fine del 2010 dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, la cui coalizione guidata dai conservatori decise di estendere di 12 anni la scadenza. La transizione energetica verso le fonti rinnovabili richiedeva tempo e Merkel non voleva correre il rischio di lasciare la Germania senza energia elettrica. Non poteva immaginare che pochi mesi dopo sarebbe cambiato tutto.

Alle 14:46 dell’11 marzo 2011 un terremoto di magnitudo 9.1 al largo del Giappone, il quarto più forte al mondo mai registrato, e il conseguente grande tsunami, distrussero i generatori di emergenza che alimentavano i sistemi di raffreddamento dei tre reattori della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, determinando uno dei più gravi incidenti nucleari della storia. In poche settimane, i paesi con impianti nucleari annunciarono politiche per rivedere il proprio impegno nel settore, in alcuni casi annunciando la chiusura dei reattori.

Fukushima, Giappone

In Germania, dove il movimento contro il nucleare aveva già protestato per la scelta del governo Merkel di rinviare la chiusura degli impianti, furono organizzate grandi manifestazioni. Il 26 marzo oltre 250mila persone manifestarono chiedendo di non ignorare la vicenda di Fukushima e chiedendo la chiusura al più presto di tutte le centrali nucleari. Quattro giorni dopo, Merkel annunciò il ritorno al piano originario di Schröder: tutti i reattori avrebbero dovuto chiudere entro il 2022, eliminando quindi il rinvio approvato pochi mesi prima. La decisione conteneva formulazioni alquanto perentorie e non prevedeva la possibilità di rinviare nuovamente le chiusure.

La scelta fu accolta positivamente dal movimento contro il nucleare e secondo i sondaggi da buona parte della popolazione, in una fase in cui c’erano ancora grandi incertezze e preoccupazioni legate al disastro di Fukushima. All’epoca alcuni osservatori segnalarono il rischio che la Germania potesse perdere la propria indipendenza energetica. Nell’estate del 2011 fu intanto resa effettiva la chiusura di otto reattori, sui 17 di cui disponeva il paese.

Rinunciare al nucleare
Merkel era stata fino ad allora una convinta sostenitrice del nucleare, ma aveva spiegato di avere cambiato idea dopo avere osservato l’impotenza del Giappone nell’affrontare il disastro di Fukushima. Disse che la Germania sarebbe passata più velocemente alle rinnovabili e che avrebbe investito nelle centrali a gas naturale, da utilizzare nelle fasi di picco in cui la domanda di elettricità è più alta. Questo approccio non avrebbe quindi escluso l’impiego di un combustibile fossile, ma al tempo stesso avrebbe permesso di ridurre l’utilizzo del più inquinante carbone.

La decisione del governo Merkel fu criticata dalle principali aziende energetiche tedesche, che solo pochi mesi prima avevano avviato nuovi importanti investimenti nel settore dell’energia nucleare, avendo una prospettiva di almeno un altro decennio davanti a loro. Ma la decisione era stata ormai riconfermata e iniziò il programma di chiusura e dismissione dei reattori, un’attività molto complessa, costosa e con numerose conseguenze.

Un’analisi pubblicata alla fine del 2019 per il National Bureau of Economic Research, importante organizzazione statunitense che si occupa di economia e finanza, valutò gli effetti delle scelte energetiche della Germania negli anni dopo Fukushima. Secondo le stime dello studio, la chiusura dei reattori ha comportato in media un aumento annuale di emissioni di anidride carbonica del 13 per cento, rispetto a uno scenario in cui i reattori fossero rimasti attivi. L’aumento è stato attribuito in primo luogo al maggior ricorso al carbone e in misura minore al gas naturale. Se si considerano le emissioni aggiuntive di altri gas tossici, dice l’analisi, la dismissione del nucleare «ha causato oltre 1.100 morti in più all’anno dovuti alla maggiore concentrazione di anidride solforosa, ossidi di azoto e particolato».

Angela Merkel in visita a una centrale eolica tedesca nel 2010, quando era cancelliera della Germania (AP Photo/Gero Breloer, file)

Altri studi hanno segnalato che la Germania, come del resto anche il Giappone, avrebbe prodotto molte meno emissioni di anidride carbonica derivanti dalla produzione di energia elettrica se avesse proseguito con le centrali nucleari. Dopo avere sospeso le attività in numerosi impianti, il Giappone nel 2021 ha avviato un piano per rendere nuovamente operativi 30 reattori entro il 2030, investendo al tempo stesso in ricerca e sviluppo per reattori di nuova generazione e nelle rinnovabili.

Guerra e gas
Le analisi più complete sull’impatto del cambiamento nella politica energetica della Germania sono riferite agli anni prima della pandemia da coronavirus, della crisi delle materie prime e di quella energetica, determinata soprattutto dall’invasione russa dell’Ucraina. All’inizio del 2022, infatti, la Germania si è trovata in poco tempo a dover rinunciare a buona parte delle forniture di gas dalla Russia, combustibile fossile sul quale aveva impostato parte del proprio piano per la transizione energetica, come sistema per integrare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Potendo contare su tre soli reattori ancora in funzione, sui 17 di cui disponeva, nell’estate dello scorso anno la Germania aveva deciso la riapertura di alcune centrali elettriche a carbone. La decisione aveva riacceso il confronto sul nucleare nel paese, sulla scelta di abbandonarlo e sulla possibilità di estendere per lo meno l’impiego dei tre reattori ancora in funzione. Dopo un lungo confronto all’interno della coalizione e qualche ripensamento, infine Scholz a inizio ottobre 2022 aveva annunciato che i tre reattori non sarebbero stati chiusi a fine anno, ma che avrebbero continuato a funzionare fino ad aprile 2023, in modo da superare la stagione fredda senza imprevisti.

