Amazon prospera nella pandemia

In questi mesi sta assumendo a ritmi mai visti e ha avuto guadagni straordinari, rendendo ancora più evidenti i problemi che già c'erano, dalle tasse ai diritti dei dipendenti

Il magazzino di smistamento di Amazon a Settecamini, Roma. (Carlo Lannutti/LaPresse)
Il magazzino di smistamento di Amazon a Settecamini, Roma. (Carlo Lannutti/LaPresse)

Tra gennaio e ottobre, Amazon ha aggiunto 427.300 lavoratori al suo organico globale, che ha ormai raggiunto la popolazione di una piccola capitale europea con i suoi 1,2 milioni di assunti, senza contare le centinaia di migliaia di autisti che non sono dipendenti della società. Sono numeri mai visti nella storia per un’azienda statunitense, secondo il New York Times paragonabili a stento alle assunzioni di massa dell’industria pesante durante la Seconda guerra mondiale. Nel giro di un paio d’anni, Amazon potrebbe superare la catena di supermercati Walmart come azienda con più dipendenti degli Stati Uniti (attualmente Walmart ne ha 2,2 milioni).

L’espansione di Amazon durante i mesi della pandemia da coronavirus è stata uno dei fenomeni più visibili dell’economia globale, che nel 2020 subirà complessivamente una notevole contrazione. I lockdown e le restrizioni sulle attività e gli spostamenti hanno fatto crescere l’e-commerce un po’ ovunque, in particolare in paesi come l’Italia in cui non era particolarmente sviluppato, e a giovare di questa tendenza sono state in particolare le società che già in precedenza avevano posizioni egemoniche, come Amazon.

Nel terzo trimestre del 2020, Amazon ha registrato il triplo dell’utile netto rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, per un totale di 6,3 miliardi di dollari, raggiungendo un flusso di cassa operativo di 55,3 miliardi tra settembre 2019 e settembre 2020, più del 50% in più rispetto all’anno prima. Da fine febbraio, il valore delle azioni di Amazon è aumentato circa del 60% e in questi mesi la società ha raggiunto i profitti più alti della sua storia, prosperando in un periodo di grave crisi economica per tante categorie di lavoratori: tra cui proprio i proprietari di negozi fisici, quelli che da anni in molti casi già pativano la competizione dell’e-commerce.

Se le dimensioni e l’influenza raggiunti da Amazon erano viste con preoccupazione già prima della pandemia, la sua enorme crescita recente ha reso sempre più sentito e partecipato il dibattito sulle implicazioni e le conseguenze di questa posizione. Dietro alla potenza e alla ricchezza di Amazon – e del suo CEO Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di oltre 186 miliardi di dollari – ci sono notoriamente una lunga serie di problemi, dalle condizioni dei dipendenti della società – determinanti per i suoi successi produttivi – alle difficoltà dei sindacati a rapportarsi con l’azienda per migliorale, dalle conseguenze della sua espansione su interi settori economici, in particolare quelli del commercio al dettaglio, all’insostenibilità ambientale dei modelli consumistici che promuove.

«Amazon è il più grande vincitore» ha detto al New York Times l’analista di mercato di Ipsos David Parma, descrivendo lo sviluppo recente della società in Italia e individuando «un cambiamento reale, profondo e destinato a durare». Uno dei problemi principali è che i governi internazionali sono arrivati perlopiù impreparati a questo fenomeno apparentemente inevitabile e inarrestabile, senza aver predisposto strumenti legislativi e fiscali adeguati per assicurarsi che Amazon e le altre grandi multinazionali di internet paghino la giusta quota di tasse. Un problema particolarmente sentito nel momento in cui il gettito fiscale degli stati serve anche a compensare economicamente le categorie colpite dalle restrizioni per il coronavirus (le stesse restrizioni che, dicono i numeri, hanno favorito gli affari di Amazon in questi mesi).

L’Italia è stato uno dei paesi dove Amazon è cresciuta di più, anche per i margini più ampi: prima della pandemia era uno dei paesi europei in cui l’e-commerce era più indietro, ma durante il lockdown ha fatto acquisti online il 75% degli italiani (nel 2019 era stato il 40%, rispetto per esempio all’87% dei britannici). Secondo uno studio del Politecnico di Milano, alla fine dell’anno gli acquisti online in Italia varranno 22,7 miliardi di euro, il 26% in più dell’anno prima, un aumento pari a 4,7 miliardi di euro.

Nei giorni scorsi, l’amministrazione regionale del Piemonte – di centrodestra, guidata da Alberto Cirio – ha proposto una legge per tassare di più le grandi multinazionali dell’online, in modo da sostenere commercianti e piccole attività. A essere interessate sarebbero le aziende con fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni in Italia, e l’obiettivo dichiarato è di coinvolgere altre regioni: la stima è che la legge possa portare entrate fiscali per 2 miliardi di euro l’anno in Italia, contro i 700 milioni attuali. La proposta della giunta piemontese prevede anche una tassazione speciale per il periodo del lockdown, con lo stesso scopo, che però sembra difficile possa essere approvata in tempo ed essere efficace retroattivamente. La legge peraltro è stata criticata dall’opposizione regionale, dal Partito Democratico al Movimento 5 Stelle.

Il problema che il Piemonte vorrebbe risolvere è discusso da tempo, e riguarda il mancato gettito fiscale dalle grandi società del web, sulla cui tassazione si discute e litiga da anni, in cerca di criteri e legislazioni equi e soprattutto efficaci in alternativa a quelli attuali, inadatti a regolare e intervenire sulle attività su cui si fondano concretamente i loro guadagni.

