Perché si parla di una bolla delle startup, di nuovo

Gli investimenti stanno calando e alcune aziende innovative sono entrate in crisi, ma un crollo complessivo è improbabile

di Mariasole Lisciandro

Un evento nel 2019 a Berlino di TechCrunch Disrupt, una della più importanti competizioni di startup del mondo (Noam Galai/Getty Images for TechCrunch)
Un evento nel 2019 a Berlino di TechCrunch Disrupt, una della più importanti competizioni di startup del mondo (Noam Galai/Getty Images for TechCrunch)
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Dopo anni di crescita, il settore delle startup sta ricevendo sempre meno fondi dai suoi finanziatori, che stanno ricalibrando i loro investimenti per far fronte a un periodo di inflazione e di possibile recessione. Le altissime quotazioni che le startup avevano raggiunto negli ultimi anni rischiano di calare a breve, sia perché in alcuni casi emergerà l’inconsistenza del loro business, sia perché finanziare la loro crescita diventerà sempre più difficile.

Per certi versi questa dinamica ricorda la cosiddetta “bolla delle dot com”, ossia la crisi finanziaria che coinvolse il settore tecnologico all’inizio degli anni Duemila. Ma il settore nel frattempo si è evoluto, ed è difficile che si ripeterà un collasso delle stesse proporzioni.

Negli ultimi due anni le startup, soprattutto quelle tecnologiche, hanno avuto una crescita molto sostenuta. Innanzitutto perché la pandemia da coronavirus ha spinto la digitalizzazione in tanti aspetti della vita quotidiana: non si poteva andare in ufficio e si è ripiegato sullo smart working; i ristoranti erano chiusi e sono cresciute le consegne a domicilio; si viveva in isolamento e quindi si sono diffuse le videochiamate di gruppo con la famiglia e gli amici. Il ruolo della tecnologia è diventato più centrale a causa delle restrizioni e il settore ne ha beneficiato. Il Nasdaq, l’indice della borsa americana che più rappresenta l’andamento dei titoli informatici e tecnologici, negli anni 2020 e 2021 è cresciuto complessivamente dell’86 per cento.

Parte della crescita è dovuta al fatto che le startup hanno avuto accesso a flussi di denaro molto più alti che in passato. In risposta alla crisi pandemica, le banche centrali di tutto il mondo hanno dato un massiccio stimolo monetario all’economia: con immissioni enormi di liquidità nel mercato tramite l’acquisto di titoli, il cosiddetto quantitative easing, e la riduzione dei tassi di interesse di riferimento hanno reso il costo del denaro di fatto vicino allo zero.

Prendere soldi a prestito era diventato estremamente conveniente e chi investiva per lavoro ne ha approfittato. Le casse degli investitori si sono così riempite a un costo irrisorio e questo è stato un notevole acceleratore per il settore dei venture capitalist, ossia i principali investitori in startup.

Con il venire meno delle restrizioni oggi si è più o meno tornati alle vecchie abitudini: gli uffici si sono ripopolati, i ristoranti hanno riaperto e le misure di distanziamento fisico sono state quasi tutte eliminate. In più la crisi dei commerci mondiali, la scarsità di materie prime, l’inflazione e la guerra in Ucraina hanno creato molta incertezza e c’è il rischio concreto di una recessione economica. Anche per questo le banche centrali, per combattere l’aumento esagerato dei prezzi, stanno alzando i tassi di interesse.

Chi investe nel settore tecnologico è quindi diventato più attento non solo perché le abitudini di vita sono cambiate di nuovo, ma anche perché la crescita economica è a rischio ed è diventato più costoso prendere denaro a prestito.

Chi sono i venture capitalist
Il settore delle startup dipende in gran parte dai venture capitalist, professionisti che investono a medio-lungo termine in imprese ad alto potenziale di sviluppo che siano ancora in fase di startup, quindi in uno stadio iniziale della loro esistenza. Considerando che le startup hanno un alto tasso di insuccesso, è un investimento piuttosto rischioso: i venture capitalist raccolgono quindi capitali soprattutto dai cosiddetti investitori istituzionali, come fondi di investimento, banche, compagnie di assicurazioni, che hanno un capitale che possono tenere impegnato anche per molto tempo in vista di guadagni potenziali importanti e che hanno una propensione al rischio maggiore rispetto a quella degli investitori privati, come le famiglie.

L’attività di venture capital non implica fornire solo il capitale, ma anche una serie di strumenti per la realizzazione e il successo dell’idea imprenditoriale. Lo stesso investitore, oltre a essere socio, fornisce supporto manageriale alla startup, partecipando attivamente alle decisioni strategiche dell’impresa e apportando le proprie conoscenze ed esperienze professionali. Inoltre, l’investitore spesso gode già di un certo prestigio nell’ambiente finanziario, che consente alla startup di muoversi più facilmente e con più consapevolezza nel mondo degli affari.

