La storia del rogo di Primavalle

Appiccato da alcuni militanti di estrema sinistra – tra cui Achille Lollo, morto l'altro ieri – bruciò vivi Virgilio e Stefano Mattei, figli di un esponente locale del MSI

I funerali di Stefano e Virgilio Mattei. (Ansa)
I funerali di Stefano e Virgilio Mattei. (Ansa)

Martedì è morto in una clinica di Trevignano Romano Achille Lollo, a 70 anni: il suo nome è legato a un episodio di violenza politica degli anni Settanta, immortalato da una terribile e impressionante fotografia (si può vedere qui) scattata la notte del 16 aprile 1973 a Roma, nel quartiere di Primavalle, attorno alle 3.30 del mattino. Quella foto la fece Antonio Monteforte, allora uno dei più famosi fotografi di cronaca nera della Capitale. Ritrae una figura affacciata a una finestra: carbonizzata, simile a una statua. Era Virgilio Mattei, 22 anni, che insieme al fratello Stefano, di 8, morì bruciato vivo aggrappato al davanzale della sua casa al terzo piano, scala D, nel complesso di edifici popolari di via Bernardo da Bibbiena 33.

Loro padre era Mario Mattei, segretario della sezione Giarabub, quella di Primavalle, del Movimento sociale italiano, l’erede del partito fascista. Anche Virgilio era militante del MSI. Quella notte qualcuno versò litri di benzina sulla porta dell’appartamento di via Bernardo da Bibbiena. Mario Mattei riuscì a uscire aiutando poi la figlia Lucia, di 15 anni, a calarsi sul balconcino del piano di sotto. Silvia, di 19 anni, si gettò dalla veranda della cucina: picchiò la testa contro la ringhiera del balcone al secondo piano. Dei fili del bucato ne attutirono la caduta. Altri due bambini, Giampaolo di tre anni e Antonella di nove, riuscirono a scappare attraverso la porta di casa con la madre Annamaria. I figli Stefano e Virgilio rimasero lì, affacciati alla finestra per riuscire a respirare. Da sotto la gente urlava loro di buttarsi.

Giorgio Almirante, segretario del MSI, ai funerali di Stefano e Virgilio Mattei. (Ansa)

La benzina versata sulla porta era filtrata anche dentro casa attraverso un piano inclinato. L’abitazione era piccola, poco più di 50 metri quadrati. Le perizie furono discordanti sulla quantità di benzina utilizzata: dai due ai cinque litri. Mobili, letti, vestiti presero fuoco immediatamente. Quando alle 4 del mattino i vigili del fuoco riuscirono a spegnere le fiamme, Virgilio e Stefano Mattei erano già morti. Fuori dall’abitazione furono trovati fogli di carta a quadretti, uniti dal nastro adesivo. C’era scritto: «Brigata Tanas guerra di classe. Morte ai fascisti, la sede del MSI colpita dalla giustizia proletaria». Giuseppe Tanas era un operaio di 24 anni ucciso dalla polizia durante una manifestazione del dicembre del 1947 proprio nel quartiere Primavalle.

A indagare su ciò che accadde la notte del 16 aprile fu il procuratore Domenico Sica che individuò in tre esponenti di Potere Operaio (l’organizzazione fondata da Toni Negri, Oreste Scalzone e Franco Piperno) i possibili autori del rogo. Erano gli stessi che, all’interno dell’organizzazione, si facevano conoscere come gruppo Tanas, quelli di Primavalle. A distanza di  tre settimane dall’attentato furono emessi ordini di arresto nei confronti di Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, tutti di Potere Operaio e del gruppo Tanas. Lollo finì in carcere, Grillo e Clavo scapparono.

Il funerale di Stefano e Virgilio Mattei. (Ansa)

Potere Operaio ordinò un’indagine interna per capire se davvero suoi militanti fossero stati gli autori del rogo. A condurla fu Valerio Morucci, poi entrato nelle Brigate Rosse e come tale protagonista del sequestro Moro. Morucci non ci mise molto a capire che era tutto vero: a organizzare l’azione, che secondo gli autori doveva essere solo dimostrativa, erano stati militanti di Potere Operaio. Nonostante questa evidenza la sinistra extraparlamentare (allora si definivano così i gruppi alla sinistra del Partito Comunista e che si collocavano fuori dal Parlamento) mise in atto una campagna  di controinformazione secondo la quale, contro qualsiasi evidenza, ad appiccare il rogo alla casa dei Mattei sarebbero stati altri militanti della sezione missina Giarabub per dissidi interni.

