I siti che stampano oggetti e magliette on demand hanno un problema col copyright

Chiunque può produrre oggetti con marchi di cui non possiede i diritti e metterli in vendita, senza che si sappia bene di chi è la responsabilità

(Justin Sullivan/Getty Images)
(Justin Sullivan/Getty Images)

A partire dai primi anni Duemila, grazie alla diffusione della stampa digitale, sono nati moltissimi servizi online di stampa on demand, ovvero quei siti che permettono di ordinare oggetti come magliette, tazze e cuscini, con sopra stampe personalizzate. Si possono sfruttare per piccoli ordini, per esempio per stampare le magliette per la propria squadra sportiva, o per fare un regalo personalizzato. Gli stessi servizi vengono però anche usati da numerose imprese che vi si appoggiano per produrre grandi quantità di gadget con loghi e immagini di cui non possiedono i diritti, per poi venderle online sui siti di e-commerce.

È un problema soprattutto per i proprietari di copyright, marchi registrati e diritti d’autore che non riescono più a stare dietro a tutte queste piccole realtà il cui modello di business si basa sulla violazione della proprietà intellettuale. Un’inchiesta pubblicata su Wired questa settimana approfondisce il fenomeno partendo dalla testimonianza di Pat Cassidy, che lavora per Exurbia, una società statunitense che gestisce i diritti per vari clienti e il cui compito è anche quello di andare a scovare i rivenditori di merce con immagini non autorizzate.

Cassidy, che ultimamente si è occupato della gestione di tutte le immagini appartenenti all’immaginario del film horror del 1974 Non aprite quella porta, ha detto a Wired che il fenomeno è molto più grande di quanto immaginasse: all’origine infatti ci sono decine di servizi di stampa on demand, e ciascuno di questi rifornisce centinaia e forse migliaia di venditori. Si stima che questo sistema abbia fatto guadagnare ai venditori non autorizzati decine e forse centinaia di milioni di dollari all’anno.

Cassidy ha detto a Wired che oltre alle risorse che i proprietari di diritti devono impiegare nel monitoraggio di tutte queste piattaforme di stampa on demand, c’è un altro problema: molte di queste società hanno base all’estero, moltissime in Asia, e sono difficili da rintracciare e ancora più da contattare.

Nel diritto statunitense c’è una legge che si chiama Digital Millennium Copyright Act (DMCA) che solleva i siti di e-commerce dalla responsabilità di controllare che i venditori che ospitano stiano rispettando le leggi sul copyright. Anche nei paesi dell’Unione Europea, sebbene la questione sia ancora aperta e dibattuta, le piattaforme che ospitano i venditori non sono ritenute responsabili dei contenuti caricati dagli utenti finché non ne vengono a conoscenza. Per i proprietari dei diritti questo significa investire un’enorme quantità di tempo nella ricerca e nella segnalazione delle ormai migliaia di venditori che commettono queste infrazioni.

Negli Stati Uniti la prima piattaforma di stampa online on demand è stata CafePress, nel 1999. A seguire sono nate altre piattaforme come Zazzle nel 2005, Redbubble nel 2006 e poi TeeChip, TeePublic e SunFrog. Alcune di queste imprese, come per esempio GearLaunch, hanno recentemente costruito un e-commerce interno alla piattaforma che permette di mettere direttamente in vendita i prodotti che si ordinano. Altre invece sono integrate con i principali siti di e-commerce.

La produzione avviene in maniera molto semplice: i venditori caricano il logo o l’immagine che vogliono stampare sui prodotti sul sito del servizio di stampa e scelgono le caratteristiche e la quantità di prodotti che vogliono. Il servizio di stampa on demand produce la merce richiesta quasi sempre internamente, senza obblighi di revisione, e la spedisce al venditore che poi pubblica l’annuncio della disponibilità del prodotto su negozi online come Amazon, eBay, Etsy, o direttamente sulla piattaforma di stampa on demand. Tutte queste piattaforme si presentano come comunità online di artisti e designer in cerca di soluzioni innovative per realizzare le proprie creazioni, ma spesso ciò che porta loro maggiori introiti è la produzione e la vendita illegale di merci contraffatte.

Ma fino a che punto arriva la responsabilità delle piattaforme di stampa on demand rispetto ai prodotti che producono e vendono? Negli ultimi anni sono state aperte moltissime cause legali sia nei confronti dei “designer” che usano marchi e immagini senza averne i diritti, sia contro le società di stampa on demand. Per esempio nel 2017 Harley-Davidson si accorse che più di 100 designer usavano marchi di sua proprietà per stampare e vendere merchandising su SunFrog. Harley-Davidson mandò oltre 70 segnalazioni per più di 800 prodotti contraffatti a SunFrog, finché ad aprile 2018 il giudice assegnò a Harley-Davidson più di 19 milioni di euro di risarcimento — il più ingente che una società avesse mai ottenuto fino a quel momento per la violazione dei diritti — e vietò a SunFrog di vendere prodotti coi marchi di Harley-Davidson da quel momento in avanti.

