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  • Venerdì 5 novembre 2021

Dopo 25 anni c’è una nuova sospettata per l’omicidio di Nada Cella

Fu uccisa a Chiavari nell'ufficio del commercialista per cui lavorava, e le ricerche indipendenti di una genetista hanno riaperto il caso

Nada Cella (Foto Ansa)
Nada Cella (Foto Ansa)

A più di venticinque anni dall’omicidio di Nada Cella, avvenuto a Chiavari il 6 maggio del 1996 nello studio del commercialista dove lavorava come segretaria, la procura di Genova ha iscritto nel registro degli indagati una persona sospettata di averla uccisa. Si chiama Annalucia Cecere, nel 1996 aveva 28 anni. La tesi della Procura è che la donna allora fosse innamorata del commercialista e gelosa di Cella: per questo quel giorno l’avrebbe affrontata e uccisa.

A dare un importante impulso alla riapertura delle indagini è stata una genetista dell’università di Bari, Antonella Delfino Pesce, che proprio frequentando a Genova un master in criminologia aveva iniziato a studiare il caso, preso come esempio di cold case (cioè un vecchio caso irrisolto), raccogliendo una grande mole di documenti e testimonianze. «Chiesi a un giornalista genovese da cui ero ospite di segnalarmi un caso da studiare e presentare al master» spiega Delfino Pesce. «Mi indicò l’omicidio di Nada Cella, è così che ho iniziato a interessarmi e a studiare la vicenda. Poi conobbi la mamma di Nada, Silvana, che è una persona speciale, mi ha dato grande fiducia. Ho ripercorso tutte le fasi delle indagini, esaminato testimonianze e dati».

Annalucia Cecere non è la sola a essere stata iscritta nel registro degli indagati. Accanto al suo compaiono i nomi di Marco Soracco, il commercialista per cui lavorava Cella, e di sua madre, Marisa Bacchioni: la procura ipotizza che in qualche modo abbiano cercato di sviare i sospetti su Cecere.

L’omicidio di Nada Cella è uno dei più celebri casi italiani di omicidio irrisolti. Periodicamente, dal 1996 a oggi, se ne è riparlato senza però che si arrivasse mai a qualcosa di concreto. Durante le indagini, soprattutto nella prima fase, furono commessi notevoli errori che compromisero in parte la possibilità di raccogliere prove valide.

Secondo il suo racconto alle 9.10 del 6 maggio 1996, un lunedì, il commercialista Marco Soracco scese dall’appartamento dove abitava, al terzo piano di via Marsala 14 a Chiavari, per andare in studio, al primo piano. Entrando notò che la luce era accesa e sentì il telefono squillare. Andò nel suo ufficio, il telefono squillò di nuovo, lui rispose ma dall’altra parte nessuno parlò e dopo pochi secondi la telefonata venne interrotta. Soracco andò quindi a vedere perché la segretaria non stesse rispondendo. Trovò Cella a terra: c’era molto sangue ma lei si muoveva, il corpo era percorso da spasmi.

Soracco corse al terzo piano e avvertì la madre. Chiamò quindi i soccorsi: la richiesta di intervento arrivò alle 9.14. I due scesero poi di nuovo in studio. Disse la madre Marisa Bacchioni nella sua deposizione: «Vedendo tutto quel sangue con mio figlio abbiamo pensato che Nada fosse stata colpita da un ictus». Cella venne portata all’ospedale di Lavagna, e nel frattempo nello studio del commercialista entrarono molte persone. Gli agenti di polizia non pensarono a un delitto, qualcuno parlò di una caduta: l’ufficio di Cella non fu trattato da subito come una scena del crimine. Più tardi la madre di Soracco iniziò a pulire le scale e il ballatoio davanti all’ufficio. «Non entrò però nello studio», dice Delfino Pesce.

Marco Soracco ai tempi delle prime indagini (Ansa)

All’ospedale di Lavagna i medici si accorsero che non c’era stato nessun malore e nessuna caduta: Cella era stata ripetutamente colpita alla testa. Quando la notizia dell’aggressione arrivò a Chiavari il palazzo venne isolato. Cella morì all’ospedale sei ore dopo l’aggressione.

