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  • Giovedì 29 dicembre 2022

Perché Pelé è stato così importante

Vinse tre Mondiali, segnò più di tutti, girò il mondo con il Santos per farsi ammirare, contribuendo alla popolarità del calcio e all'orgoglio del Brasile

di Valerio Clari

Pelé discute con alcuni giocatori italiani, fra cui Giacinto Facchetti, durante la finale dei Mondiali del 1970 (Getty Images)
Pelé discute con alcuni giocatori italiani, fra cui Giacinto Facchetti, durante la finale dei Mondiali del 1970 (Getty Images)
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Sono stati usati molti modi per descrivere la grandezza e l’importanza di Pelé nella storia del calcio e del Brasile. Ricordare i numerosi trofei vinti e record battuti è uno dei più frequenti. Edson Arantes do Nascimento, nato il 23 ottobre 1940 nel villaggio di Tres Coracoes, nello stato meridionale del Minas Gerais, e morto giovedì, è l’unico giocatore della storia ad aver vinto tre campionati del Mondo: il suo Brasile risultò campione nelle edizioni del 1958, del 1962 e del 1970. Le statistiche ufficiali gli riconoscono 1.281 gol segnati in 1.363 partite giocate, numeri sempre dibattuti per l’ufficialità di alcuni incontri e per le regole di allora, ma comunque impressionanti e con pochi paragoni nella storia del calcio.

Queste due grandi statistiche sono spesso bastate per sostenere la sua candidatura a più grande giocatore di sempre, in un dibattito ricorrente e senza soluzione che coinvolge Diego Armando Maradona e più recentemente Lionel Messi. L’importanza e la grandezza di Pelé hanno però altre dimensioni, che vanno dall’estetica dei suoi gesti sportivi alla longevità della sua fama, fino all’impatto che la sua figura ha avuto nell’affermazione del calcio come fenomeno mondiale e nell’evoluzione della società brasiliana.

Pelé ha giocato per tutta la sua carriera in due sole squadre, il Santos in Brasile dal 1957 al 1974 e i New York Cosmos negli Stati Uniti dal 1975 al 1977. Al Santos, squadra della città omonima dello stato di San Paolo, arrivò a sedici anni: era figlio di un calciatore e aveva mostrato, nei campionati giovanili, doti tecniche e atletiche fuori dal comune.

Pelé aveva iniziato a giocare a calcio a Bauru, una città nello stato di San Paolo dove il padre aveva trovato un ingaggio da giocatore. Qui rimediò anche il soprannome con cui sarebbe stato conosciuto per tutta la vita: ha raccontato nella sua autobiografia che accompagnando il padre era solito mettersi a giocare dietro la porta del Bauru, difesa da un certo Bilé, il cui nome, ripetuto come incitamento ma storpiato dall’accento ereditato dagli anni passati a Tres Coracoes, divenne per tutti il suo soprannome (in famiglia, invece, è sempre stato chiamato Dico).

Si impose in fretta fra i professionisti, a sedici anni fu convocato in Nazionale, a 17 partecipò al suo primo Mondiale con il Brasile, quello del 1958 in Svezia: lo vinse, diventando il più giovane calciatore a giocare e a segnare nella competizione. Fece tre gol alla Francia in semifinale, due alla Svezia in finale: era ancora minorenne, ma la sua fama divenne mondiale.

Il Santos dopo quel Mondiale divenne la squadra che tutti volevano vedere: principalmente, se non unicamente, per la presenza di Pelé. Con il club brasiliano giocò fino al 1974 e vinse dieci campionati statali paulisti e sette nazionali. Tra il 1962 e il 1963 vinse le prime due coppe Libertadores del calcio brasiliano e poi le prime due Coppe Intercontinentali, battendo prima il Benfica di Eusebio e poi il Milan di Maldini, Trapattoni e Rivera. Gli impegni ufficiali erano solo una parte della storia, perché in quegli anni la squadra brasiliana organizzò una serie di tournée mondiali, con amichevoli in mezzo mondo: principalmente Sudamerica e Europa, ma anche America del Nord, dove il “soccer” era uno sport agli albori, Asia, Australia e persino Africa.

Il Santos organizzava amichevoli come se fossero tappe di un tour musicale e Pelé era l’indiscussa rockstar: nel 1959 in 44 giorni in Europa giocò 22 partite, con tredici trasferimenti fra nove differenti paesi e venti diverse città. L’organizzazione non era quella a cui siamo abituati oggi, con le squadre protette e isolate: le foto dell’epoca mostrano Pelé continuamente circondato da decine o centinaia di persone. Dopo averlo conosciuto attraverso i racconti della radio e le foto sui giornali, tutti volevano non solo vederlo, ma anche toccarlo: molti ci riuscivano.

Pelé nel 1971 sugli Champs-Élysées a Parigi (AP Photo/Levy, File)

Gli incontri erano a volte tranquille amichevoli, poco più che esibizioni, ma spesso si trasformavano in partite vere e dure, specie quando le grandi formazioni europee volevano confrontarsi e togliersi soddisfazioni contro quella che era allora ritenuta la squadra più forte del mondo. Nel 1959 Pelé giocò complessivamente 103 partite, negli anni seguenti il ritmo calò solo leggermente: il Santos riceveva inviti da ovunque e andava ovunque, monetizzando il fenomeno. Il club era piccolo, aveva risorse economiche limitate e uno stadio dalla capienza ridotta: si trovò con una squadra irripetibile e trovò un modo per potersela permettere e per farla fruttare.

