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  • Giovedì 22 luglio 2021

«Tutta la letteratura è geroglifica»

Cosa ci succede quando leggiamo romanzi, secondo la scrittrice francese Nathalie Léger

(Cameron Spencer/Getty Images)
(Cameron Spencer/Getty Images)

Sabato 24 luglio la scrittrice francese Nathalie Léger sarà al Festival Letterature di Roma, a cui scrittori e poeti partecipano leggendo un loro testo inedito. Il tema dell’edizione di quest’anno, la ventesima, è “Leggere il mondo” e per l’occasione Léger ha scritto una riflessione su cosa succede quando si legge narrativa, ma anche quando se ne scrive. È anche una metafora su come sono nati i suoi libri, brevi biografie mescolate a fatti autobiografici e parti saggistiche. Due sono stati pubblicati in italiano: Suite per Barbara Loden e L’abito bianco, che è dedicato a Pippa Bacca, l’artista italiana assassinata in Turchia durante una performance in cui viaggiava in autostop vestita da sposa.

Pubblichiamo l’inedito che Léger leggerà a Roma, nella traduzione di Tiziana Lo Porto. Le serate del festival si potranno seguire anche in streaming – oltre che in presenza allo Stadio Palatino, previa prenotazione.

***

E all’improvviso, a volte, vediamo

1.

Camminiamo lungo il sentiero che si snoda tra i sassi a strapiombo sul paesaggio. Dall’alto li vediamo, nuotano, nudi, in pozze d’acqua traslucida. Gridiamo, come è bello! queste trasparenze, questi colori, l’azzurro, il verde intenso, lo stridore delle cicale che si innalza intorno, le grandi masse che si dispongono, l’orizzonte e i dettagli, è bellissimo!

Venite! gridano da sotto mentre nuotano, venite! I loro volti ridono verso di noi, i loro corpi deformati dall’acqua si agitano nel prisma luccicante dei riflessi, venite!

Ma noi non vogliamo andare, pensiamo che sia ancora più bello dall’alto, preferiamo guardarli da lontano, loro, di sotto, catturati nel paesaggio, a mollo nelle pozze d’acqua profonda, loro così piccoli, piccolissimi, immersi nell’elemento, mentre si occupano quasi solo del proprio corpo, del proprio piacere (e tuttavia non c’è niente di certo, pensiamo noi), corpi in miniatura, segni scagliati sul fondale immenso della natura, e questa certezza improvvisa ci giustifica, rende invidiabile la nostra posizione. Vogliamo vedere dall’alto. Vogliamo capire. Non siamo dentro, non siamo in quell’effusione, non siamo né materia né godimento, guardiamo, li vediamo dall’alto, vediamo tutto, loro e l’immensità del resto, e pensiamo di sapere ciò che loro non sanno.

Venite, venite! gridano ancora, chiamando da lontano, un braccio a volte alzato verso di noi, mentre continuano a nuotare nella pozza d’acqua, presagendo adesso la noia, il freddo che presto arriverà, Venite! gridano, i volti ancora protesi verso di noi che siamo già lontani e continuiamo a salire nel vapore delle alture, vacillando per la fatica, sudando sotto il sole.

2.

Il panorama o l’immersione? Al mattino, appena apriamo gli occhi, il peso della contraddizione ci sfianca: tutto o il dettaglio? l’impegno o l’accoglienza? Andare alla conquista, rispondere alla chiamata – nemmeno rispondere: essere la chiamata stessa, essere la vitalità stessa, conquistare il mondo, rispondere – o meglio acconsentire a ciò che sta accadendo, accogliere l’indecifrabile massa di questa convenzione onnipotente che chiamiamo “il mondo”? Esserne fuori o starne dentro? Scegliere il legame o preferire la separazione? Si passa dall’uno all’altro, titubanti tra opinione o preghiera, storia o tempo, di volta in volta eroi dell’impegno o maestri del ritiro, insoddisfatti dell’uno e dell’altro, esitanti, indifesi, mai felici. Il mondo. La parola intimidisce. Troppo grande. Viene mobilitato per giustificare un ordine, il potere universale di una strada a senso unico. Viene aggredito per denunciare la nostra impotenza. Di fronte al mondo, impenetrabile e pietrificante, la lista delle ingiunzioni e delle buone intenzioni si protrae: non bisogna appropriarsi di nulla, ma senza rinchiudersi in se stessi; essere potenti senza potere; efficienti e virtuosi; impegnati senza compassione; essere sconfitti senza malinconia, lasciare spazio alla memoria, all’impossibile, all’incredulità. Facile a dirsi.

