Il paese che cresce di più al mondo

Da qualche anno la Guyana ha scoperto uno dei giacimenti di petrolio più grandi del mondo, che può portare ricchezza ma anche molti problemi

Una guida locale nella regione del fiume Rewa, in Guyana (Jamie Lafferty/National Geographic)
Una guida locale nella regione del fiume Rewa, in Guyana (Jamie Lafferty/National Geographic)
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C’è un paese di cui fino a qualche anno fa si era sentito parlare pochissimo. Si trova in America del Sud, è pieno di risaie, di campi di canna da zucchero, di miniere ed è grande un po’ meno dell’Italia. Non ha però neanche un milione di abitanti, e un terzo vive sotto la soglia di povertà. Eppure la Guyana, il secondo paese più povero dell’America Latina, è uno dei paesi il cui PIL cresce di più al mondo: quest’anno del 57 per cento, un valore elevatissimo.

Nel 2015 al largo delle sue coste è stato scoperto uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo, che porterà la Guyana a essere uno dei più grandi esportatori della materia prima. La sfida per la classe politica sarà quella di canalizzare la crescita economica in sviluppo inclusivo e diffuso per la popolazione, cercando di evitare la cosiddetta “maledizione delle materie prime”, che colpisce quei paesi poco sviluppati che sono totalmente dipendenti da queste esportazioni e a cui quindi basta poco per perdere tutto.

La Guyana è stata per un secolo e mezzo una colonia britannica e ha ottenuto l’indipendenza nel 1966. Nel 1970 divenne una repubblica, pur rimanendo nell’ambito del Commonwealth. La popolazione ha origini etniche piuttosto variegate, soprattutto a causa delle tratte degli schiavi che, nei secoli, hanno portato lì manodopera da tutto il mondo per lavorare nelle piantagioni. La popolazione oggi si divide in cittadini di origine indiana e cittadini di origine africana, con una parte residuale di nativi americani.

Le politiche autarchiche introdotte sotto il dominio socialista negli anni Settanta hanno lasciato la Guyana alle prese con un debito pubblico insostenibile e una crescita molto lenta. La maggior parte degli abitanti del paese fa le stesse cose che facevano i loro nonni: lavorano nelle piantagioni di riso, tagliano il legname o estraggono l’oro dalle miniere.

All’inizio degli anni Duemila il governo del paese ha deciso di concedere i permessi per le esplorazioni petrolifere. Il colosso americano del petrolio ExxonMobil stava proprio cercando nuove aree che le altre compagnie non consideravano, ed ecco che l’azienda è arrivata in Guyana nel 2008.

C’è voluto qualche anno, come in tutti i casi di nuove esplorazioni, ma nel 2015 si sono trovati i primi giacimenti: finora sono stati scoperti circa 11 miliardi di barili e le sue enormi riserve sono ora superiori a quelle di molti grandi produttori sudamericani, come Colombia, Ecuador e Argentina. La Guyana è ora il settimo produttore di petrolio dell’America Latina e dei Caraibi e si prevede che diventerà uno dei primi 20 produttori di petrolio a livello globale, con una produzione stimata di 1,2 milioni di barili di greggio al giorno entro il 2027.

Oltretutto, è plausibile pensare che non entrerà nell’OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), ossia il principale cartello economico i cui membri si mettono d’accordo sui livelli produttivi e sul prezzo del petrolio. L’OPEC è composta da 13 paesi, tra cui l’Arabia Saudita, l’Iran, il Venezuela, che di fatto manipolano l’offerta di petrolio. Tengono artificialmente bassa la produzione, in modo che il prezzo resti alto, così come i loro profitti.

L’ingresso di un nuovo importante produttore nel mercato potrebbe dare un nuovo impulso alla dinamica dei prezzi, perché resterebbe fuori dalle decisioni del cartello e contribuirebbe quindi a rendere il settore più concorrenziale.

– Leggi anche: L’OPEC+ ha annunciato una grossa riduzione della produzione di petrolio

Tutto questo petrolio scoperto ha già dato un buon impulso all’ancora piccola economia della Guyana. Le multinazionali stanno aprendo negozi e uffici, e i lavoratori locali si sono reinventati tassisti, camerieri o muratori. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, il PIL è cresciuto del 43 per cento nel 2020, del 24 nel 2021 e si stima che cresca del 57 per cento nel 2022.

Quando un’azienda trova dei giacimenti di petrolio, non significa che quel petrolio è automaticamente suo: deve pagare tasse e diritti allo stato, le cosiddette royalty, una sorta di percentuale sugli incassi derivanti dalla vendita della materia prima. Ed è tramite questo canale che un paese ci guadagna.

