Cosa rende horror un horror?

La presenza di certi temi e l’utilizzo di alcune tecniche aiutano a capirlo, ma non esauriscono una questione forse inesauribile

Mulholland Drive horror
Un fotogramma del film del 2001 “Mulholland Drive”
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In una famosa scena di Mulholland Drive, film del 2001 diretto dal regista statunitense David Lynch e premiato a Cannes per la miglior regia, due uomini seduti in un piccolo ristorante dialogano riguardo a un sogno fatto da uno dei due e ambientato proprio nel luogo in cui stanno parlando. L’uomo che racconta il suo sogno appare molto turbato, e la sua apprensione cresce man mano che il racconto prosegue e che alcuni elementi della realtà gli sembrano coincidere con l’evoluzione del suo sogno.

Durante tutta la sequenza i suoni ambientali sono attutiti fino a scomparire del tutto, progressivamente coperti dalla colonna sonora (una scelta stilistica che Lynch usò anche in altri suoi film). L’azione prosegue fuori dal ristorante e si conclude con un incontro, terrificante e traumatico per l’autore del sogno. È una scena tra le più conosciute, commentate e analizzate del cinema di Lynch, e anche una visione decontestualizzata e separata dagli altri piani di lettura del resto del film è sufficiente a chiarirne la potenza.

«È una fortuna che Lynch non abbia mai girato davvero un horror. Non sarei sopravvissuto», è scritto in uno dei numerosissimi commenti alle clip di questa scena presenti su YouTube. Sebbene Mulholland Drive non sia classificabile come un film di genere horror (come del resto la gran parte dei film di Lynch, difficilmente classificabile in generale), la scena del ristorante è nota tra le altre cose per l’utilizzo di una tecnica cinematografica largamente diffusa negli horror, il cosiddetto jumpscare.

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Si parla di jumpscare – letteralmente “salto per la paura” – in tutte quelle scene in cui qualcosa di spaventoso, previsto o meno sulla base di quanto suggerisce il contesto, compare in modo inatteso e improvviso, spesso accompagnato da una brusca variazione nel montaggio sonoro. Non è l’unica tecnica molto presente negli horror ma è una delle più riconoscibili e frequenti, al punto da essere spesso ritenuta un espediente dozzinale e da mestieranti, come nel caso di molti B-movie.

Il caso particolare di Lynch dimostra come non sia sufficiente la presenza del jumpscare per definire un film horror come tale. E vale anche il contrario: anzi, per molti appassionati ed esperti i film dell’orrore migliori sono quelli che fanno paura senza ricorrere ai jumpscare, e che sfruttano invece storia, ambientazioni, recitazione o altri mezzi più sofisticati per incutere spavento.

Anche la presenza di alcuni temi ricorrenti come mostri, alieni o esorcismi può servire a riconoscere un horror, ma non è indispensabile. Con il risultato che stabilire cosa rientri in questo genere – e cosa proprio no – è di fatto argomento di una discussione probabilmente antica quanto il genere stesso, e legata in parte anche ai gusti, alle abitudini e alle diverse sensibilità del pubblico.

Attraverso il suo account statunitense, Netflix ha recentemente chiesto alle e agli utenti di Twitter di citare esempi di film non tecnicamente ascrivibili al genere horror ma che fossero da loro ritenuti comunque spaventosi, in una qualche misura. E nel chiederlo ha pubblicato una fotografia di scena del popolare film fantasy con Gene Wilder Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato. Alcune persone hanno risposto citando 2001: Odissea nello spazio, altre Parasite, il film del 2019 diretto dal sudcoreano Bong Joon-ho e premiato con l’Oscar come miglior film.

Diverse persone hanno citato vecchi film d’animazione, visti probabilmente in giovane età, suggerendo l’impressione che la paura suscitata da quei film sia in parte collegata alla composizione di alcune scene effettivamente angoscianti e in parte, probabilmente, a una maggiore fragilità emotiva normale nei bambini e nelle bambine. Una persona ha condiviso un’immagine del giudice Morton, perfido antagonista nel film del 1988 Chi ha incastrato Roger Rabbit. Un’altra ha citato il film d’animazione del 1942 Bambi, la cui colonna sonora – in parte composta soltanto da tre note – fu peraltro associata in seguito a quella del film Lo squalo, del 1975.

Esiste in generale un certo accordo nel considerare l’horror un genere più elastico e ibrido di altri, oggetto di interpretazioni legate a fattori culturali ma anche molto soggettivi. «L’horror è ciò che spaventa te, non me», ha sintetizzato il New York Times in un articolo in cui descrive tre film di prossima uscita – The Humans di Stephen Karam, The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal e Spencer di Pablo Larraín – come casi di film non horror ma in cui i personaggi provano sensazioni di angoscia e di presagio di qualcosa di terribile in arrivo: tutti elementi abbastanza comuni negli horror.

Secondo lo studioso di cinema statunitense Wickham Clayton, curatore del volume Style and Form in the Hollywood Slasher Film (lo slasher è quel sottogenere di horror in cui uno o più maniaci assassini cercano di uccidere cruentemente gli altri personaggi), definire l’horror è soprattutto questione di intenzione della regia, e in particolare quella di far sentire il pubblico «a disagio, sconvolto e turbato». E per riuscirci a volte è sufficiente anche un solo personaggio antagonista o una certa atmosfera, e nemmeno che quella atmosfera sia presente per tutto il film.

– Leggi anche: Lo stranissimo horror che ha vinto a Cannes

Il punto, secondo Clayton, è che in molti film non propriamente horror ma che mettono comunque paura sono presenti scene pensate e costruite esattamente per quello scopo, e che riescono a farci spaventare o inorridire nonostante non ci sia niente di evidente – all’interno o al di fuori dell’inquadratura, per quanto ne sappiamo – di cui aver paura.

Per Andrew Scahill, autore del libro The Revolting Child in Horror Cinema e docente di cinema alla University of Colorado Denver, l’horror è un genere elastico perché più degli altri ha in un certo senso la necessità di disattendere le aspettative del pubblico. «Una commedia romantica vuole soddisfare ogni aspettativa e non violare il contratto di genere. L’horror obbliga sé stesso a una continua innovazione», ha scritto Scahill, sostenendo che film come Scream nel 1996, The Blair Witch Project nel 1999 e Get Out nel 2017 siano tutti esempi di horror nati da questa necessità di innovare i canoni del genere.

Con ogni probabilità, qualsiasi dibattito riguardo a cosa sia un horror e cosa non lo sia è destinato a durare e a non portare da nessuna parte, come dimostra il caso della scrittrice e giornalista inglese Elle Hunt, che su Twitter chiese ad aprile scorso se Alien possa essere considerato un horror. Ne seguì un’accesa e clamorosa discussione, dopo la sua contestabile spiegazione del perché non possa essere un horror («perché non può essere ambientato nello Spazio»).

«“Horror non può essere…”. No. Qualsiasi affermazione che cominci con ciò che non può essere horror è sbagliata. Horror può essere qualsiasi cosa», rispose su Twitter la giovane videomaker Cory McCullough.