L’acqua pubblica, otto anni dopo

È ancora in discussione alla Camera la proposta di legge del Movimento 5 Stelle che punta a cambiare il sistema

di Michele Pergola

(ANSA/CLAUDIO PERI)
(ANSA/CLAUDIO PERI)

Da più di un anno è bloccata in Commissione Ambiente alla Camera dei Deputati una proposta di legge del Movimento 5 Stelle per riformare il sistema di gestione dell’acqua e per estromettere completamente i privati dai servizi idrici – come per esempio la riparazione dei tubi, la manutenzione delle fogne e la riscossione della tariffa di consumo.

La legge servirebbe per ottenere quel cambio radicale del sistema di gestione dell’acqua che secondo il M5S non fu ottenuto con il referendum del 2011. Chi propose e sostenne quel referendum voleva passare a una gestione completamente pubblica dell’acqua, in grado di portare secondo i promotori a tariffe più eque e all’azzeramento dei profitti su un bene considerato fondamentale.

Nonostante la grande attenzione che ottenne il referendum, e nonostante la grandissima maggioranza con cui furono approvate le proposte, i cambiamenti introdotti furono molto limitati. Oggi i privati sono ancora presenti nella gestione dei servizi idrici, le tariffe sono di fatto aumentate e in molti casi non ci sono stati miglioramenti dei servizi offerti, mentre i gestori – che nella stragrande maggioranza sono pubblici – continuano a produrre profitti e distribuire dividendi.

D’altronde, come era già stato spiegato ai tempi del referendum, in realtà l’acqua era già un bene comune non alienabile, non vendibile né privatizzabile: lo era prima del referendum e lo è rimasta anche dopo, in seguito a quanto stabilito dagli articoli 822 e 823 del Codice Civile e ribadito dall’art. 144 del decreto legislativo 152/06. Lo stesso vale per gli acquedotti: erano pubblici e rimangono pubblici.

Come si arrivò al referendum
A partire dal 1994, in Italia il sistema del servizio idrico è stato progressivamente orientato verso un funzionamento di mercato, attraverso la netta divisione tra il bene dell’acqua vero e proprio da un lato, e la gestione delle infrastrutture che ne permettono la diffusione dall’altro.

In pratica, mentre l’acqua è sempre rimasta un bene demaniale – quindi è sempre rimasta pubblica –, la sua distribuzione è stata affidata a società di gestione scelte dai comuni. Queste società avrebbero potuto anche essere totalmente pubbliche ma andavano nominalmente separate dagli enti istituzionali, con l’obiettivo di aprire il settore alla concorrenza di società private.

Nel 2008 il governo Berlusconi decise però di rendere obbligatorio il passaggio a un gestore privato, o misto pubblico-privato, salvo poche eccezioni. Se già nel 2007 si era arrivati a una proposta di legge di iniziativa popolare contro la privatizzazione dei servizi, poi finita in nulla, la riforma di Berlusconi portò alla mobilitazione per un referendum abrogativo, che sintetizzasse le diverse campagne sull’acqua “bene comune”.

Cosa diceva il referendum
I due quesiti del 2011 si concentrarono sul tema dei gestori e su quello della tariffa. Con il primo si votò per abrogare la norma introdotta da Berlusconi: in questo caso, a fronte di una campagna nominalmente contro la privatizzazione dell’acqua, si tornava semplicemente allo status quo precedente, in cui i comuni potevano affidarsi ai gestori privati, o a quelli misti, o a quelli in house, cioè pubblici, partecipati solo dai comuni stessi.

Col secondo quesito si abrogò invece un inciso all’interno di un articolo di una legge del 2006 che stabiliva la remunerazione del capitale del gestore.

Le tariffe per la fornitura dell’acqua, anche quando questa è erogata da un gestore privato, sono sempre state definite da schemi di calcolo fissati da leggi o dall’Autorità di regolazione competente. Fino al referendum, nello schema era inclusa una componente fissa che stabiliva una quota di rendimento dei capitali investiti dal gestore, che poteva perciò essere intesa come profitto. Questo sia per coprire gli effettivi costi relativi agli interessi sui capitali ottenuti dai prestiti, sia per favorire la partecipazione dei privati in questo settore, garantendo un ritorno sugli investimenti fatti.

Per i comitati referendari però il profitto sulla vendita dell’acqua era il tema fondamentale e discriminante: abolire il margine di profitto doveva equivalere a togliere dal mercato il settore dell’acqua.