L’obiettivo del venture capitalist è vendere la startup in cui ha investito a un prezzo più alto rispetto a quello a cui l’ha comprata, traendone un profitto. La cosiddetta “uscita” – o exit – si realizza con la vendita dei titoli della società a un altro investitore istituzionale o a una società più grande. Un’altra strada, se la società ha raggiunto un sufficiente livello di solidità finanziaria, è la quotazione in borsa, la cosiddetta offerta pubblica iniziale, in inglese Initial public offering (IPO).

Il rischio di questo tipo di investimenti deriva da due componenti: la probabilità di successo dell’idea imprenditoriale e il tempo che ci vuole prima di riuscire a vendere una startup ormai avviata. Il venture capitalist deve avere una grande sensibilità imprenditoriale per capire se un’idea è valida oppure no e per decidere se vale la pena bloccare per molto tempo il proprio capitale in una determinata startup. Ma a rendere questa attività profittevole sono gli altissimi guadagni nel momento della vendita dell’uscita o della IPO. I guadagni sono talmente alti che spesso compensano qualche investimento a vuoto o andato male.

Cosa fu la “bolla dot com”
Il venture capital è nato negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, ma ha conosciuto la sua vera crescita dagli anni Settanta in poi. Negli anni Novanta, grazie soprattutto ai bassi tassi di interesse, i venture capitalist si resero protagonisti della crescita e dello sviluppo di molte startup informatiche e di Internet, contribuendo al successo iniziale di aziende come Google, Yahoo! e eBay.

Ma nel 2000 scoppiò la “dot com bubble”, la bolla finanziaria nata intorno alle aziende tecnologiche. Fu un momento molto difficile per il settore del venture capital, perché svelò che molte startup che avevano ricevuto eccezionali investimenti avevano in realtà business insostenibili e inconsistenti. Arrivarono a quotarsi in borsa anche società con scarsi profitti, le quali godettero di quotazioni elevate dei propri titoli azionari su base puramente speculativa e sull’onda dell’entusiasmo per il solo fatto che riguardassero Internet.

Il 10 marzo del 2000, il Nasdaq raggiunse il suo picco massimo per poi scendere rapidamente nelle settimane successive. La bolla dot com scoppiò e moltissimi degli investimenti fatti dai venture capitalist risultarono fallimentari e in perdita.

Dopo un paio d’anni di assestamento, il mondo occidentale è tornato a investire sull’innovazione e sulle startup. Nel giro di pochi anni, negli Stati Uniti il volume di questi investimenti tornò a crescere a ritmi ancora più sostenuti, portando al successo molte aziende. Bisogna infatti ricordare che tra le aziende più colpite dalla bolla dot com ci fu anche Amazon, che è sopravvissuta perché aveva tutte le caratteristiche per un percorso di successo.

L’aumento degli investimenti durante la pandemia
Dopo un ventennio in costante crescita, gli investimenti in venture capital sono ulteriormente aumentati durante la pandemia per la repentina spinta alla digitalizzazione e il denaro a costo zero garantito dai bassi tassi d’interesse.

Secondo la società di analisi di mercato Cb Insight, nel 2020 sono stati investiti 296 miliardi di dollari, il 15 per cento in più del 2019, e 621 miliardi nel 2021, più del doppio del valore dell’anno prima. C’è stato un aumento notevole degli investimenti di venture capital anche in Italia, in cui sono molto più comuni i tradizionali finanziamenti bancari sotto forma di debito: per la prima volta nel 2021 è stata raggiunta la cifra di 1,24 miliardi di euro investiti da venture capitalist, più del doppio rispetto al 2020, già considerato di per sé un anno eccezionale.

Ma dall’inizio dell’anno questi numeri sembrano in discesa. Il settore tecnologico ha perso la spinta delle restrizioni per la pandemia, l’inflazione e la guerra in Ucraina hanno creato i presupposti per una nuova crisi economica e l’aumento dei tassi di interesse ha reso meno conveniente indebitarsi.

L’economia ha iniziato un rallentamento generale, e con lei anche il settore tecnologico, più di altri. L’indice Nasdaq da inizio anno perde il 27 per cento, oltre un quarto del suo valore. L’incertezza generale ha ridotto il flusso di denaro proveniente dai venture capitalist e destinato alle startup. Nel secondo trimestre del 2022 gli investimenti si sono ridotti del 23 per cento e il numero di operazioni del 15 per cento rispetto al trimestre precedente, che già non era stato roseo. I valori sono ancora nettamente superiori rispetto al periodo prima del Covid, ma è evidente il rallentamento rispetto al 2021.

