Mario Desiati e io

«Essendo due mitomani provinciali ci vantiamo, a turno, di essere i più grandi lettori di manoscritti non pubblicati che conosciamo. Siamo una specie di biblioteca dell’inedito, quella possibile»

Mario Desiati durante la serata di assegnazione del premio Strega 2022 (Ansa/Mauretta Capuano)
Mario Desiati durante la serata di assegnazione del premio Strega 2022 (Ansa/Mauretta Capuano)

La mia vita editoriale è cominciata un venerdì di novembre del 2006. Vivevo a Modena, insegnavo matematica in un liceo di Parma per i primi tre giorni della settimana, e Analisi Matematica 1 all’università di Benevento, il giovedì e il venerdì. Partivo da Parma dopo scuola il mercoledì, insegnavo il giovedì, mattina e pomeriggio, e il venerdì mattina, poi rientravo a Modena. Non era una vita comoda, soprattutto perché non c’erano i treni veloci di adesso e perché arrivata a Napoli Centrale dovevo prendere l’autobus per Benevento che aveva sedili scomodi. Nemmeno Napoli Centrale era quella di oggi, e io stessa ero diversa. Tuttavia, in quel tardo venerdì di novembre, il mio cellulare, un vecchio Motorola di cui andavo fiera, suonava per un numero di Roma.

Mario Desiati, allora responsabile della redazione di Nuovi Argomenti diceva di aver letto i miei racconti, di averli amati e mi chiedeva di prendere parte alle riunioni di redazione. Ero giovane, mi piacevano i treni e aggiungere una tappa al mio giro d’Italia non mi spaventava. Avevo lasciato la matematica per scrivere e quella telefonata mi era sembrata la prima conferma della bontà della mia scelta. Sapevo cosa era Nuovi Argomenti, ne conoscevo la storia, e ogni tanto ne prendevo un numero in libreria, oltre quelli storici che consultavo in biblioteca e sui quali si trovava gran parte dei nomi che avevano fatto la letteratura italiana. Mario non solo aveva letto il mio primo libro, pubblicato nel 2003, A complicare le cose, ma anche quello che ancora doveva essere pubblicato, che esisteva in bozze e sarebbe uscito nel marzo dell’anno successivo, Fermati un minuto a salutare.

Mario e io non ci conoscevamo, avevo letto il suo primo romanzo, Neppure quando è notte, pubblicato da Pequod, ma non sapevo che faccia avesse, e soprattutto non riuscivo a capire come fosse arrivato a leggere i miei racconti pubblicati da una piccola casa editrice romana, la Biblioteca del Vascello. Quando ci siamo conosciuti, ho capito che non dovevo stupirmi di Mario come (talvolta ancora) non debba stupirmi di me, io e Mario, infatti, tendiamo a leggere tutto.

I manoscritti sono stati per anni, e sono, il nostro album di figurine, e il nostro fantacalcio. Essendo due mitomani provinciali ci vantiamo, a turno, di essere i più grandi lettori di manoscritti non pubblicati che conosciamo. Siamo una specie di biblioteca dell’inedito, quella possibile. Leggere tutto è diventata una abitudine, molto faticosa da mantenere perché dal 2006 a oggi sono passati quindici anni e in quindici anni percepisco la mia forza e anche la mia acribia diminuite. Ciò nonostante, io e Mario continuiamo a scambiarci pareri e a vantarci l’uno con l’altra di aver letto tale o talaltro libro, pubblicato o no. Ovviamente, questa attitudine, che potrei anche chiamare vizio, che anzi, ormai, è di certo un vizio, l’ho appresa da Mario che non so quando l’abbia imparata a sua volta e da chi o se, invece, è una cosa sua, spontanea, spuntata a un certo punto come i baffi e curata, come quelli, altrettanto. Mario, infatti, dacché lo conosco, ha sempre portato i baffi. Inoltre, provenendo sia io che lui da famiglie senza alcun pedigree editoriale, o consuetudine, se non i libri dei quali i rispettivi genitori avevano riempito la casa, leggevamo vecchie interviste, carteggi editoriali, frequentavamo anziani intellettuali per accumulare aneddoti, li modificavamo, ci attribuivamo (e ci attribuiamo) vicissitudini accadute a Moravia, Morante, Berto, Pasolini, Ginzburg, Manganelli, Ramondino, Ortese, Gianna Manzini, Parazzoli e Ungaretti, Carla Lonzi pure, e gli altri. Raccontiamo i loro aneddoti come fossero i nostri: siamo i cos-players di un mondo editoriale che non esiste più, perché non c’è più la necessità che esista. L’ho capito quando è morto Tullio de Mauro, ma è un’altra storia.

