Il bello di farsi fregare da Battiato

«Per quanto quindi non sapessimo esattamente chi fosse il Re del Mondo, smettemmo semplicemente di chiederci se Battiato avesse davvero valicato la porta di Agarthi o se avesse semplicemente giocato bene con le parole, come infine eravamo più propensi a credere. Quello che importava, e che mi importa tuttora, è che, in effetti, sulle biciclette verso casa, la vita ci sfiorò»

(Elisabetta Villa/Getty Images)
(Elisabetta Villa/Getty Images)

Quando nel 1981 uscì La Voce del Padrone, facevo le scuole medie. L’ora di musica consisteva soprattutto nello storpiare col flauto un famoso pezzo pop con musica di Beethoven e parole di Schiller: si si do re re.
Sul re solitamente il flauto sgusciava di mano, per emettere una stridula pernacchia che riportava subito la gioia universalistica dell’inno a quella modesta realtà di ragazzini maleolenti in una scuola di periferia.

Ma un giorno di autunno la professoressa di musica entrò con il mangianastri, oggetto di continua contesa con l’insegnante di inglese, e disse che per quella volta potevamo pure riporre il flauto. Avremmo invece ascoltato delle canzoni.
In presenza di Mister Tamburino mi si impose così, da subito, la necessità di una scelta: farmi irretire da Battiato o accettare di non capire, scrollare le spalle e passare oltre. Ovviamente, fui totalmente irretito da Battiato. Soggiogato fino al punto di consumare la cassetta, che mi ero fatto regalare dai miei, in un continuo rigirare di lato A, lato B, rewind e forward.
Tutti i testi mandati a memoria. Un’adesione completa e irragionevole a quell’estetica tanto vaga quanto barricadera: anch’io, ci avrei giurato, preferivo l’insalata a Beethoven e Sinatra.

Ascoltatore ingenuo, però, ancora mi attaccavo alla lettera delle parole e non comprendevo quel gesto artistico battiatesco per eccellenza, che è sempre stato quello di rimandare ad altro, non si sa bene a cosa. Un continuo ammiccamento a un altrove sempre più esotico, seppur ammantato di un’aura di intimità memoriale.
Solo molto più tardi avrei scoperto che i gesuiti, per quanto euclidei, non si vestirono mai come dei bonzi per entrare a corte dell’imperatore, ma semmai come mandarini.
Intanto però cercavo un centro di gravità permanente, senza accorgermi che il centro di gravità permanente era la canzone stessa, con quel suo raffinatissimo madrigalismo della melodia, che saltella sempre sull’intervallo di un tono, come di uno che, appunto, cerchi di non cadere in acqua traversando un torrente sull’affiorar dei sassi (vorrei qui poter dire serenamente a Michela Murgia che “minchiate” così rivelano un talento inarrivabile).

Così da allora mi portai dietro l’angosciosa influenza di Battiato per anni. Al liceo il mio compianto professore di inglese, nato e cresciuto ad Alessandria di Egitto, su mia pressante richiesta, mi affidò alle cure di sua figlia perché imparassi un po’ di arabo. Era, ovviamente, colpa di Battiato. E fu sempre colpa sua, di Battiato, se la mia piccola biblioteca di ragazzetto si impreziosì di tutti quei begli Adelphi colorati, visto che c’era senza dubbio un continuo rimando dalla discografia del cantautore siciliano al catalogo dell’editore milanese.
In definitiva, quella che Battiato seppe metter su con le sue canzoni fu una straordinaria e micidiale promessa di senso, davanti alla quale, per una sorta di patto implicito nell’ascolto, in fondo mi importava davvero poco che venisse continuamente disattesa.
Perché insomma tua madre si ricordasse di me, delle mie abitudini, mentre passavano i treni per Tozeur; che cosa vi fosse scritto in quella lettera al Governatore della Libia, con buona pace di quell’idiota di Graziani; perché la bella ragazza padovana si facesse una comune giù in Toscana: delle risposte a queste e ad altre milioni di analoghe domande che sarebbero sorte spontanee a chiunque non avesse sottoscritto quel patto implicito, agli ascoltatori di Battiato non fregava assolutamente niente.