I due punti del referendum furono approvati, ma le conseguenze furono minori di quelle auspicate. La collocazione dei servizi idrici nell’economia di mercato dipende tuttora da un quadro normativo molto più esteso, che non è stato eliminato abrogando una norma sui profitti. Non solo, la stessa possibilità di profitto si è riaffermata negli anni seguenti, tramite i nuovi metodi tariffari e le sentenze contro i ricorsi dei consumatori.

Situazione in Italia
In Italia la gestione dei servizi idrici, come detto, è possibile tramite un gestore pubblico, pubblico/privato o privato. Da questo punto di vista, solo circa il 2% della popolazione è servito da gestori totalmente privati, e circa il 5% da gestori misti a maggioranza privata.

Oltre l’80% è invece servito da un gestore totalmente pubblico, secondo il modello detto “in house”, oppure da uno a proprietà mista pubblico-privato con maggioranza pubblica (un ulteriore 12% rimane sotto la gestione diretta dei Comuni inadempienti rispetto all’obbligo di conferire il servizio a un gestore).

Come si fanno le tariffe?
L’ARERA, Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente, è un’Autorità amministrativa indipendente che si occupa di svolgere funzioni di controllo e regolamentazione dei mercati dei servizi energetici e dell’acqua. Ha la responsabilità ad esempio di determinare il sistema di calcolo della tariffa che le società di gestione dell’acqua dovranno utilizzare, chiamato Metodo Tariffario. 

Bisogna tenere presente però che il metodo tariffario, avendo comunque l’obiettivo di regolare un servizio pubblico, funziona non solo per stabilire il costo per l’utente, ma anche per fissare i ricavi massimi per i gestori. Per impedire che i gestori sfruttino la natura monopolistica del settore dell’acqua, la tariffa è legata ai costi e agli investimenti. In questo modo i gestori sono incentivati a investire e rendere sempre più efficiente il servizio.

L’ambito dell’acqua è insomma un servizio complesso, che da un lato è considerato servizio pubblico perché di interesse generale, tenendo anche conto del fatto che l’acqua è un bene primario; dall’altro, per ragioni economiche e di efficienza, è possibile affidarne la gestione al mercato. È considerato tecnicamente un “servizio di rilevanza economica”, cioè un servizio pubblico che può essere fornito dietro pagamento e offrire quindi un margine di redditività.

Negli anni il concetto giuridico di “servizi locali di rilevanza economica” non ha mai ottenuto una precisa definizione legislativa, ma solo tramite giurisprudenza: comporta che il settore in questione vada regolato secondo principi di mercato.

Questo significa che quando stabilisce la tariffa, l’ARERA debba considerare i gestori come attori economici privati, guidati da principi di bilancio di tipo aziendale. Anche in base alle norme europee, bisogna quindi applicare il principio del “full cost recovery”, che prevede di includere in tariffa tutti i costi affrontati dal gestore.

Per esempio, un’azienda dovrà usare i ricavi delle vendite (in questo caso con le bollette dell’acqua) per coprire i costi del personale, i costi dei lavori di manutenzione, le proprie forniture, eccetera. Un costo particolare è quello del denaro preso a prestito per effettuare grandi investimenti. Come per ogni mutuo, oltre a stanziare i soldi da restituire, bisogna tener conto degli interessi da pagare.

Con un sentenza del 2017, il Consiglio di Stato ha infatti sancito la legittimità del nuovo metodo tariffario, che calcolava nella componente degli oneri finanziari il costo del capitale.

A essere legittimi, però, non sono solo gli interessi da pagare sull’indebitamento, ma anche i costi opportunità. In pratica l’investimento, anche quando fatto con soldi propri, deve rendere un interesse, perché effettuato in regime di mercato. La logica di questo fatto è che tutti gli usi del denaro dovrebbero produrre un ritorno economico: se investo dei soldi su una certa opera, è perché mi aspetto che produca miglioramento dell’efficienza del servizio, dei risparmi sui costi, quindi dei margini di guadagno. Inoltre i tassi di interesse che si trovano nei mercati finanziari danno un riferimento di quanto ci si potrebbe aspettare di guadagnare dalle proprie risorse economiche.

Prima del referendum, una componente della tariffa era un tasso di interesse fisso di remunerazione del capitale. Con la vittoria del referendum si è abolita la misura “fissa” della remunerazione del capitale, ma non la remunerazione stessa, come abbiamo visto, perché questa è obbligatoria per via della natura del servizio e del principio del “full cost recovery”.

