La FED americana potrebbe provocare una crisi nei paesi emergenti?

Negli anni Settanta l'aumento dei tassi d'interesse negli Stati Uniti ebbe conseguenze disastrose: ma oggi la situazione è un po' diversa

Operai a lavoro in un cantiere di Mumbai (AP Photo/Rafiq Maqbool)
Operai a lavoro in un cantiere di Mumbai (AP Photo/Rafiq Maqbool)

Da alcuni mesi le banche centrali di quasi tutti i paesi sviluppati hanno cominciato ad alzare i tassi d’interesse con l’obiettivo di fermare l’inflazione, ossia l’aumento generalizzato del livello dei prezzi che da mesi sta mettendo in difficoltà famiglie e imprese. Questi rialzi hanno parecchi effetti collaterali: oltre ai più noti, come il rischio di provocare una recessione economica, ce ne sono alcuni che riguardano i paesi emergenti.

Questi paesi hanno un legame strettissimo con il dollaro e le politiche monetarie statunitensi e in passato i rialzi dei tassi di interesse decisi dalla Federal Reserve (FED), la banca centrale americana, avevano creato problemi notevoli (e in alcuni casi devastanti) alle loro già fragili economie. In particolare l’ultima volta che la FED alzò i tassi d’interesse, negli anni Settanta, in molti paesi in via di sviluppo si scatenò una crisi economica che in alcuni casi durò un decennio e impoverì milioni di persone. Sembra però che questa volta gli emergenti se la caveranno meglio, sia perché nel frattempo i loro sistemi economici si sono evoluti sia per il fatto che stanno aumentando i tassi a loro volta e quindi non subiscono passivamente le politiche statunitensi.

Le economie di moltissimi paesi in via di sviluppo, soprattutto in alcune aree come l’America Latina e alcune zone del sud-est asiatico, sono eccezionalmente legate al dollaro perché le loro valute sono tipicamente molto deboli, giudicate non affidabili e di poco valore. Per questo i governi, i cittadini e le imprese usano principalmente il dollaro americano – la valuta forte per eccellenza – per molte delle transazioni più importanti.

Il dollaro nei paesi emergenti è usato soprattutto per denominare i debiti, sia privati che pubblici: significa che i titoli di stato emessi da un certo paese non sono in valuta locale, ma in dollari. Questo perché chi presta i soldi preferisce sapere di ricevere indietro dollari, così da non esporsi al rischio di fluttuazioni eccessive della valuta locale. I debiti sono tipicamente espressi in termini nominali: per esempio, si presta oggi 100 e tra 10 anni si riceve indietro 100 con gli interessi, indipendentemente dall’effettivo valore della valuta in quel momento.

Per questo, è meglio comprare titoli di stato denominati in una valuta stabile: se il debito viene espresso in dollari, si ha quasi la certezza che il valore dei 100 dollari sarà più o meno lo stesso da qui a 10 anni. Ma se si usa una valuta fragile e instabile, come quelle nella maggior parte dei paesi emergenti o in via di sviluppo, non si può sapere neanche approssimativamente quanto varrà tra 10 anni.

Il debito pubblico dei paesi emergenti è quasi sempre denominato in dollari, ma le loro entrate, ossia le tasse, sono invece denominate in valuta locale. Quindi i governi per ripagare il debito espresso in dollari devono cambiare la loro valuta locale. Ma se i tassi di interesse aumentano, per una serie di meccanismi finanziari il dollaro tende ad aumentare di valore e quindi ci vorranno, per esempio, più pesos e più rupie per restituire il valore del debito. Inoltre, al netto di queste concatenazioni di cause, l’aumento dei tassi di interesse rende già di per sé più oneroso ripagare un debito.

Per questo le fluttuazioni del dollaro e dei tassi di interesse americani rischiano di innescare crisi finanziare che mettono a rischio economie già di per sé molto fragili.

Il Volcker shock
È già successo varie volte in passato. Il caso più famoso è legato al cosiddetto Volcker shock, dal nome di Paul Volcker, il famoso presidente della FED che condusse la politica monetaria più aggressiva nella storia degli Stati Uniti per far fronte all’inflazione degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta.

Dopo ben due crisi petrolifere (una nel 1973 e una nel 1979) che avevano fatto aumentare tantissimo il prezzo del greggio, l’inflazione statunitense si attestava mediamente a un livello del 10 per cento annuo. Per questo Volcker iniziò una politica monetaria molto aggressiva, aumentando i tassi di interesse fino al 20 per cento per cercare di fermare l’altissima inflazione. Nel 1982 l’inflazione tornò al 3,2 per cento, ma le conseguenze furono pesantissime: la disoccupazione salì quasi al 10 per cento, ci furono tantissime proteste per gli effetti che gli alti tassi di interesse avevano sui settori dell’edilizia, dell’agricoltura e dell’industria, e infine ci fu anche un effetto disastroso sul debito pubblico dei paesi dell’America Latina.

Per gli stati sudamericani divenne improvvisamente eccezionalmente costoso ripagare i propri prestiti con gli interessi. Nel 1979 il debito dell’America Latina era il 30 per cento del suo Prodotto Interno Lordo; dopo tre anni, anche per effetto dell’apprezzamento del dollaro, era al 50. La situazione divenne in breve tempo insostenibile e nel 1982 il Messico fu il primo a dichiarare fallimento, seguito poi da altri paesi della regione.