Eppure, a volerci chiedere oggi perché quella vaga promessa di senso, ogni volta rimessa in campo da Battiato, suonasse così bene all’orecchio, non credo davvero possa bastare il giudizio liquidatorio secondo il quale ascoltare Battiato serviva soprattutto a conferire una patente di intellettualismo a chi ne canticchiava i testi, a meno che non si voglia ridurre ogni fruizione d’arte a questo piccolo elemento di barbarie narcisistica (lo stesso motivo insomma per cui potremmo liquidare, del tutto ingiustamente, i lettori della Murgia come aspiranti a una patente di engagé o di Weltverbesserer).
Credo invece che Battiato fosse un maestro nell’evocazione di fantasmi, per quanto siamo appunto disposti a credere ai fantasmi, e che l’ascoltatore fosse ben disposto verso la promessa di rivelazione delle sue evocazioni proprio perché, trattandosi di canzoni, Battiato era perfettamente consapevole di come il potere connotativo del linguaggio musicale fosse destinato a prevalere ogni volta sull’aspetto denotativo della parola cantata.

Detto in termini più crudi e diretti: se ti facevi fregare dalle parole di Battiato, era solo perché la musica è un’arte fatta apposta per fregarti emotivamente.
Per sovrappiù, fra questi fantasmi tanto esotici quanto sfuggenti, non bisogna dimenticare che ne comparivano talvolta di intimi e verissimi, come da un velario di pudore, a spandere una luce di autenticità commovente: tutte le canzoni siciliane di Battiato, ad esempio, sono fondate in una consistenza memoriale intima e struggente.
Così, fra i tanti esempi, l’immagine potentemente sensuale del padre che si pettina mentre l’odore di brillantina si impadronisce del bambino o quel “cortili e pozzi antichi tra i melograni/ chiese in stile normanno/ e una vecchia caserma dei carabinieri”, dove l’ultimo correlato oggettivo dell’elenco riallaccia la storia antica delle dominazioni dell’isola al presidio tanto familiare quanto evanescente dello Stato post-unitario, sono tutti fantasmi che assicurano l’ascoltatore del fatto che non è mai solo un trucco a far ballare il tavolino.

È infine vero che, negli anni Ottanta, prima cioè che ogni opera d’arte, piccola o grande che fosse, tornasse a impegnarsi così tanto nel rassicurare i fruitori di essere dalla parte del giusto o del bene, era possibile immaginare che il valore di una canzone andasse ricercato nella canzone stessa, diciamo così, iuxta propria principia. Che bastassero cioè una rigorosa coerenza formale, una sapiente aderenza del testo alla melodia, e una affascinante ricerca timbrica, a farci piacere quelle canzoni e chi le aveva scritte.
Per quanto quindi non sapessimo esattamente chi fosse il Re del Mondo, e nonostante la lettura di René Guenon continuassimo a restare profani, relegati fuori da ogni sapienza misterica o iniziatica, smettemmo semplicemente di chiederci se Battiato avesse davvero valicato la porta di Agarthi o se avesse semplicemente giocato bene con le parole, come infine eravamo più propensi a credere.
Quello che importava, e che mi importa tuttora, è che, in effetti, sulle biciclette verso casa, la vita ci sfiorò.
Quello che mi importa tuttora è che il Re del Mondo, chiunque egli sia, qualunque cosa significhi, ci tiene prigioniero il cuore, almeno finché qualcuno non riesce a mettere insieme parole e musica tali da liberarlo almeno un poco.

Simone Lenzi
Simone Lenzi

Simone Lenzi fa lo scrittore, lo sceneggiatore e il musicista: è fondatore e cantante della band dei Virginiana Miller. Dal 2019 è assessore alla Cultura del Comune di Livorno.

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