Un caso simile risale al 2016 in California, dove l’artista Greg Young fece causa a Zazzle per aver caricato e venduto sulla sua piattaforma prodotti che violavano il copyright dei suoi lavori. In questo caso il giudice assolse Zazzle per aver permesso il caricamento delle immagini senza diritto (come previsto dalla DMCA), ma dichiarò che Zazzle poteva ancora essere denunciato per aver prodotto e venduto oggetti contraffatti. Quello che fanno le piattaforme che offrono servizi sia di produzione che di vendita come Zazzle, infatti, è qualcosa di diverso rispetto a quello che fanno i semplici e-commerce come Amazon e eBay, che si limitano ad ospitare i venditori. Zazzle ricorse in appello ma la corte confermò la responsabilità della piattaforma per quanto riguardava la produzione e la vendita dei prodotti e le impose un risarcimento di 500mila dollari.

Per aggirare questo ostacolo e rientrare interamente nella DMCA, le piattaforme dovrebbero appaltare a società esterne sia il processo di produzione che la logistica della vendita. In questo modo farebbero esattamente ciò che fanno Amazon, eBay e Etsy e non rischierebbero cause o risarcimenti da migliaia di dollari. È il caso di Redbubble, che a marzo 2019 fu assolto dall’accusa di vendere prodotti con il logo della Ohio State University perché tecnicamente non aveva prodotto né venduto quei prodotti, ma aveva semplicemente coordinato l’attività delle aziende che lo avevano fatto. Ma il problema non scompare, si sposta semplicemente sulle altre aziende.

Oltre a tentare di aggirare la legge, comunque, negli ultimi anni le piattaforme hanno adattato parte del loro lavoro alle richieste dei proprietari di diritti, per esempio dando la possibilità sui loro siti di segnalare eventuali violazioni degli utenti e sensibilizzando gli utenti sui rischi che corrono utilizzando illegalmente marchi altrui. GearLaunch ha pubblicato sul suo blog un post intitolato “Come non andare in prigione per violazione del copyright e diventare comunque ricchi”.

Alcune piattaforme usano dei software che sfruttano l’intelligenza artificiale per “riconoscere” i marchi registrati all’interno dei file caricati dagli utenti. Anche eBay ha fatto sapere che sta usando strumenti sofisticati a questo scopo e Amazon ha detto di aver investito più di 400 milioni di dollari nella lotta contro frodi e contraffazioni. In un report sulla trasparenza, Etsy ha mostrato di aver bloccato più di 400mila annunci nel 2018, il 71 per cento in più dell’anno prima. TeeChip ha detto di aver investito milioni di dollari nel monitoraggio dei prodotti contraffatti e di sottoporre gli utenti a un rigoroso controllo.

Quella di monitorare tutto ciò che viene caricato sulle piattaforme con software di riconoscimento non può comunque essere una soluzione definitiva, sia per via dei numerosi limiti tecnologici che ancora ci sono, sia perché spesso la mole di caricamenti è talmente grande che si possono fare solo controlli a campione. Nel 2018, i 280mila utenti di Redbubble hanno caricato circa 17,4 milioni di file grafici.

Inoltre, non tutti i proprietari di marchi adottano le stesse strategie nei confronti della merce contraffatta: alcuni non sono tolleranti nei confronti dei designer che violano i diritti, altri pensano che comunque, per quanto al di fuori della legge, contribuiscano a dare visibilità al marchio e ad aumentare la domanda. Con questi ultimi molte piattaforme hanno cominciato a stringere partnership proficue.

Una possibile soluzione a tutta la faccenda potrebbe essere offerta dall’industria musicale, che recentemente ha dovuto porsi questioni molto simili: con così tanti posti dove ascoltare la musica, come si possono continuare a proteggere i diritti degli autori? La risposta l’hanno data le agenzie come ASCAP, che per certi versi è simile all’italiana SIAE, che prendono in gestione la musica pagando chi la produce e la distribuiscono attraverso bar, negozi, radio e altri canali da cui ricevono una quota. In questo modo gli artisti si vedono corrisposta una somma di denaro calcolata sulla base del successo dei loro prodotti e allo stesso tempo gli utilizzatori non devono preoccuparsi troppo dei diritti della musica che stanno trasmettendo. Un esempio di questo modello sono anche Spotify e iTunes.

Per un’industria così grande e variegata come quella dei marchi non sarà facile, molti continueranno a voler mantenere un controllo diretto sulla propria immagine e, sempre per fare un paragone musicale, potrebbero rischiare di diventare come gli Eagles che ancora oggi passano in rassegna una per una tutte le cover dal vivo di Hotel California prima di approvarle.