La polizia iniziò a indagare sulla vita della ragazza. L’unica cosa di una certa rilevanza che emerse fu che aveva intenzione di cambiare lavoro. La madre disse tempo dopo alla trasmissione Chi l’ha visto?: «Mia figlia non voleva più andare in quell’ufficio. Piuttosto sarebbe andata a fare delle pulizie. Tant’è che ho trovato un foglietto con sopra i numeri delle ditte di pulizia di Chiavari».

Quella mattina Cella aveva accompagnato la madre in auto all’istituto scolastico Caboto dove lavorava come custode. Era poi tornata a casa, aveva messo a posto la sua stanza, si era cambiata e quindi, in bicicletta, aveva raggiunto via Marsala. Le perizie tecniche stabilirono che quella mattina il suo computer era stato acceso presto, alle 7.50. Una delle ipotesi è che Cella fosse passata in ufficio prima di tornare a casa dopo aver accompagnato la madre a scuola. Un’altra ipotesi è che qualcun altro l’abbia acceso prima che lei arrivasse. La stampante invece fu accesa pochi minuti prima delle nove.

Sulla scena del delitto venne ritrovato un bottone con un disegno a stella che oggi, con i nuovi sviluppi delle indagini, ha assunto una nuova importanza.

Una abitante del palazzo, Luciana Signorini, affetta da problemi psichici e che viveva accanto allo studio Soracco, testimoniò di aver incontrato Cella sulle scale e di averle chiesto l’ora. Disse che la risposta fu: «Le 8.35». Un cliente dello studio disse di aver telefonato tre volte quella mattina e che una volta non aveva risposto nessuno mentre la seconda volta una voce femminile gli aveva detto che aveva sbagliato numero. Alla terza telefonata aveva risposto Soracco dicendogli di richiamare perché la segretaria si era sentita male.

Alla polizia di Chiavari venne affiancata la Sezione omicidi della Squadra mobile di Genova. Furono interrogati conoscenti, parenti, inquilini del palazzo. Per una serie di contrasti tra Procura e polizia venne però negata l’autorizzazione a effettuare intercettazioni ambientali. La vita di Cella fu esaminata a fondo, ma non emerse nulla. Gli investigatori ipotizzarono che poco prima delle 9 del mattino l’assassino fosse entrato nello studio e avesse raggiunto l’ufficio di Cella, l’ultimo in fondo a destra nel corridoio, aggredendola subito con estrema violenza. L’autopsia stabilì che la vittima era stata colpita 15 volte con un «oggetto lungo e pesante» che aveva sulla punta una sporgenza che aveva lasciato sul corpo della ragazza segni simili a timbri. L’arma del delitto non fu mai trovata. Cadendo, Cella batté poi la testa contro lo spigolo della scrivania.

Le indagini si concentrarono su Marco Soracco, il datore di lavoro: venne interrogato più volte, la sua casa perquisita. Fu rinvenuta una piccozza che per alcune ore venne identificata come la possibile arma del delitto, ma l’ipotesi fu accantonata dopo le prime analisi. Soracco non cadde mai in contraddizione.

Il 27 maggio un suo conoscente andò spontaneamente in Questura e raccontò: «Durante un incontro al bar, Soracco mi confidò: “Fra un po’ in ufficio ci sarà il botto. Ne sentirai parlare, se ne occuperanno anche i giornali. E Nada se ne andrà, ma poi la verità verrà a galla”». Il commercialista negò la circostanza, continuò a ripetere la sua versione dei fatti. Al sospetto avanzato dagli investigatori che Cella avesse reagito alle sue avances lui rispose che il rapporto era esclusivamente professionale. Tre mesi dopo l’inizio delle indagini, i sospetti su di lui caddero: le analisi scientifiche non diedero nessun supporto ai sospetti della procura.

Nel frattempo era emerso però un fatto nuovo. Nel cestino dell’ufficio di Cella venne trovato uno scontrino emesso alle 19.58 del giorno prima, domenica, in un bar di Chiavari, l’Entella. Il barista disse che corrispondeva a un cappuccino preparato per Oscar Signorini, il padre della donna che diceva di avere incontrato Cella sulle scale alle 8.35 del 6 maggio. Oscar Signorini aveva un alibi inattaccabile per l’ora del delitto e così anche, si scoprì presto, la figlia Luciana.