Il decennio 1980-1990 è ricordato nel continente come década perdida, decennio perduto, data la gravità della situazione economica in cui si trovarono molti paesi latinoamericani, che furono costretti a chiedere il sostegno del Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione che agisce da prestatore di ultima istanza in caso di crisi del debito. Tutti quelli che ricevettero dei fondi dal FMI subirono l’introduzione di misure di austerità e di riforme volte alla liberalizzazione e privatizzazione dei mercati nazionali.

La condizioni che hanno portato al Volcker shock non sembrano molto diverse dalla situazione attuale. L’inflazione negli Stati Uniti è stata dell’8,2 per cento a settembre e la Federal Reserve ha aumentato i tassi di interesse già cinque volte nel 2022, e gli ultimi tre sono stati particolarmente importanti, da 0,75 per cento ciascuno.

Le cose sono cambiate
Sebbene la FED stia alzando i tassi al suo ritmo più sostenuto dall’era Volcker, non ci sono state per ora gravi tensioni sui mercati finanziari dei paesi emergenti. Questa resilienza è in parte spiegata dal fatto che le economie dei paesi emergenti e i loro sistemi finanziari si sono evoluti e sono più stabili rispetto agli anni Ottanta.

Con l’aumento dei tassi di interesse, da inizio anno il dollaro si è apprezzato notevolmente nei confronti di tutte le valute e ciò si vede dall’andamento dell’US dollar index. È un indice che misura il suo valore in relazione a un insieme di valute straniere, che hanno un diverso peso nel calcolo a seconda della rilevanza internazionale dell’economia che rappresentano, e da inizio anno è aumentato del 18 per cento, arrivando ai massimi da quasi vent’anni.

Tuttavia, le valute che hanno perso più valore dei confronti del dollaro non sono quelle degli emergenti, ma quelle dei paesi avanzati, come euro e sterlina, che da inizio anno hanno perso rispettivamente il 14 e il 16 per cento. Al contrario il real brasiliano da inizio anno ha addirittura guadagnato il 7 per cento sul dollaro, la rupia indonesiana ha perso il 9 per cento, la rupia indiana l’11 e il peso messicano è rimasto più o meno stabile.

– Leggi anche: Chi vince e chi perde con il dollaro forte

I mercati emergenti stanno reagendo molto meglio di quanto ci si potesse aspettare.

Innanzitutto le loro valute non stanno perdendo intrinsecamente valore, ma lo stanno perdendo nei confronti di un dollaro che sta diventando sempre più forte. Sembra una questione tecnica ma non lo è: nelle passate crisi del debito le loro valute crollavano perché gli investitori abbandonavano in massa i paesi in crisi, mentre il calo di questi mesi è semplicemente un riflesso di una valuta che al contrario si apprezza. Gli investitori per ora non sono fuggiti.

In più i fondamentali economici sono aumentanti notevolmente dagli anni Ottanta: la crescita si è più o meno stabilizzata, le banche centrali detengono adesso adeguate riserve valutarie per far fronte a temporanee oscillazioni dei mercati e i mercati finanziari stessi si sono sempre più istituzionalizzati.

Inoltre, più recentemente, i banchieri centrali di questi paesi hanno iniziato ad alzare i tassi di interesse piuttosto presto, perché colpiti dall’inflazione già prima dei paesi avanzati. In questo modo non hanno subìto gli aumenti dei tassi di interesse della banca centrale americana.

Infatti, quando la FED alza i tassi di interesse, i titoli di stato americani rendono relativamente più degli altri. Gli investitori di tutto il mondo, che considerano i titoli di stato americani essenzialmente privi di rischio, troveranno conveniente spostare più fondi verso questi titoli sicuri quando i loro rendimenti salgono. Diventano quindi più competitivi rispetto ai paesi in cui i tassi di interesse sono più bassi e solitamente si parla di “deflussi di capitali” da questi paesi verso gli Stati Uniti: significa che gli investitori abbandonano i titoli di stato dei paesi emergenti per comprare quelli degli Stati Uniti. E questo al momento non è successo, proprio perché non si è creata competizione.

Tuttavia, la lotta della FED contro l’inflazione è appena iniziata. Il presidente della banca centrale americana Jerome Powell ad ogni conferenza stampa non fa che ricordare che aumenterà i tassi di interesse fino a che l’inflazione non si fermerà e i prezzi smetteranno di aumentare in modo così sostanziale. Quindi è probabile che gran parte dell’aggiustamento debba ancora venire e non è detto che i mercati finanziari dei paesi emergenti rimangano in questo stato di sostanziale equilibrio.

Alcuni commentatori parlano di come la Federal Reserve stia di fatto esportando recessione e causando instabilità valutaria e finanziaria in tutto il mondo a causa dell’aumento dei tassi di interesse che sta portando avanti da mesi. Sicuramente questo è il lato negativo dell’essere il riferimento economico di gran parte del mondo. Tuttavia, la FED sta seguendo le regole economiche condivise dalla gran parte del mondo: a un’elevata inflazione si risponde aumentando i tassi di interesse.