Il mercato italiano sembra invece ancora in tenuta: secondo l’Osservatorio sul venture capital in Italia, nel secondo trimestre 2022 gli investimenti di venture capital hanno raggiunto 552,6 milioni di euro rispetto ai 443,6 del primo trimestre dell’anno. È stato quasi raggiunto il valore dell’intero 2021 solo in sei mesi. I prossimi trimestri serviranno a capire se il rallentamento arriverà anche qui, man mano che anche la Banca centrale europea aumenterà i tassi d’interesse, come già avvenuto negli Stati Uniti.

Come stanno reagendo le startup di fronte a meno fondi
Qualche avvisaglia di crisi c’era stata negli ultimi mesi. A maggio, Sequoia Capital, una società di venture capital che ha contribuito allo sviluppo e al successo di Google e Apple, aveva avvertito le società nel proprio portafoglio che avrebbero dovuto prepararsi a una significativa limitazione del flusso dei capitali. Y Combinator, l’incubatore di startup che ha contribuito a generare Airbnb, Dropbox e Stripe, ha detto ai fondatori in un’e-mail che devono “comprendere che la scarsa performance in borsa delle società tecnologiche ha un impatto significativo sugli investimenti in venture capital”.

Gli investitori quindi predicano l’austerità e bloccano i nuovi accordi, in particolare per le aziende che hanno finanziato la crescita in modo sostanzioso senza però alcun segno di profitto.

A maggio Substack, la piattaforma di newsletter che ha attirato scrittori di spicco con la promessa di monetizzare i loro rapporti con i lettori, ha dovuto rinunciare a raccogliere ulteriori fondi, benché l’azienda sia ancora valutata quasi un miliardo di dollari. Il risultato è stato il licenziamento di 13 dei suoi 90 dipendenti.

Anche altre aziende sono alle prese con la riduzione del personale per contenere i costi. Secondo Layoffs.fyi, un sito che tiene monitorati i licenziamenti nelle startup, da inizio anno 349 startup hanno licenziato parte del personale. Getir, un’app di consegna turca, ha licenziato oltre 4.000 persone (il 14% della sua forza lavoro) e Better.com, un portale di mutui online, 3.000 dipendenti (il 33% del personale).

Il problema è comunque sentito non soltanto dalle startup ma anche da aziende importanti e stabili come Alphabet (che possiede Google), Meta (che possiede Facebook e Instagram), Tesla e altre: nelle ultime settimane hanno tutte annunciato che rallenteranno o bloccheranno le nuove assunzioni, per timore di future difficoltà economiche.

È una bolla?
Il settore sta vivendo degli evidenti cambiamenti e resta da capire se siamo davanti a una nuova bolla come quella del 2001 o a una semplice correzione. La bolla delle dot com, come nel caso attuale, fu preceduta da un periodo di tassi molto bassi, che causarono sovraindebitamento e finanziamenti scriteriati.

Ma, come fa notare il New York Times, sono dieci anni che si parla di bolla delle startup e ogni volta il settore in qualche modo riesce a cavarsela. Inoltre, sempre secondo il New York Times, ci sono ancora tanti capitali nel settore, quindi è improbabile che ci sia un collasso imminente. Anche perché, benché siano in rallentamento rispetto agli ottimi risultati nel 2021, gli investimenti nel secondo trimestre di quest’anno sono stati comunque quasi il doppio rispetto allo stesso periodo del 2019.

Una correzione sarà comunque inevitabile, dice l’Economist, ma sarà in ogni caso meno intensa rispetto a quanto accaduto dopo la bolla del 2000-2001. Innanzitutto, molte startup hanno accumulato ingenti fondi di cassa in questi anni favorevoli, quindi potrebbero riuscire a resistere per un po’. E il settore del venture capital è diventato nel frattempo più istituzionalizzato. Fuori dagli Stati Uniti le reti di venture capitalist dipendono sempre meno dai capitali americani – che in questo settore sono piuttosto volatili – e hanno sviluppato legami duraturi con società finanziarie e imprenditori locali.

Inoltre l’opportunità di innovazione rimane vasta. Il mercato potenziale dei prodotti tecnologici si è ampliato enormemente, ed è arrivato a coinvolgere il mondo degli affari nel suo complesso, dalla biotecnologia al monitoraggio delle catene di approvvigionamento. Inoltre, meno capitali a disposizione genereranno più competizione tra le startup, sostiene il Wall Street Journal, perché i venture capitalist dovranno selezionare solo l’eccellenza. È probabile quindi che dalla crisi riemergerà un settore più snello e efficiente.