Invece che esserci una percentuale stabilita per legge, ora ARERA ricalcola periodicamente un tasso di “oneri finanziari” sulla base dell’andamento dei mercati finanziari. Le componenti tariffarie relative agli oneri dovrebbero favorire gli investimenti necessari al miglioramento del servizio, permettendo la creazione di margini di utile (specialmente nel caso in cui il tasso di interesse reale pagato dal gestore sui propri mutui sia inferiore a quanto stimato dal metodo di ARERA).

La proposta di legge del Movimento 5 Stelle
È tuttora un tema dibattuto l’efficacia del modello di gestione attuale. I dati complessivi (Istat, Ref Ricerche) indicano un generale aumento dei costi delle tariffe e uno scarso miglioramento infrastrutturale, segnato soprattutto dal livello ancora alto delle perdite di acqua.

D’altra parte rimangono differenze molto forti tra diverse aree del paese, in particolare tra Sud e Nord, dove in alcuni casi le tariffe sono addirittura in calo, e sono più visibili i miglioramenti infrastrutturali.

Il disegno di legge della deputata Federica Daga del M5S prevede di cambiare il sistema attuale sottraendo per legge il servizio idrico al mercato. La proposta affronta direttamente il problema della qualificazione del settore idrico come un servizio a rilevanza economica, definendolo invece come un “servizio pubblico locale di interesse generale non economico”. Stabilisce inoltre di affidare le gestione dell’acqua direttamente ai Comuni, oppure ad aziende speciali, oppure ad altri enti di diritto pubblico: per farlo impone di interrompere le concessioni in essere, liquidare gli azionisti privati, e trasformare la natura di tutte le società, attualmente di diritto privato, in enti di diritto pubblico.

I gestori totalmente privati e quelli misti sparirebbero, e quelli in house cambierebbero forma e principi di gestione.

Allo stesso tempo, la proposta prevede cambi anche sulle tariffe. Per finanziare gli investimenti e la manutenzione delle reti, che rappresentano il costo principale per questo tipo di aziende, verrebbe creato un apposito fondo statale con risorse della fiscalità generale, mentre le bollette dovrebbero coprire per lo più i soli costi di gestione e solo una parte, non specificata, degli ammortamenti per gli investimenti.

Il risultato auspicato consisterebbe in bollette più economiche e soprattutto nell’eliminare la connessione tra investimenti e mercato, che secondo i promotori della legge generava la diversione dei soldi dal circolo del servizio idrico verso i patrimoni degli azionisti.

Le critiche a questo progetto sono state fatte sostanzialmente su due aspetti: quello dell’efficienza del nuovo sistema e quello del costo finale della riforma.

Per quanto riguarda il primo, si torna in pratica al dibattito sui pro e contro della gestione statale: da un punto di vista liberale, affidare allo stato il potere decisionale ed economico sullo sviluppo delle infrastrutture non garantirebbe né scelte efficienti, né continuità delle risorse a disposizione. Altri dubbi riguardano gli effetti sui gestori locali, su come cambierebbero le competenze, il livello di know-how, la capacità di intervento.

I costi della riforma sono invece un problema tecnico su cui si scontrano analisi molto divergenti. Due diverse indagini, condotte da istituti di ricerca su richiesta dell’associazione dei gestori, Utilitalia, ritengono che sarebbero necessari circa 15 miliardi di euro per la liquidazione delle quote azionarie dei privati, gli indennizzi e i rimborsi anticipati dei finanziamenti ottenuti in precedenza sui mercati. Bisognerebbe poi considerare l’impatto sul bilancio statale della nuova voce di spesa, stimata in circa 5 o 6 miliardi di euro, che potrebbe influire su deficit e debito pubblico.

Il Forum italiano dei movimenti per l’acqua ha contestato questi numeri con un proprio dossier, in cui applica una logica di calcolo molto diversa in merito a quali voci di spesa vadano effettivamente prese in considerazione.

Il risultato è che il costo una tantum per applicare la riforma si risolverebbe in un miliardo e mezzo di euro. Il ddl Daga non offre un calcolo dei costi della riforma, ma prevede di ottenere risorse sottraendo un miliardo all’anno agli accantonamenti del ministero della Difesa, recuperando 2 miliardi dalla lotta all’evasione fiscale e infine attraverso diverse nuove imposte minori.

Questo e gli altri articoli della sezione Milano e l’acqua sono un progetto del corso di giornalismo 2019 del Post alla scuola Belleville, pensato e completato dagli studenti del corso.