Comunque. La prima volta, Mario e io, non ci siamo incontrati in redazione, ma in un bar per turisti vicino Piazza del Popolo, io dovevo prendere il treno dopo poco e Mario andare con due amici a Terni per una trasferta del Martina Franca calcio. Motivo per cui ci siamo messi a un tavolo tra persone che, quando ancora c’era ressa, ti passavano la giacca nel caffé e dei quali conoscevi benissimo le terga visto che tu eri seduto e loro in piedi. Mario indossava la sciarpa del Martina, e una cerata che credevo non si producesse più dagli anni Ottanta, io una felpa col cappuccio e un montgomery, dunque, due cappucci. A ripensarci oggi, eravamo improbabili. Dopo poco, per caso, è entrato Valentino Zeichen e, sorridente, ci ha scroccato la colazione. Ero felice, mi sembrava di essere dove dovevo, nel luogo dove gli scrittori si occupano di altri scrittori, vivi o morti, e i poeti laureati ti scroccano la colazione.

La prima volta che sono entrata in una riunione di Nuovi Argomenti ero emozionata, ma provenendo da studi dove il principio di autorità non esiste, parlavo con grande confidenza di scrittori morti e viventi, azzardavo le mie ipotesi critiche, discutevo amabile quasi fossi stata seduta lì da sempre. Soprattutto, nel sottoscala di quel luogo mitico per l’editoria italiana che è stata via Sicilia 136, Mario e io leggevamo ininterrottamente racconti, incipit di romanzi, poesie, saggi critici, ecdotiche, discutevamo di edizioni, facevamo le nostre prime interviste alla radio, inventavamo aneddoti sulle persone, scrittori e scrittrici, poeti e poete che passavano, e traduttori, ridevamo accumulando e inventando la nostra personale, viscerale, ossessiva e deformata editoria italiana.

Il mio primo saggio su Nuovi Argomenti sarebbe uscito, l’anno dopo, sul terzo numero del 2007, nella sezione sui Demoni curata da Alessandro Piperno, era su Gita al faro di Virginia Woolf, si intitolava God Bless you please Mrs Ramsey, e credo sia ancora disponibile su Nazione Indiana. Questo perché una delle leggi non scritte né pronunciare della rivista era che per fare l’editoria dovevi leggere. E questo è di certo il tipo di editore che sono diventata e cerco di continuare a essere.

Poi ci sono state altre cose. Ho lavorato, nella casa editrice nottetempo, per dieci anni con Ginevra Bompiani e grazie a Ginevra ho imparato il senso editoriale delle parole collana, varia, universale, e altre cose, ovviamente, termini che prima galleggiavano in diversi ambiti semantici, e conosciuto persone che pensavo avrei per sempre visto solo sui dorsi dei libri che avevano scritto. Persone che mi hanno sfottuto, e sfottendomi, mi hanno accolto per quella mai abbastanza sottolineata questione che la cautela è il contrario della confidenza, e la confidenza è un principio di certo narrativo, ma pure editoriale.

La prima volta che ho incontrato Patrizia Cavalli, per esempio, ho imparato due cose: si può mandare indietro una bottiglia di vino che sa di tappo, senza vergognarsi, e si può cantare Emily Dickinson su una melodia di Ella Fitzgerald, cosa che Patrizia aveva fatto, con grande maestria. Per tutta la sera, Patrizia mi aveva chiamato “la stagista” e io, per tutta la sera, avevo riso. La prima volta che ho incontrato Florence Delay, che poi è la prima volta che ho incontrato una immortale di Francia, abbiamo parlato di sigarette, le sue e le mie, e posaceneri, bevendo un Gin&tonic. Ho imparato molte cose con Ginevra, e soprattutto che, quando lavori in una casa editrice e hai una passione libresca, allora devi metterla a disposizione, e così, quando allo scadere dei diritti, le opere di Virginia Woolf sono diventate disponibili per chiunque volesse tradurle, io ho cominciato a farlo per nottetempo (siamo ormai a quattro titoli).