Non leggo il mondo, lo faccio ruzzolare dalla cima alla pozza, poi risalgo e ricado, ne vengo inghiottita, presa alla gola dalla sua violenza, senza fiato per la sua bellezza, impegnata in un corpo a corpo burrascoso, spesso doloroso, il più delle volte logistico, talvolta estatico, persa nei compromessi affrettati del sentimento e dell’idea. Come alcuni, come tutti, mi faccio convincere di volere solo l’incertezza, l’imprevisto, il disordine, un ideale di disordine. Ma temo di perdermi tutto, impantanata in quella specie di calderone di eventi, di crisi perpetua che ti lascia esangue per l’incomprensione.

In questa astrazione senza misura, senza scala, ognuno cerca di inventare un gesto che sia il proprio, qualcosa di simile a una cristallizzazione, un concentrato di forze e di storia: innamorarsi, manifestare, fuggire, restare in contemplazione davanti a un asino, accogliere chi non si conosce, opporre resistenza, uscire dalla solitudine, abitare un corpo, un pensiero, una frase.

3.

Il 14 settembre 1822, Jean-François de Champollion è al suo tavolo di lavoro. Ha passato anni a decifrare la scrittura ideogrammatica delle piramidi d’Egitto. Un mondo è interamente contenuto in un alfabeto enigmatico, oscuramente chiuso su se stesso. Per quindici secoli nessuno è riuscito a leggere i geroglifici, ma quel giorno, nelle figure ordite dalle parole e dalle immagini, Champollion all’improvviso vede, decifra, il significato appare, ha il tempo di esclamare: “Ci sono!”, poi sviene, perde letteralmente conoscenza. Ogni lettore è uno Champollion, tutta la letteratura è geroglifica, fatta di un intreccio di parole e immagini, segni e sogni, il testo è una fitta trama di spirito ed emozione che scorre sotto la disposizione delle parole. E all’improvviso, a volte, vediamo. Una verità del mondo appare in un’esplosione. Bagliore. Ragione per cui esiste la poesia.

Marcel Proust lo ha detto molto bene: “I bei libri sono scritti come in una lingua straniera. A ogni parola ciascuno attribuisce un senso o quantomeno un’immagine, che spesso è un controsenso. Ma nei bei libri, tutti i controsensi sono belli”. Questa bellezza, questo controsenso, che è l’altro nome della letteratura, sta nella sincope, nella fuga del significato nel punto più acuto del significato stesso, nell’incontro con lo scintillio di una verità sepolta nella storia. “Il libro è un frammento cubico di coscienza che brucia e fuma”, scrive Boris Pasternak a Marina Cvetaeva. A un simile giro di frase che lo tocca, a una simile inflessione che lo punta, il lettore potrebbe capire tutto e dire: “Ci sono!”, per poi svenire, perdere conoscenza. In quel lasso di tempo, qualcosa si svela. Alla domanda da dove viene India Song, Marguerite Duras risponde: “Dalla parte più lontana della mia vita”.

Brucia, fuma, è misconosciuto, è ignoto, e probabilmente devi perdere conoscenza per riconoscerlo. E in questo “ri”, in questo ritorno che si può esprimere solo in sincope, in questo rivenire, forse più potente di un divenire, c’è un dono che ci è dato – materia dell’infanzia, densità della memoria – ma non solo; eccesso di assenza – ma non solo. Potremo mai sapere di cosa è fatto il dono generoso di un gesto, di una parola? Quello che so è che si può essere salvati da questo dono, da questo riconoscimento.

4.

Colpevole di essere fuggito dalla sua nave di fronte a un imminente disastro, Lord Jim, l’eroe di Joseph Conrad, si presenta in tribunale. Il giudice gli domanda fatti, soltanto fatti, ma Jim è preda di una storia del tutto diversa, è completamente immerso nel suo sogno infranto di eroismo. Voleva essere all’altezza del mondo, è stato all’altezza solo della sua paura. È in tribunale, deve rispondere delle sue azioni. Ma tutto si disperde. È un “romantico”, dice Conrad, divaga “nell’intervallo delle sue risposte”. La corte si aspetta da lui la catena di cause e conseguenze, il racconto tecnico di una tragedia. Lui pensa solo alla rete contraddittoria dei sentimenti, al rimuginare della vergogna, all’infinito luccicare delle ombre. Nel mondo, io sono Lord Jim. L’attimo prima “passeggiava sul ponte della nave pieno della certezza di una pace e di una sicurezza sconfinate che si leggevano”, scrive Conrad, “sul volto silenzioso della natura”; l’attimo prima “una meravigliosa calma regnava sul mondo”, poi è la tempesta, la paura della morte e della fuga, l’abbandono di coloro che ti sono stati affidati e che dormono, ignari di essa – la fuga, la colpa.