Le indagini ripresero da capo. Fu a quel punto, nell’autunno del 1996, che emerse per la prima volta il nome di Annalucia Cecere, che allora aveva 28 anni. Qualcuno raccontò agli investigatori che la ragazza all’epoca era innamorata di Soracco e voleva prendere anche il posto occupato da Cella nello studio. Soracco e Cecere si erano conosciuti a una scuola di ballo e si erano poi rivisti in discoteca. La donna viveva poco lontano dallo studio del commercialista, in via Dante. Mesi dopo, Cecere si trasferì in Piemonte, a Demonte, vicino a Cuneo dove aveva lavorato fino al 2017 quando fu licenziata per non meglio chiariti motivi disciplinari. Di lei non si era più sentito parlare fino a oggi.

Anche il nome di Cecere però uscì presto dalle indagini. La procura continuò a battere piste diverse concentrandosi su un fatto considerato molto strano. Sabato 4 maggio la madre di Soracco era scesa in studio per fare le pulizie e aveva trovato Cella alla sua scrivania: non era mai accaduto prima che la segretaria andasse in studio durante il weekend. Bacchioni raccontò poi: «Poco prima di uscire dall’ufficio, Nada si alza e fa come per allontanarsi dalla scrivania, poi torna indietro, estrae dal lettore floppy del computer un dischetto e se lo fa scivolare in borsa». Di quel floppy disk non è mai più stata trovata traccia.

Da allora in poi l’inchiesta è andata avanti stancamente. Nel 2004 due fratelli di origine albanese, arrestati durante un’operazione contro la mafia albanese, vennero iscritti nel registro degli indagati. Nel 1996 vivevano a Chiavari, nello stesso palazzo di Cella. Qualcuno in Procura ipotizzò che la donna potesse aver scoperto particolari su un traffico di droga. Gli accertamenti si conclusero con un nulla di fatto.

Nel 2005 vennero ascoltati nuovamente tutti i testimoni. Qualcuno disse che negli ultimi tempi Cella era sembrata più nervosa e scontrosa. Vennero letti sei suoi diari, cosa che subito dopo il delitto non era stata fatta. Nel 2011 venne chiesta la consulenza dell’Unità crimini violenti della polizia, ma non si arrivò a nulla.

Delfino Pesce, studiando il caso e ripercorrendo tutta la catena di interrogatori, negli ultimi tre anni aveva messo insieme una serie di indizi importanti. «Chiesi al procuratore capo Francesco Cozzi se potevo avere i faldoni dell’inchiesta. Lui, che è un’altra persona speciale incontrata in questa vicenda, ha fatto recuperare tutto il materiale, è stata un’impresa titanica, molti fascicoli erano difficilmente leggibili, molti erano stati bagnati durante un’alluvione. In tutto erano 13.000 pagine».

Fu ripercorrendo passo dopo passo tutta l’indagine che Delfino Pesce scoprì che la mattina del 6 maggio 1996 due testimoni videro una donna somigliante a Cecere uscire dal palazzo di via Marsala. E che a casa della donna furono trovati cinque bottoni di una giacca di jeans simili a quello ritrovato sulla scena del delitto. Erano custoditi in una scatoletta ed erano di una giacca appartenuta all’ex fidanzato della donna. All’epoca fu fatta una comparazione fotografica con il bottone trovato nell’ufficio dove fu uccisa Cella, ma l’analisi non venne ritenuta sufficiente e anche quella pista fu accantonata. «L’ennesimo elemento incredibile di questa storia», commenta Delfino Pesce.

A giugno di quest’anno il procuratore capo Francesco Cozzi ha detto che, grazie a nuove strumentazioni tecnologiche, su una sedia dell’ufficio e sugli indumenti di Cella erano stati individuati due profili di DNA maschile e femminile e che era stata trovata anche un’impronta digitale.

Ora tutti i reperti sono stati affidati a Emiliano Giardina, professore associato in Genetica Medica all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, che già si è occupato dell’omicidio di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, e ritrovata morta tre mesi dopo. «L’obiettivo che mi ero prefissata», conclude Delfino Pesce, «era vedere le indagini scientifiche affidate al miglior tecnico scienziato del campo. E così è stato». Silvana Smaniotto, la madre di Cella, ha detto ai giornalisti poche parole: «Ora è il momento di avere fiducia nella giustizia e sperare che si arrivi alla verità».