“The Last Of Us” è più che l’adattamento di un videogioco

Secondo i critici la nuova serie di HBO, sulla storia di un uomo e una ragazza in mezzo a un'epidemia zombie, è molto più riuscita di altri esperimenti simili

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Dal 16 gennaio andrà in onda su Sky con un episodio a settimana The Last Of Us, serie televisiva in 9 puntate da poco più o poco meno di un’ora l’una, prodotta da Sony e Playstation Productions per il canale via cavo americano HBO e tratta dall’omonimo videogioco per Playstation del 2013. È una serie dal profilo e dal budget alti, che fin dal suo annuncio ha generato un interesse fuori dal comune per via della fama del videogioco e per la particolarità della sua storia.

La trama del gioco e della serie è un classico rivisitato: è ambientata in un 2023 post apocalittico nel quale da venti anni l’umanità è stata decimata da un’epidemia zombie. Contrariamente al solito, l’epidemia non viene da un virus o dai morti che escono dalle tombe, ma da un fungo che si propaga dentro gli esseri umani rendendoli dei morti viventi a diversi gradi di contaminazione. Questa soluzione consentiva al videogame di includere nemici di diverso grado di difficoltà contro i quali combattere.

In questo scenario selvaggio e desolato, un uomo che da anni vive facendo il contrabbandiere viene incaricato di scortare una bambina della stessa età di sua figlia, morta in seguito ai tumulti dei primi giorni di contagio. All’inizio del viaggio, nella prima puntata della serie, l’uomo scopre che la ragione di questo spostamento rischioso e segreto è che la bambina è stata morsa da uno zombie, ma il fungo non l’ha attaccata: cioè è immune al contagio. In lei si ritiene ci sia una soluzione per salvare tutta l’umanità. La storia è il viaggio di queste due persone attraverso gli Stati Uniti distrutti e contaminati, e del rapporto che sviluppano mentre si aiutano a sopravvivere.

Fin dalla sua uscita, oltre al successo di vendite, il videogioco di The Last Of Us fu considerato dalla critica uno dei più importanti e riusciti di sempre. Contrariamente a quanto accade di solito, le ragioni avevano a che fare marginalmente con la giocabilità (la capacità di un videogame di essere semplice e soddisfacente nelle sue componenti ludiche) o con il design (quella che viene spesso chiamata grafica e che è un misto di fotorealismo e invenzioni visive), ma più che altro con il racconto.

Il gioco si sviluppa come un romanzo on the road attraverso gli Stati Uniti e lungo le quattro stagioni dell’anno, è pieno di azione ed enigmi che ne costituiscono la componente di gioco, ma è anche, caso più raro, denso di dialoghi tra i due personaggi principali. Attraverso le loro conversazioni viene raccontato il lento cambiare dei rapporti tra l’uomo e la bambina,  prima scontrosi, poi affiatati e infine simili a quelli tra un padre e una figlia. Il finale in particolare fu considerato storico e radicale quanto ad audacia e sentimentalismo, ed è di solito la componente più raccontata da chi lo ha giocato.

Quando si parla di The Last Of Us e del suo seguito uscito nel 2020, altrettanto innovativo e celebrato, si parla di solito della sua storia, dei suoi personaggi e del suo afflato da grande romanzo, oltre che delle sue soluzioni che attingono dal linguaggio cinematografico. Per questo la serie tv era sembrata fin dall’inizio una possibilità concreta e fin dall’annuncio aveva generato grande aspettativa.

A differenza degli adattamenti ad alto budget di altri videogiochi visti negli ultimi anni, come il film su Tomb Raider con Alicia Vikander o la serie tv tratta da The Witcher, The Last Of Us non mira unicamente a sfruttare un successo economico per crearne un altro ma ha ambizioni maggiori. Sony, società che possiede Playstation e quindi i diritti di sfruttamento della storia e dei suoi personaggi, ha collaborato con HBO, canale via cavo noto per la gran cura e per la qualità delle sue produzioni, e ha affiancato al creatore e scrittore del videogame Neil Druckmann lo showrunner, ovvero l’ideatore, principale sceneggiatore e responsabile creativo principale di una serie, Craig Mazin, che aveva già fatto Chernobyl.

Contrariamente a quello che accade con i romanzi che vengono adattati a film, in questo caso per rendere la storia di The Last Of Us una serie televisiva da nove puntate da un’ora il racconto non è stato compresso ma allargato. La trama è la stessa del gioco ma piena di digressioni che approfondiscono di volta in volta alcuni aspetti su cui il gioco passa più velocemente o che accenna soltanto. È più raccontata la parte antecedente all’esplosione dell’epidemia di funghi e alcuni personaggi secondari hanno abbondanti parti degli episodi a loro dedicate. Anche la cura nella replica degli scenari, delle scenografie degli interni e della fotografia del gioco è di particolare aderenza.

Il protagonista è Pedro Pascal, diventato noto per la serie tv Narcos e per aver partecipato brevemente a Il trono di spade, oltre ad essere il protagonista di The Mandalorian. La bambina è interpretata da Bella Ramsey, anche lei parte del cast di Il trono di spade in un ruolo secondario ma piuttosto ricordato (interpretava la regina bambina Lyanna Mormont). Diversi doppiatori che avevano lavorato al videogioco sono stati scelti per interpretare quegli stessi ruoli, ma ci sono anche attori più noti come Nick Offerman di Parks And Recreation.