A questo scopo l’Unione Europea ha provato a formulare una “Digital Tax”, discussa da anni e introdotta in Italia con la legge di bilancio per il 2019. Il principio alla base di questa forma di tassazione è che i tradizionali sistemi fiscali europei sono inadeguati per le multinazionali di internet, che grazie a operazioni – legali – conosciute come “ottimizzazione fiscale” riescono a ridurre notevolmente le imposizioni sulle singole filiali nazionali, dichiarando gran parte degli utili in paesi con legislazioni fiscali estremamente favorevoli, come l’Irlanda.

L’aliquota europea, recepita in Italia, è stata fissata al 3%, e la legge proposta in Piemonte vorrebbe alzarla al 15%: su un fatturato annuo di 4,5 miliardi in Italia come quello di Amazon, si parlerebbe di 135 milioni di euro al 3%, e 675 milioni di euro al 15% come da proposta di Cirio. Per avere un paragone, l’ultimo decreto “Ristori” approvato dal governo per aiutare le attività in crisi prevede fondi per 8 miliardi di euro.

Amazon dichiara di aver pagato in imposte dirette 84 milioni di euro nel 2019, che sarebbero pari all’1,87% dei ricavi. Ma oltre alle imposte sulla società, come l’IRES e l’IRAP, Amazon include in questo conteggio anche le tasse sui salari e i contributi per i dipendenti: senza, secondo una recente rilevazione dell’Area studi di Mediobanca, le imposte pagate nel 2019 da Amazon ammontano a 11 milioni di euro, cioè lo 0,24% dei ricavi.

I governi internazionali però stanno incontrando grandi difficoltà ad stabilire nuovi criteri fiscali e ad applicare un’aliquota simile a quella prevista dalla “Digital Tax” discussa a livello europeo. Nel Regno Unito, per esempio, la tassa approvata quest’anno non si applica ai prodotti venduti direttamente da Amazon, ma soltanto su quelli venduti da terzi, sui quali ricadranno quindi gli oneri fiscali. Un problema simile è emerso anche con la “Digital Tax” italiana, che dovrebbe essere riscossa per la prima volta nel febbraio 2021 ma la cui scadenza potrebbe essere rinviata proprio in attesa di un auspicato accordo internazionale, complicato dall’opposizione degli Stati Uniti al modello proposto in Europa.

Mentre i governi di mezzo mondo cercano di capire come tassare Amazon, da luglio a oggi la società ha assunto circa 2.800 dipendenti al giorno a livello mondiale, in gran parte magazzinieri ma anche ingegneri informatici e programmatori, per i suoi servizi di cloud o per quelli di streaming. Nel conteggio sugli oltre 400mila dipendenti assunti da gennaio, peraltro, non sono incluse le decine di migliaia assunte stagionalmente per il periodo natalizio, il più intenso e fruttuoso dell’anno.

Amazon fa un vanto dei posti di lavoro creati nei paesi in cui opera, compresa l’Italia dove ha recentemente annunciato un totale di 1.600 nuovi dipendenti a tempo indeterminato nel 2020, che portano il totale a 8.500 dipendenti. Durante un incontro organizzato dalla CGIL che si è tenuto in concomitanza con il “Black Friday”, il sindacalista Cristian Sesena ha però parlato di «immagine zuccherosa e falsata» chiedendo maggiore attenzione «alla qualità e non alla quantità» del lavoro creato.

Secondo la segretaria confederale della CGIL Tania Scacchetti, con le sue 35 sedi, le sue 11 ragioni sociali e i suoi 3 contratti collettivi diversi, Amazon è «un ginepraio in cui è molto difficile districarsi e costruire normali relazioni industriali». I problemi segnalati dai sindacati sono tanti: da quelli più contingenti come il mancato rispetto dei protocolli di sicurezza per il Covid-19 – che a marzo provocò 11 giorni di sciopero – a quelli strutturali, legati principalmente ai turni massacranti, all’esagerata produttività richiesta, alle più volte segnalate pressioni anti-sindacali e alle diffuse condizioni contrattuali precarie.

Scacchetti ha spiegato che gli investimenti di Amazon in Italia riguardano spesso aree con forte disoccupazione e meno sviluppate, e creano posti di lavoro visti da subito come molto attraenti. Questo però rende più difficile per le amministrazioni locali porre condizioni, per esempio ambientali, o sulle condizioni di lavoro dei dipendenti. Scacchetti ha chiesto invece misure per ridistribuire l’enorme ricchezza prodotta da Amazon, spiegando che di fronte alle trasformazioni e alle conseguenze sui processi lavorativi, produttivi, ambientali, fiscali ed economici della sua espansione «accontentarsi acriticamente della crescita della presenza di Amazon in Italia non può essere la cifra unica delle nostre valutazioni».

Nello stesso incontro, il sottosegretario al Lavoro Stanislao Di Piazza, del M5S, si è detto d’accordo con le rivendicazioni di maggiori tutele per i diritti dei dipendenti di Amazon e di maggiore sostenibilità delle prestazioni lavorative a loro richieste, spiegando che «l’abilità non sarà ostacolare la piattaforma di e-commerce più produttiva del mondo, ma richiamarla a una visione direi “olivettiana” del lavoro e della concorrenza».

Brando Benifei, europarlamentare del PD che si è occupato della questione, dice che la richiesta fondamentale «è banale: che Amazon paghi. Perché oggi dal punto di vista fiscale, dal punto di vista dei lavoratori, dal punto di vista della concorrenza messa in campo nei confronti delle realtà più piccole, vive una situazione di squilibrio a suo favore che ha determinato anche il fatto che il suo fondatore sia l’uomo più ricco del mondo, di molte lunghezze rispetto a tutti gli altri».