Una canzone di Eddie Vedder

Una con cui avrebbe potuto vincere un Oscar, cantandola o canticchiandola

(Mike Coppola/Getty Images)
(Mike Coppola/Getty Images)

Nel complicato calderone del dibattito sul “blackface“, che naturalmente ha valenze e implicazioni diverse negli Stati Uniti da quelle che ha qui ma questo non significa che non sia importante capirle, mettiamo anche David Byrne che si è scusato per una sua interpretazione nel film dei Talking Heads Stop making sense.
Oggi è il quarantesimo compleanno di Paris, il “doppio live” dei Supertramp che risolse un Natale e poi parecchi giorni ancora a me e a mio fratello.
Forse qualcuno si ricorda di quella bella canzone di Waxahatchee, cantautrice americana: il suo fidanzato cantautore Kevin Morby, a cui accennai, ha fatto una canzone nuova, con lei dentro in una costruzione abbastanza anomala, se seguite la canzone oltre i due minuti.

Guaranteed
Non mi era piaciuto tanto quanto ai molti suoi cultori, ma non ero nemmeno particolarmente critico, appena uscito dalla visione di Into the wild, il film: ve lo ricorderete, la storia del ragazzo che alla fine va a ficcarsi in quell’autobus in mezzo alle foreste dell’Alaska, e ci muore. Non mi ricordo chi per primo mi fece riflettere sul fatto che tutta quella romanticheria indulgente costituisse la celebrazione di un incosciente scellerato che per fare il fenomeno si andò a mettere in una situazione di palese pericolo, non fu capace di trovare la strada per uscirne – che era vicinissima – e morì in un modo molto stupido. Con qualche rispetto e delicatezza maggiore nei confronti del protagonista, ma è una lettura che poi mi ha abbastanza convinto (una cosa simile mi era capitata quando Enrico Deaglio mi convinse che il celebrato professor Robin Williams nell’Attimo fuggente effettivamente causa il suicidio del suo studente, per egocentrismo irresponsabile, e hai voglia a salire sui banchi e declamare versi, poi).

E vabbè: di recente se ne è riparlato, perché l’autobus – è una storia vera – è stato rimosso per evitare che succedessero guai maggiori a emuli più sventati ancora del protagonista. Ma l’unica cosa indiscutibilmente buona di quella storia e di quel film di Sean Penn sono le musiche di Eddie Vedder, cantante dei Pearl Jam e idolo di folle di fan (per fondatissime ragioni musicali e di coolness).
La canzone principale, in particolare, vinse il Golden Globe (all’Oscar non fu neanche tra i candidati, ma bisogna dire a discolpa dell’Academy che quell’anno vinse Glen Hansard). Nel disco è apparentemente una traccia lunga sette minuti, in fondo: in realtà la canzone dura due minuti e mezzo, ma dopo due minuti di silenzio c’è una di quelle che si chiamavano “ghost tracks” in quel buffo periodo dei compact disc in cui andava di moda questo genere di cose (siamo già nel 2007, peraltro), ed è la ripetizione della canzone, ma mormorata invece che cantata. Canticchiata, insomma, in quel modo in cui facciamo “hmmm hmmm”: non credo ci sia un verbo esatto, no?

E tutte queste cose le ho scritte perché della canzone non saprei che dirvi che non sia ridondante rispetto alla sua dolcezza, alla sua semplicità micidiale, all’arpeggio di chitarra, e alla voce di Vedder. E a un bel testo, che siate romantici o ragionevoli sulla storia.
Leave it to me as I find a way to be
Consider me a satelite for ever orbiting
I knew all the rules but the rules do not know me
Guaranteed…

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