Le prime recensioni sottolineano la fedeltà dell’adattamento per quanto riguarda la storia, interi dialoghi e la quasi totalità degli ambienti, senza che mai la serie sembri un videogioco nelle sue dinamiche narrative. In questo senso Gene Park sul Washington Post ritiene che la serie risponda alla domanda: «Cosa accadrebbe se una serie tv ad alto budget adattasse in maniera molto fedele un videogioco, ripetendone molti dialoghi, scene e snodi fondamentali?», e che questa risposta sia che «The Last Of Us funziona senza dubbio, anche perché il videogioco era già strutturato e scritto come una serie tv».

John Nugent su Empire scrive anche di quanto «la serie dia il suo meglio quando devia dall’architettura del videogioco. Per quanto nessuno dei punti fondamentali della trama sia stato cambiato, diversi episodi vanno fuori traccia gloriosamente». In molti inoltre fanno riferimento alla particolare attenzione ai rapporti umani e al sentimentalismo che pervade la storia. Per Collider «se in superficie potrebbe sembrare simile ad altre storie di zombie, in realtà è più un’esplorazione delle persone che sono sopravvissute agli orrori e di come vivono in un mondo pieno di dolore».

Una opinione più critica è invece quella di Daniel Fienberg su Hollywood Reporter, che nonostante lodi alcuni aspetti poi è meno convinto dalla brutalità della serie, che definisce a tratti voyeuristica e sadica «particolarmente nell’ottavo episodio, quando la conta dei morti schizza e perde ogni significato per diventare materia più da videogioco che da tv di qualità».

The Last Of Us è anche il secondo esperimento di Sony nel mondo della produzione per cinema e tv. Un anno fa lo studio aveva distribuito in sala Uncharted, film con Tom Holland e Mark Wahlberg tratto da un altro videogioco di eccezionale successo, riscuotendo a sua volta un ottimo successo in tutto il mondo. Per le serie tv Sony, che è una multinazionale giapponese, collabora di volta in volta con canali televisivi o piattaforme streaming diverse, mentre per il cinema si appoggia sempre al proprio braccio produttivo americano che possiede da diversi anni, la Columbia. Attraverso produzioni come queste e altre già annunciate e pianificate, Sony/Columbia mira a creare un proprio catalogo di proprietà intellettuali e personaggi da sfruttare per film e serie tv collegati o non collegati (quelli che vengono definiti “franchise”, cioè più produzioni ambientate nel medesimo mondo narrativo).

Il successo della Marvel, che ad un certo punto ha creato un proprio studio di produzione per controllare in prima persona i film incentrati sui propri personaggi, invece di dare ad altri i diritti per farlo, ha spinto chi possiede i diritti delle proprietà intellettuali più grandi a fare lo stesso. Il lancio nel 2019 della Playstation Productions ebbe questo obiettivo, prendere i videogiochi di maggiore successo che la società possiede in esclusiva (cioè che non possono essere giocati su console rivali) e trasformarli in franchise senza doversi necessariamente affidare ad altri se non per la distribuzione, come avviene per le serie. Il prossimo titolo distribuito sarà il film tratto dal videogioco di corse automobilistiche Gran Turismo ad agosto, e tra le molte uscite già annunciate ci sono una serie tratta da Horizon Zero Dawn per Netflix, un film basato su Ghost Of Tsushima e una serie basata su God Of War per Amazon Prime Video, tutti videogiochi di azione e avventura.

Le proprietà intellettuali sono da circa vent’anni la risorsa più redditizia per il cinema hollywoodiano. Il termine non è nuovo e identifica un marchio e un mondo di storie e personaggi già noti e di successo, ma il loro sfruttamento audiovisivo intensivo è iniziato tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000 con la seconda trilogia di Star Wars, Il Signore Degli Anelli, i film di supereroi e quelli della saga di Harry Potter.

Compreso l’interesse verso i grandi marchi e la maniera in cui il fandom (ovvero l’insieme della parte di pubblico più appassionata di un certo universo narrativo) può orientare gli incassi, gli studios hollywoodiani maggiori hanno acquistato le società che possiedono proprietà intellettuali, o si sono associate con esse.

La Disney negli anni ha acquistato sia la Marvel e i suoi fumetti che la Lucasarts e quindi il mondo di Star Wars; la Warner ha comprato i diritti per adattare Harry Potter e i fumetti della DC Comics; la Universal ha creato o rispolverato le proprie proprietà intellettuali, le maggiori delle quali sono il franchise di Jurassic World, quello di Fast & Furious, di Hunger Games, il mondo animato di Cattivissimo me che comprende i Minions, e quest’anno porterà in sala un film d’animazione su Super Mario con Nintendo; la Paramount possiede i film della serie Mission: Impossible e quest’anno ha portato al cinema un nuovo film di Top Gun. Finora la Sony, ultima delle grandi major americane (le più grandi case di produzione cinematografica) non aveva ancora nulla al livello della concorrenza, se si esclude la co-gestione dei film con protagonista l’Uomo Ragno in virtù di un vecchio accordo con la Marvel, e il mondo dei film Terminator.