Nel mondo, siamo Lord Jim. Siamo Ljoubov’ Andreevna, l’eroina di Cechov che si sfianca nell’oblio e nella celebrazione mentre gli alberi del miracoloso ciliegio della sua
infanzia vengono abbattuti uno dopo l’altro. Siamo, grazie a Madame de La Fayette, al fianco della Principessa di Clèves quando crede scioccamente di rendere eterno l’amore rinunciandovi. Torniamo in patria con il narratore di Conversazioni in Sicilia di Elio Vittorini. Siamo persi nella neve come Vasilij e Nikita in Padrone e servo di Lev Tolstoj, di volta in volta schiavi e liberati, resi immortali da un gesto di fratellanza salvifica. Partiamo con Parsifal per le strade alla ricerca del nostro nome. Siamo il mondo intero riconquistato nella letteratura. Mentre leggo, vedo, e questa chiaroveggenza, questa extra-lucidità della finzione scuote le affermazioni fragorose del mondo che bussano alla porta, il martello dell’opinione nascosto in tasca. La lettura e la scrittura (che è
il movimento prolungato, come aggravato, della lettura) esplorano l’intervallo tra le risposte che cerchiamo di dare al mondo, fanno udire le innumerevoli voci che balbettano, esultano, soffocano, resistono nell’ombra. La letteratura non si limita a leggere il mondo. Non cessando di rappresentare l’inestricabile dell’esistenza stessa e la molteplicità delle sue forme, gli risponde, ovvero, gli permette di essere riconosciuto e salvato, al tempo stesso manifesto e canto, documentario e mito.

5.

Da lontano non succede nulla. Una donna è seduta al suo tavolo. A volte le mani si muovono un poco. E tuttavia. È la tenacia, la concentrazione, è l’immobilità che ti colpisce. Eppure, internamente, tutto procede molto in fretta: scontri di impressioni, intuizioni e parole, frasi appena abbozzate, abbandonate, ripetizioni, frammenti, assemblaggi, numerosi pentimenti… finché una frase non prende forma. Cammino sul sentiero che si snoda tra i sassi a strapiombo sul paesaggio. Dall’alto li vedo, nudi, che nuotano nell’acqua traslucida. Come è bello! queste trasparenze, l’azzurro, il verde intenso, distinguo le grandi masse che si dispongono, l’orizzonte, il paesaggio, ripeto: è bellissimo! e proseguo sulla mia strada perché voglio vedere quello che credo sia il mondo da più in alto possibile nonostante la fatica, nonostante la sete che forse avrà la meglio sulla mia ostinazione.

Ma proprio in quel momento, mentre cammino lassù, nuoto di sotto nell’acqua abbagliante, esulto e urlo la mia gioia, sono ebbra di luce, e mentre nuoto e mi tuffo nella pozza d’acqua, so già che la noia e il freddo arriveranno troppo presto. Ma ecco che a questa stessa tavola, dentro questo stesso agglomerato, qualcuno ora sta camminando verso di me. Non è un personaggio di finzione, ma qualcuno che ha vissuto e a cui voglio restituire a parole la sua parte di polvere, di paura, l’impeto del suo desiderio e del coraggio. Questa presenza arriva dal mondo stesso. Potrebbe chiamarsi Contessa di Castiglione, Barbara Loden o Pippa Bacca. E tutta la sua esistenza, la sua follia, la sua paura e la sua grazia, ciò che ha sofferto, il suo trionfo o la sconfitta, tutta la sua esistenza è una chiamata.

Spesso resisto, il mio primo impulso è fuggire, ma la chiamata è esigente. E siccome nulla avanza senza portarsi dietro il proprio mondo, allora voglio sapere tutto delle miniere di carbone in Pennsylvania, della rete autostradale italiana, delle apparizioni della vergine in Bosnia Erzegovina, delle pin-up nell’America degli anni ‘50, della ripresa del lavoro nelle fabbriche Wonder, del funzionamento di un GPS, della fisiologia delle lacrime o della fabbricazione dei sottomarini. E da questa massa voglio fare emergere molto lentamente, all’interno della frase stessa, il soggetto solitario che è venuto a cercarmi. La sua stranezza è preziosa. Richiede tanto sogno quanto fedeltà al reale. Ascolto. Voglio catturare la materia stessa di questa esistenza, la sua fragilità. Nel dargli forma, voglio cercare di rispondere meglio alla chiamata del mio nome tra i vivi.

© Nathalie Léger

 

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