La questione del cognome materno

Al Senato sono in discussione sei proposte per superare l'automatismo della trasmissione di quello paterno ai figli e alle figlie

(Chaloner Woods/Getty Images)
(Chaloner Woods/Getty Images)

Lo scorso 15 febbraio in Commissione giustizia del Senato è iniziata la discussione sulle proposte di legge per attribuire direttamente ai figli e alle figlie il cognome della madre ed eliminare così l’automatismo dell’assegnazione del cognome paterno, da molte e molti ritenuto discriminatorio non soltanto rispetto ai figli e alle figlie, ma più in generale anche nei rapporti e tra i componenti della coppia.

È da oltre quarant’anni che in Italia si parla di questa possibilità: ci sono state sentenze e convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, ripetuti richiami e raccomandazioni delle istituzioni europee, disegni di legge presentati e mai discussi e altri mai approvati in via definitiva, ma ancora oggi non è possibile attribuire al figlio o alla figlia il solo cognome della madre.

In Italia la norma per dare il cognome paterno ai figli e alle figlie è sempre stata implicita. Non c’è, insomma, una legge che stabilisce questa prassi esplicitamente ma una serie di altre norme che la presuppongono: alcuni articoli del codice civile e alcuni decreti del presidente della Repubblica, come il 396 del 2000 che prevedeva il divieto di imporre al figlio lo stesso nome del padre, se in vita, per evitare omonimie.

Dal 2017 è invece possibile affiancare il cognome materno a quello del padre se entrambi i genitori sono d’accordo, attraverso una procedura amministrativa stabilita dal ministero dell’Interno. Non è stato dunque riconosciuto un diritto attraverso una legge, il cognome materno deve venire comunque per secondo, non è possibile invertirli e non è possibile nemmeno scegliere solo il cognome materno. In caso di disaccordo, continua a prevalere l’attribuzione del solo cognome paterno. Questo vale se i genitori sono sposati.

Se invece non lo sono è possibile, attraverso una procedura piuttosto complicata, attribuire al bambino il solo cognome materno facendolo riconoscere inizialmente solo alla madre, e poi in seguito anche al padre. La procedura deve essere confermata dal Tribunale dei minori, che deciderà se lasciare il solo cognome materno, aggiungere quello del padre o sostituire quello materno con quello paterno.

In molti altri paesi europei non funziona così. Esistono infatti delle leggi che, pur nelle differenze, sono tutte ispirate allo stesso principio: quello della possibilità di attribuire al proprio figlio o alla propria figlia al momento della nascita il cognome paterno, materno o quello di entrambi i genitori. In alcuni paesi, in mancanza di un accordo tra i genitori, vengono apposti entrambi i cognomi in ordine alfabetico, come in Francia, mentre in Lussemburgo è previsto un sorteggio. In Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia, spiega la giurista Maria Dell’Anno, se non viene data un’indicazione viene apposto d’ufficio il cognome della madre, così come in Austria.

La Spagna — e in generale i paesi dell’America latina, a parte qualcuno — rappresenta a sua volta un’eccezione: c’è infatti la regola del “doppio cognome”, per cui i figli portano il primo cognome di entrambi i genitori.

La costituzionalista Carla Bassu ha spiegato che «in Italia l’apposizione del cognome paterno riflette una struttura sociale storicamente patriarcale in cui il ruolo pubblico era riservato agli uomini “capifamiglia” e le donne passavano dalla tutela del padre a quella dello sposo del quale assumevano, a dimostrazione della “cessione” avvenuta, anche il cognome». L’automatismo nell’assegnazione del cognome paterno (cioè del “nome di famiglia”) riflette insomma una tradizione giuridica costruita sulla figura del “pater familias” che aveva un potere educativo e correttivo su moglie e figli (il cosiddetto jus corrigendi). Una tradizione giuridica che puniva unicamente l’adulterio della moglie, che dava rilevanza penale alla causa d’onore, all’istituto del “matrimonio riparatore” e che considerava la violenza sessuale un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume.

«Il cognome non è solo una scelta tecnica: è una questione di potere, visibilità sociale e autorevolezza, negata alle donne e dalle donne stesse spesso sottovalutata» ha scritto su MicroMega qualche giorno fa la giornalista femminista Monica Lanfranco che, dopo una procedura lunga e costosa, è riuscita a far aggiungere accanto al cognome paterno dei suoi figli anche il suo. «Pensare che la lotta per il cognome materno sia una questione secondaria significa non vedere il meccanismo omissivo, segregativo, cancellatorio, invisibilizzante delle madri».

Tra i più contrari alla possibilità di assegnare il cognome materno ai figli c’è il senatore leghista Simone Pillon, portavoce delle principali battaglie dell’integralismo cattolico, secondo il quale «il cognome paterno non è da considerare come un retaggio patriarcale, ma come il regalo più prezioso che un padre possa fare ai figli. La madre dona il corpo, il padre consegna l’appartenenza ad una storia, ad una comunità, ad una famiglia». Eliminare per legge «il dovere del padre di dare il cognome ai figli» non è di conseguenza, per Pillon, «una conquista di civiltà ma un ulteriore passo verso l’oblio della propria tradizione e in definitiva verso la dissoluzione della famiglia».

In tribunale
Il sistema dell’automatismo del cognome paterno è stato più volte messo in discussione in tribunale. La prima sentenza risale al 1982 quando la giornalista e scrittrice Iole Natoli, tuttora impegnata in questa battaglia, sostenne che in base ad alcuni articoli della Costituzione imporre alla nascita il solo cognome del padre fosse illegittimo perché lesivo «della dignità sociale della donna». Il tribunale civile di Palermo non accettò però la sua richiesta sostenendo che attribuire automaticamente il cognome paterno fosse «un principio secolare riconosciuto dal diritto» da tempo immemorabile. E che fosse talmente «radicato nelle consuetudini e penetrato nel costume da essere accolto universalmente».