La tesi non aveva nessuna consistenza eppure trovò molto spazio. Si arrivò persino alla pubblicazione di un libro, edito da Savelli, Primavalle, rogo a porte chiuse in cui, con tesi fantasiose, si sosteneva che mandanti ed esecutori del rogo fossero da cercare appunto all’interno della sezione del MSI Giarabub. Disse anni dopo Lanfranco Pace, importante esponente di Potere Operaio:

«Fummo costretti ad assumere le difese di Lollo, Grillo e Clavo nonostante la loro colpevolezza e così montammo una controinchiesta. Perché? Perché non c’erano alternative. Non ricordo tanta comprensione né tanta solidale vicinanza come quella volta che predicammo il falso».

Il processo iniziò nel febbraio del 1975. Mentre in tribunale si svolgeva una delle udienze, all’esterno, in piazzale Clodio a Roma, ci furono scontri violentissimi tra militanti di sinistra e di destra: uno studente di origine greca, militante dell’organizzazione universitaria del MSI, il Fuan (Fronte universitario di azione nazionale), fu ucciso a colpi di pistola.

Il pubblico ministero chiese la condanna all’ergastolo di Lollo, Grillo e Clavo per incendio doloso e omicidio colposo. La giuria decise l’assoluzione con la formula, che oggi non esiste più, dell’insufficienza di prove. Uscito dal carcere anche Lollo, come gli altri due imputati, fuggì all’estero. Il processo d’appello nel 1981 fu annullato perché si scoprì che uno dei giudici popolari era affetto da «sindrome di tipo depressivo». L’appello bis si concluse con la condanna dei tre imputati per incendio doloso, duplice omicidio colposo, uso di materiale esplosivo e materiale incendiario. Nel 1987 la Corte di Cassazione confermò le condanne. Nel 2005 la Corte d’appello di Roma dichiarò prescritto il reato.

Manlio Grillo, trasferitosi in Nicaragua, non è mai tornato in Italia. Intervistato riguardo alla notte del 16 aprile 1973, disse:

«Arrivammo in tre su una Fiat 500. Ci fermammo a un chilometro e mezzo di distanza, sulla strada principale. E io restai lì, di vedetta, mentre Achille e Marino si dirigevano verso la casa dei Mattei. Ma io, sia ben chiaro, quella casa non l’ho mai vista. Sapevo solo che nessuno andava lì per compiere un mostruoso delitto, non era questa l’intenzione».

Una manifestazione di Potere Operaio in solidarietà ad Achille Lollo. (Ansa)

Marino Clavo vive tuttora in Sudamerica. Achille Lollo scappò in Svezia, poi in Nicaragua dove si è sposato. Ha avuto quattro figli, poi si è trasferito in Brasile dove ha continuato a militare in organizzazioni di sinistra. Nel 2005 diede un’intervista al Corriere della Sera in cui raccontò di quella notte:

«Non siamo stati in tre ad organizzare l’attentato. Eravamo in sei. Ho rispettato un silenzio di oltre trent’anni, oggi non ha più senso. Voglio dire tutta la verità sul rogo e sulla morte dei fratelli Mattei. Oltre a me, Marino Clavo e Manlio Grillo c’erano altri tre compagni. Facevano parte di un collettivo che avevamo creato qualche mese prima, vicino a Potere Operaio. (…)

Attorno a mezzanotte ci incontrammo tutti vicino a piazza Farnese. (…) Ci fermiamo da un benzinaio, un distributore automatico, e dividiamo a metà mille lire tra la tanica e il serbatoio della macchina. Arrivammo in quattro sotto casa Mattei, verso le due e un quarto di notte, ma le luci nell’appartamento erano ancora accese. Decidiamo di fare un altro giro.

Verso le tre meno un quarto, infine, io e Clavo saliamo le scale della palazzina, arriviamo dietro la porta dei Mattei con tanica, innesco e cartello di rivendicazione. E lì avviene il disastro, la terribile cazzata… Non volevamo provocare l’incendio, né uccidere. Doveva essere un’azione dimostrativa, come altre che avevamo fatto contro i fascisti a Primavalle.

Ma al momento di montare l’innesco, mi si ruppe il preservativo. La bomba artigianale, si costruiva con una tanica, un po’ di benzina — due o tre litri — e i due preservativi servivano per l’acido solforico, il diserbante e lo zucchero. L’innesco doveva far esplodere i gas della benzina. Se tutto avesse funzionato, avremmo provocato un botto e annerito la porta dell’appartamento. Invece io sbaglio, l’acido mi cola tra le mani e scappiamo, lasciando la tanica inesplosa. Da quel giorno ho il dubbio su cosa sia davvero successo dopo».