Il governo della Guyana sta studiando come canalizzare questi proventi derivanti dal petrolio (che per ora sta accumulando in un cosiddetto fondo sovrano) in sviluppo per la popolazione e ha promesso di aumentare la spesa pubblica di oltre il 40 per cento: ci sono piani per costruire strade, scuole e ospedali. Con un nuovo gasdotto e nuovi impianti riuscirebbero ad avere una maggiore produzione di energia e a dare impulso allo sviluppo di un qualche tipo di manifattura o di industria.

Sembra tutto molto promettente, tuttavia molti abitanti della Guyana hanno molti dubbi sul fatto che riusciranno davvero a beneficiare di questa crescita economica.

Inoltre non serve andare molto lontano per vedere come le cose potrebbero andare molto male: a ovest c’è il Venezuela, dove i proventi del petrolio hanno finanziato per anni una dittatura socialista e corrotta che ha solo impoverito il paese; a nord c’è la Repubblica di Trinidad e Tobago, dove l’industria petrolifera ha portato soprattutto tensioni sociali e criminalità.

Affinché il petrolio possa generare benessere, un paese deve avere istituzioni forti, com’è successo in Norvegia e in Canada. Per questo si dice che paesi non sviluppati che trovino ingenti giacimenti siano perseguitati dalla cosiddetta “maledizione delle materie prime”: i proventi del petrolio sono spesso enormi e si riversano improvvisamente su paesi che hanno istituzioni deboli, un sistema politico corrotto, una magistratura altrettanto corrotta, un elevato apparato criminale che cerca di appropriarsi di parte delle rendite. Col risultato che i benefici della crescita economica non si trasformano in sviluppo inclusivo per la popolazione, lasciata in povertà. Spesso le grosse aziende occidentali che sfruttano i giacimenti, inoltre, hanno approfittato di questa situazione.

La produzione di petrolio presenta una preziosa opportunità per i paesi poveri, ma allo stesso tempo una sfida enorme per la politica, che deve essere in grado di accompagnare la crescita economica con lo sviluppo: per esempio, garantendo un adeguato sviluppo umano a un popolo che ha sempre fatto lavori manuali e colmando tutte le lacune sul fronte delle infrastrutture.

Non è ben chiaro come il governo della Guyana abbia intenzione di farlo. L’estrazione e la produzione di petrolio la fanno soprattutto i grandi impianti ed è tutto più o meno automatizzata. ExxonMobil impiega lì giusto 180 persone, un numero tutto sommato piccolo. In più se le porta da fuori: la popolazione della Guyana è composta perlopiù da contadini e minatori, che quindi non hanno le competenze e le abilità per operare su queste piattaforme in sicurezza.

Allo stesso modo, le imprese locali non sono molto coinvolte nei processi. Nell’industria petrolifera ci sono altissimi standard tecnici da rispettare, per esempio per quanto riguarda la qualità e la sicurezza, ed è difficile che le aziende della Guyana riescano a soddisfarli.

Tuttavia, anche se la popolazione rischia di non venire direttamente coinvolta nell’industria petrolifera, lo sarà indirettamente: ExxonMobil sostiene di aver generato indirettamente posti di lavoro per oltre 6 mila persone, la maggior parte locali; inoltre lo scorso dicembre è passata una legge per cui i beni e i servizi essenziali devono essere forniti sempre dalle aziende locali, come nel caso dei catering, dei servizi di pulizia e lavanderia. Anche se è difficile che in questo modo una società possa prosperare senza dipendere sempre dall’investitore estero.

Ed è proprio questo uno dei più grandi rischi: che un paese in cui si scoprano giacimenti di importanti risorse naturali non sia in grado di diversificare la propria economia e che sia sempre dipendente dallo sfruttamento delle aziende straniere. Un rischio che è ancor più evidente se si pensa a quanto fluttuano i prezzi delle materie prime: per esempio, il petrolio in queste settimane costa circa 70/80 dollari al barile, mentre due anni fa esattamente la metà. Un paese totalmente dipendente dalle sue esportazioni di materie prime è molto esposto al rischio della volatilità delle quotazioni.

Ma secondo l’Economist il rischio maggiore resta comunque la corruzione. Il clientelismo è piuttosto diffuso. Gli imprenditori locali si lamentano del fatto che solo chi ha conoscenze importanti può effettivamente accedere a commesse per l’industria petrolifera. Gli analisti temono anche che ci sia poca trasparenza riguardo al fondo sovrano, ossia il fondo in cui sono custoditi tutti i proventi pubblici delle vendite di petrolio.