Le sentenze più significative arrivarono comunque vent’anni dopo e sono state ricostruite in un lungo e documentato articolo di Dell’Anno. Nel 2000, Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, due coniugi di Milano, fecero ricorso al Tribunale di Milano per ottenere la rettifica dell’atto di nascita della loro prima figlia a cui volevano fosse attribuito solo il cognome materno. Il Tribunale rifiutò la loro richiesta in primo e secondo grado e loro portarono il caso in Cassazione.

Nel 2006, con la sentenza numero 61, la Corte Costituzionale affermò che il sistema dell’attribuzione del cognome paterno in Italia era un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Ma il ricorso di Cusan e Fazzo non venne accettato perché una dichiarazione di incostituzionalità avrebbe lasciato un vuoto che solo il Parlamento avrebbe potuto colmare.

Nel 2011 Cusan e Fazzo presentarono dunque una richiesta al ministro dell’Interno che tramite un provvedimento amministrativo acconsentì ad aggiungere ai figli della coppia anche il cognome della madre. Avendo ottenuto una concessione, ma non il riconoscimento di un diritto, i due si rivolsero alla Corte europea dei diritti umani che, nel 2014, condannò l’Italia stabilendo che l’attribuzione automatica del cognome del padre – con cancellazione altrettanto automatica della genealogia materna – rappresentava una chiara discriminazione basata sul sesso, in particolare dell’articolo 14 e dell’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani.

In quegli stessi anni, in seguito al ricorso di un’altra coppia di genitori, venne posta alla Corte Costituzionale una nuova questione di costituzionalità sull’attribuzione automatica del cognome paterno che, stavolta, venne accolta. La sentenza 286 del 2016 stabilì che la preclusione «per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome» pregiudicasse «il diritto all’identità personale del minore» e, al contempo, costituisse «un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi».

La Corte stabilì insomma che la diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, «in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi» non è compatibile «né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica». Venne dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale delle norme che implicitamente in Italia stabilivano l’automatismo del cognome paterno.

La Corte parlò anche di «un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità». Ma quell’intervento legislativo non ci fu, sostituito da una semplice circolare del ministero dell’Interno. Dal 2017 è dunque possibile, se i genitori sono entrambi d’accordo, fare richiesta al prefetto per attribuire al momento della nascita «anche» il cognome materno, ma dopo quello paterno. Un altro importante capitolo di questa vicenda è tuttora in corso. Nel 2021 è arrivato alla Corte Costituzionale il ricorso di una coppia di genitori non sposati per attribuire alla figlia il solo cognome materno. L’udienza è fissata per il prossimo aprile.

Le proposte di legge
La prima proposta di legge sulla scelta del cognome dei figli e delle figlie fu preparata nel 1979 dalla socialista Maria Magnani Noya, a cui seguì quella del 1989 di Laura Cima dei Verdi. Da lì in poi, e tra i molti disegni di legge presentati, quello che arrivò più avanti nell’iter parlamentare fu quello del 2014 del governo Letta. Dopo essere stato approvato alla Camera, e già con diverse difficoltà, si fermò al Senato.

Le proposte di legge attualmente in discussione alla Commissione Giustizia sono sei e sono state presentate, a partire dal 2018, da diversi partiti e gruppi politici (Liberi e Uguali, PD, M5S, Forza Italia-Udc, Per le autonomie). Altre tre proposte sono state depositate alla Camera.

Tutte introducono per i genitori il principio della libera scelta sul cognome, e prevedono che i genitori decidano, di comune accordo, di attribuire uno solo o entrambi i cognomi ai propri figli, nell’ordine preferito. Nel caso non ci fosse accordo sul numero dei cognomi o sul loro ordine verrebbero attribuiti entrambi i cognomi seguendo l’ordine alfabetico. Nessuna delle proposte si occupa però di regolamentare i casi in cui i figli siano stati registrati col solo cognome paterno, lasciando dunque come unica strada valida quella di far ricorso al prefetto.

L’avvio della discussione in commissione Giustizia dovrebbe portare all’adozione di un testo unico e la commissione stessa è stata riunita in sede redigente, una procedura per accelerare l’iter di approvazione delle leggi e che prevede che la commissione deliberi sul testo articolo per articolo, mentre all’aula spetterà soltanto la votazione finale.

Critiche
Per protestare contro l’automatismo italiano nell’attribuzione del cognome, negli ultimi anni sono nati diversi gruppi e sono state avviate numerose campagne di sensibilizzazione, animate da giuriste, costituzionaliste e attiviste. In generale, la modifica che è stata preferita in questa lunga elaborazione è che a essere trasmessi al figlio o alla figlia siano i cognomi di entrambi i genitori, per evitare che di fatto continui a prevalere l’automatismo dell’assegnazione del cognome paterno, per prassi e per cultura.

Bassu spiega che l’impostazione basata esclusivamente sulla discrezionalità dei genitori rischia di tradursi «in una nuova prevalenza della componente maschile per ragioni ancorate alla tradizione ma anche a delicate dinamiche di tipo sociale ed economico che portano ancora la donna a essere, in molti casi, parte debole nella coppia». Andrebbe in questo caso prevista anche una casistica per determinare come debbano trasmettersi i cognomi nelle generazioni successive «in un senso non discriminatorio».