Le ciminiere di una centrale elettrica a carbone in Germania (AP Photo/Martin Meissner, File)

La decisione del governo tedesco è stata vista da vari osservatori come la dimostrazione dell’importanza del nucleare, o come il male minore nel caso degli ambientalisti e di chi chiede interventi incisivi per ridurre le emissioni dei gas serra derivanti dalle attività umane. Greta Thunberg, tra le principali esponenti nell’attivismo ambientale, aveva definito «una cattiva idea» la chiusura delle centrali nucleari già attive se ciò determina un maggiore ricorso al carbone.

Appare comunque improbabile che il governo tedesco decida un ulteriore rinvio per spostare oltre aprile la chiusura dei reattori, almeno stando alle dichiarazioni di alcuni esperti del settore. Le società che li gestiscono si stavano preparando da anni alla dismissione, avevano interrotto il rifornimento del combustibile nucleare, ridotto il personale e modificato le proprie attività in vista della chiusura. Nell’ultimo decennio, la Germania ha soprattutto affinato le proprie capacità nel chiudere e dismettere i reattori, avendo come prospettiva la fine del nucleare nel paese. Invertire in pochi mesi un processo che dura da anni sarebbe impossibile, almeno alle attuali condizioni.

Gli effetti della riduzione dei reattori attivi e della guerra in Ucraina sono evidenti nei dati sulle fonti utilizzate dalla Germania per produrre energia elettrica nel terzo trimestre (luglio, agosto, settembre) del 2022, l’ultimo per il quale i dati sono disponibili. Il 31,9 per cento di energia elettrica è derivato dalle centrali a carbone, con un aumento del 13 per cento rispetto all’anno precedente. L’energia elettrica da nucleare è passata dal 14,1 per cento del 2021 al 7,4 per cento del 2022, mentre il gas naturale è passato da 8,8 a 9,2. Nel complesso la Germania ha prodotto il 55,6 per cento della propria energia elettrica da fonti tradizionali, mentre il 44,4 per cento dalle rinnovabili, soprattutto eolico (16,8 per cento) e solare (16 per cento).

Considerato che un tempo circa un terzo dell’energia elettrica in Germania derivava dal nucleare, con la progressiva chiusura dei reattori era stata prevista da alcuni analisti la necessità di importarla da altri paesi. Il paese ha invece mantenuto una buona indipendenza energetica, ma il costo dell’energia elettrica è aumentato sensibilmente, tanto da essere tra i più alti dell’Unione Europea.

Nucleare e clima
Al di là delle opinioni e degli orientamenti di attivisti, ambientalisti, politici e altri portatori d’interessi, l’abbandono del nucleare da parte della Germania è considerato un caso emblematico e di studio per approfondire costi e benefici delle tecnologie nucleari. Specialmente se questo può essere messo a confronto con quanto indicato nel “Net Zero by 2050” dell’Agenzia Internazionale per l’Energia, un importante rapporto che contiene analisi e scenari sulla trasformazione del settore energetico globale verso la neutralità carbonica (cioè smettere di aggiungere gas serra nell’atmosfera oltre alla quantità che si riesce a togliere).

– Ascolta anche: Perché si parla tanto di energia nucleare

La IEA indica un percorso che porti entro poco meno di 30 anni ad avere energia elettrica prodotta per il 90 per cento da fonti rinnovabili, per l’8 per cento dal nucleare e il resto da altre fonti. Il nucleare è quindi considerato una risorsa inevitabile per bilanciare eventuali scompensi dovuti alle rinnovabili, non sempre costanti nella produzione, attingendo a una risorsa con basse emissioni di anidride carbonica (se si considera l’intero ciclo produttivo). Ciò pone non pochi problemi sia sull’esistente, considerato che molti reattori nella trentina di paesi in tutto il mondo che possiedono impianti nucleari si avvicinano a fine vita, sia su ciò che verrà dopo considerato che la fusione nucleare appare ancora difficilissima da realizzare e ci sono dubbi sui reattori a fissione di nuova generazione, più piccoli e compatti.

Oltre ai problemi sulle tecnologie, sulle scorie da smaltire, e alle preoccupazioni sulla loro sicurezza emerse nuovamente con Fukushima, il rapporto IEA segnala che costi e tempi di realizzazione potrebbero essere l’ostacolo più importante per il nucleare. La costruzione di nuovi impianti comporta quasi sempre costi più alti di quelli preventivati e grandi ritardi, con rincari e costi di gestione crescenti per gli impianti più datati, ma ancora attivi. Storicamente, ciò ha reso necessario un forte intervento da parte dei governi con fondi pubblici o l’istituzione di forme di monopolio, che non hanno reso possibile la riduzione dei costi. Nel settore delle rinnovabili è avvenuto invece il contrario, con una progressiva diminuzione dei costi.

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