L’amichevole di Milano contro l’Inter del 1963 degenerò in un litigio: qui Pelé cerca di colpire Bruno Bolchi (Allsport Hulton/Archive)

Si segnalano, fra le molte altre, partite nelle Antille olandesi, a Hong Kong, in Congo, Qatar, Mozambico, Nigeria. In quest’ultimo stato arrivò nel 1969, in piena guerra civile, per il tentativo di secessione dell’aspirante Repubblica del Biafra: non è vero, come vuole la leggenda, che la guerra si fermò per vederlo giocare, però la partita di Benin City si disputò senza problemi e con la solita grande partecipazione popolare. Quando il Santos capì che Pelé era vicino alla fine della sua carriera, intensificò i viaggi e le esibizioni: «In 18 mesi – scrisse il giocatore nella sua autobiografia – girammo il Sudamerica, i Caraibi, l’Europa, l’Asia e l’Australia. Non ho mai vissuto un periodo così pieno di aeroporti, hotel e paesi differenti».

Tutti volevano vedere giocare Pelé e molti club europei avrebbero voluto acquistarlo: ci sarebbero probabilmente riusciti se in Brasile dal 1964 non avesse avuto successo il colpo di stato della giunta militare: la dittatura sarebbe durata fino al 1985. Pelé era considerato dal regime una sorta di “bene nazionale”, oltre che un efficace strumento di propaganda, e per questo ogni suo possibile trasferimento all’estero venne bloccato fino al 1974.

Arrivato alla fama calcistica pochi anni dopo la traumatica sconfitta nel mondiale casalingo del 1950, quando l’Uruguay vinse allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, Pelé era diventato un simbolo del paese andando oltre al livello sportivo. Gilberto Gil, uno dei musicisti più noti e autorevoli del Brasile, ha detto: «È stato il simbolo della nostra emancipazione».

Nonostante la sua grande influenza Pelé non prese mai posizione a livello politico contro il regime militare: in varie occasioni ufficiali mostrò rapporti amichevoli o almeno accondiscendenti con il generale Emilio Medici, capo del governo più repressivo e violento della storia del paese e in seguito fu sempre molto evasivo sull’argomento. Erano anni, peraltro, in cui era meno consueto che i grandi personaggi dello sport uscissero dal loro ambito particolare e Pelé aspirava a essere una figura conciliante e amata da tutti. Fu piuttosto un precursore nel campo degli affari e delle sponsorizzazioni: nel corso della sua vita, e in particolar modo dopo la fine della sua carriera, è stato testimonial di una moltitudine di marchi e aziende.

Sul campo rimase per decenni il prototipo del giocatore perfetto: attaccante che amava partire lontano dalla porta, per far valere le sue grandi doti atletiche e la sua ottima tecnica, Pelé visto oggi nei filmati dell’epoca sembra un giocatore moderno apparso sui campi da gioco con 50-60 anni di anticipo. Benché non fosse particolarmente alto, era dotato di un’elevazione fuori dal comune, era veloce, forte fisicamente e aveva una fantasia calcistica che gli permetteva di inventare dribbling e giocate spettacolari, che sarebbero state imitate nei decenni seguenti.

Il calcio di allora era sicuramente giocato a ritmi più lenti, ma gli attaccanti di talento erano molto meno protetti di oggi: il gioco duro era molto più tollerato e spesso i difensori erano protagonisti di interventi volontariamente violenti sugli avversari più pericolosi.

Pelé fu oggetto di un trattamento di questo genere nei Mondiali del 1966 in Inghilterra, nell’unico Mondiale che non vinse: saltò una partita per infortunio e ne giocò un’altra zoppicando per gli interventi dei difensori bulgari e portoghesi. Il Brasile fu eliminato, lui disse che non avrebbe più giocato nei Mondiali: fu convinto a ripensarci e l’edizione in Messico del 1970 divenne un’altra tappa memorabile della sua carriera. Il Brasile vinse in finale contro l’Italia, Pelé segno il primo gol e Tarcisio Burgnich, difensore che aveva il compito di marcarlo, disse: «Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo».

L’esultanza di Pelé dopo il gol segnato in finale contro l’Italia nel Mondiale 1970 (AP Photo/Kurt Strumpf, File)

Nel 1971 giocò la sua ultima partita col Brasile, nel 1974 annunciò il ritiro, ma dopo un anno con il benestare del governo brasiliano accettò l’offerta dei New York Cosmos, squadra che in quegli anni provò a lanciare in modo definitivo il calcio negli Stati Uniti, riuscendoci parzialmente. La sua fama e i suoi contratti pubblicitari crebbero ancora, Pelé recitò anche nel film hollywoodiano Fuga per la vittoria e divenne immagine del calcio nel mondo. In seguito diede il nome al primo videogioco ispirato a uno sportivo, divenne ambasciatore delle Nazioni Unite e dell’UNESCO, ministro straordinario dello Sport brasiliano e ambasciatore della FIFA.

Negli ultimi anni aveva dovuto diminuire i suoi impegni ufficiali per condizioni di salute sempre più precarie. Nel 2016 però partecipò al lancio del film Pelé: Birth of a Legend, che nonostante un’accoglienza piuttosto negativa da parte della critica contribuì a far crescere la sua popolarità anche fra le nuove generazioni, a distanza di quasi 40 anni dalla sua ultima partita giocata.

Nel 1977 con l’artista Andy Warhol a New York (AP Photo/Claudia Larson, File)