In questi dieci anni, Mario aveva scritto i suoi romanzi, era stato in cinquina al Premio Strega, direttore editoriale di Fandango Libri, aveva scritto libri per ragazzi, e deciso di lasciare l’editoria, di imparare il tedesco, e andare a Berlino per insegnare italiano agli stranieri e mi telefonava, di tanto in tanto, con la sua bellissima r, per dire Sarò felice quando non farò nemmeno più un editing. Entrambi sappiamo che mente, ma ci siamo inventati tante cose sugli altri che possiamo farlo anche su noi stessi. La verità che non dico a Mario ma che lascio scritta qui è Tu puoi lasciare l’editoria, ma se sei Mario Desiati, l’editoria non lascerà mai te. Infatti, da qualche anno, cura una collana per un editore tedesco, oltre ai manoscritti, alle bozze, ai libri scomparsi e tutto il resto che legge ossessivamente e ossessivamente commenta. Mario e io, forse per scaramanzia, che è comunque una forma di curiosità, leggiamo molti romanzi di scrittori scomparsi.

Dopo dieci anni di lavoro a nottetempo, ho diretto la prima edizione di Tempo di Libri e anche lì, il primo approccio, è stato da chi legge per chi legge, lo ha fatto con me Silvia Barbagallo che è la responsabile editoriale di Più libri più liberi a Roma, la fiera dei piccoli editori, e anche Silvia è una grande lettrice. Riporto qui, escerti del testo scritto per la conferenza stampa perché, nonostante sia stata un’esperienza che l’editoria italiana ha voluto dimenticare, ha rappresentato per me un laboratorio nel quale imparare qualcosa. Non a tutti piace ricordarlo e non si capisce perché visto che la memoria è un sentimento e tutti i sentimenti sono possibili, anche quelli negativi. E visto che Natalia Ginzburg, come mi ha fatto notare Mario una volta che ne parlavo, ha scritto che poi alla fine tutte le memorie si amano, non solo quelle felici. Comunque, nel febbraio 2017, invasata come pure riesco a essere, in una sala gremita del comune di Milano, proclamavo:

Tempo di Libri è la fiera degli editori così come li abbiamo conosciuti (di libri con le pagine che si sfogliano) ed è una fiera di editori così come li conosceremo, una fiera per i lettori che siamo, e per quelli che nemmeno immaginiamo di essere. È una fiera dove i Festival letterari, le riviste, i giornali sono stati chiamati a partecipare come editori di eventi. A Tempo di libri editoria significa espressione di un disegno culturale. Tempo di libri è un panorama, dalla A alla Z, nel quale ogni lettore e ogni curioso potrà costruire il proprio alfabeto. Con le lettere fare le parole, e con le parole, tutto.

A Tempo di libri non ci sono presentazioni, ma incontri. Le presentazioni vanno preservate per le librerie che innervano, sostengono, animano e curano i comportamenti culturali dei piccoli centri e dei quartieri delle grandi città, e poiché non c’è cultura senza comportamenti culturali, abbiamo voluto pensare a qualcosa di diverso. E abbiamo potuto farlo grazie agli editori, perché Tempo di Libri è una fiera pensata dagli editori, con gli editori e fra editori.

L’alfabeto è stata la nostra rete da tennis, il nostro campo di gioco, la nostra panchina, il nostro prato e siamo certi che lo sarà anche per i lettori e per i curiosi, lo sarà per i grandi e lo sarà per i bambini. Che scegliate per lettera o per tema, c’è un Tempo di Libri che vi aspetta. Un lettore è qualcuno che quando guarda un albero quell’albero fiorisce, quindi, stiamo aspettando voi.
Esiste solo la tradizione del futuro. Stefano Mancuso, il neurobiologo vegetale, che sarà a Tempo di Libri per ben due incontri, ci racconterà perché il futuro non può essere che collettivo, e perché il modello di questo futuro sono le piante (vi giuro, non guarderete mai più un fagiolo come prima). Esiste solo, dunque, la tradizione del futuro.
E con questa certezza, vorrei dire – se certezza fosse una parola che appartiene al mio registro – con questa purezza – se purezza fosse una parola che appartiene al mio registro –, abbiamo progettato Tempo di Libri.

