Una canzone dei Wilco

E anche una della band di prima

(Mike Lawrie/Getty Images)
(Mike Lawrie/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, pubblicata qui sul Post l’indomani, ci si iscrive qui.
A Natale c’è stato un suggestivo concerto benefico nella cattedrale di San Patrizio a Dublino (fino a due anni fa lo tenevano per strada, in centro), con Glen Hansard e Damien Rice tra gli altri (e persino Shane McGowan dei Pogues), e il cui momento più citato e mostrato in giro è stato Bono che fa Running to stand still, grandissima canzone.
Destroyer (o i Destroyer, boh), di cui raccontammo qui, ha fatto uscire una nuova canzone – diversa e purtroppo molesta, se chiedete a me – dal disco che pubblicherà a fine marzo.
Un giorno durante le feste che ero in giro per la Toscana in macchina e ascoltavo la solita radio “Mitology” per noi babbioni, è uscita una cosa che avevo del tutto cancellato e che quando eravamo ragazzi (1980) per un po’ andò fortissimo: a risentirla ora è sia speciale che assurda, Brand new Christmas degli Hot Chocolate.

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Wilco

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Per colmare la mia estesa ignoranza su Joan Didion, che è morta prima di Natale, ho guardato il documentario che è su Netflix: non sapevo in effetti niente, salvo conoscere di fama Dominick Dunne per i suoi articoli su Vanity Fair ma non sapevo che fosse cognato di Didion e che quindi l’autore del documentario Griffin Dunne (l’attore del Lupo mannaro americano a Londra di John Landis e di Fuori orario di Scorsese, tra le altre cose: ecco una seconda cosa che sapevo) fosse nipote di Didion. Quindi benché il documentario sia piuttosto sbrigativo e incompleto di informazioni, quelle che invece racconta sono state per me più che sufficienti. E poi c’era una terza cosa che sapevo: il pezzo degli Uncle Tupelo sui titoli di coda. Band di cui riparleremo presto.

Al minuto 2 e 45 di Impossible Germany dei Wilco inizia uno dei più begli assoli rock di chitarra di questo millennio, e chissà se lo trovo tale perché è in sintonia col rock del millennio precedente, o perché non esiste un “rock di questo millennio”. Quello che c’è prima dell’assolo è una gradevole semplice canzone d’amore: l’assolo che riempie tutto il resto la fa diventare una delle cose migliori della peraltro ricca carriera dei Wilco.

All’inizio degli anni Novanta, quando ci fu quella rinascita e recupero di certi caratteri “classici” del rock americano mescolati tra loro, che si chiamò alt-rock, o alt-country, o americana, o indie, a seconda delle sue sfumature, io mi ci imbattei dapprima attraverso una manciata di band, una delle quali aveva dentro Jeff Tweedy e Jay Farrar, due ventenni che erano tra i più bravi in circolazione. Però litigarono, e si separarono: Tweedy prese la band rimasta e la convertì nei Wilco, che divennero tra i più celebrati del genere e dei suoi sviluppi negli anni prima e dopo il cambio di millennio. Nel loro disco del 2007, quando ormai erano adorati da un pezzo, c’era Impossible Germany (in copertina, storni all’EUR). Sono ancora insieme con un po’ di rimpiazzi, ma i tempi sono cambiati e non sono più così celebrati: fu un bel periodo.
La band di prima, invece, quella da cui cominciò molto, si chiamava Uncle Tupelo, dicevamo.

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