Asserzioni e immaginazioni pre-Covid, mi rendo conto. Durante i colloqui con gli editori per Tempo di Libri, ho conosciuto Luca De Michelis, al primo sguardo non credo ci fossimo piaciuti, o forse sì, ma c’era una sorta di diffidenza, oltre che sul tema doppia fiera, anche per come eravamo vestiti, lui banker anni Novanta, io intellettuale anni Trenta. Qualcuno di noi aveva passato uno stargate ed era arrivato dove non doveva? No, perché l’editoria tiene insieme, e li mischia, il passato e il futuro, le provenienze miscellanee di ciascuno, favorisce la trasversalità e di essa si arricchisce. Soprattutto Luca, parlandomi non diceva spese, diceva investimenti, e con un solo termine dava prospettiva al suo discorso editoriale. L’editoria è miscellanea e mediazione, Mario, per esempio, ha studiato Giurisprudenza, Luca economia. Da quel caffè, in fondo, abbiamo subito cominciato a lavorare insieme, e continuiamo.

Il contratto con Marsilio quando, finita la prima edizione di Tempo di Libri ho deciso di non occuparmi della successiva, me lo ha portato a Roma a mano Cesare de Michelis che, mentre eravamo seduti al Bar Picchiotto in Piazza San Cosimato, ha detto Ho bisogno di un aiuto con la narrativa italiana, ormai non ce la faccio a leggere più di quattrocento manoscritti all’anno. Quando Cesare coi suoi occhi azzurri e allegri, intelligenti e sfottò, ha pronunciato quattrocento manoscritti all’anno, immediatamente mi sono sentita di nuovo nel sottoscala di Via Sicilia e mi sono detta Mario e io saremo per sempre così, sbruffoni e veritieri, coi nostri manoscritti a tenerci vivi e editori. D’altronde, come scriveva Cesare in una lettera di rifiuto che per me è diventata il modello di tutti i rifiuti editoriale: Il suo libro non mi entusiasma e senza entusiasmo, come faccio a fare questo lavoro?

Non si può fare, in effetti. E quando mi prende lo sconforto per ragioni reali o immaginarie (ugualmente dolorose), chiamo Mario e parliamo, per esempio, della letteratura italiana scritta da Enzo Siciliano, o del perché l’io sia passato dallo stare “in testa a un’opera dalla quale cancellare sé stessi”, come scriveva Yourcenar nei Taccuini d’appunti a Memorie di Adriano, a una scorciatoia del genere realista. E poi, chiudo e mi rimetto a leggere.

p.s. Non parlo mai dei libri che ho scritto, un po’ perché copio Borges e dunque sono più orgogliosa dei libri letti, e pubblicati, un po’ perché anche i miei libri, romanzi, racconti o saggi che siano, una volta scritti diventano libri da leggere e dunque tornano nel gruppo principale e non vale fare la differenza. E un po’ perché, una volta, sul finire di una bellissima conversazione, ho chiesto a Fleur Jaeggy – eravamo nel suo salotto –, Mi perdoni, cosa sta scrivendo adesso? E lei, come mettendomi a fuoco, ha detto Che peccato, fino ad ora mi era sembrata una ragazza intelligente. E così, avvertita, non solo non parlo dei libri che sto scrivendo, ma nemmeno di quelli che ho scritto e che una volta erano perifrastici e dunque meglio non nominarli. Tranne con Mario. Perché Mario e io, alla fine, possiamo pure accettare di essere stupidi, ogni tanto.

Questo testo è stato pubblicato la prima volta nel maggio 2021 all’interno del primo numero di Cose spiegate bene, la rivista del Post.

Chiara Valerio
Chiara Valerio

Chiara Valerio è una scrittrice, saggista, conduttrice radiofonica e curatrice editoriale. Ha lavorato per dieci anni nella casa editrice Nottetempo e dal 2018 è responsabile della narrativa italiana per l’editore Marsilio. Il suo ultimo libro si intitola “Così per sempre” (Einaudi, 2022). (foto: Laura Sciacovell)

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