Morte di uno stilista

La critica del New York Times racconta Josephus Thimister, che si è ucciso pochi giorni fa: «una vittima del momento di passaggio» attraversato dalla moda

Josephus Thimister alla sfilata di haute couture, 24 gennaio 2010
(AP Photo/Thibault Camus)
Josephus Thimister alla sfilata di haute couture, 24 gennaio 2010 (AP Photo/Thibault Camus)

Il 13 novembre scorso è morto suicida lo stilista olandese Josephus Melchior Thimister: aveva 57 anni e negli anni Novanta, all’apice della sua carriera, venne a lungo considerato tra i più interessanti e promettenti del momento. Lo stilista e artista Ralph Rucci lo definì «il più grande della sua generazione», nel 2001 la direttrice di Vogue America Anna Wintour lo mise tra le «star della moda del XXI secolo», fu a capo dell’azienda spagnola di lusso Balenciaga per cinque anni e poi fondò un suo marchio, THIMISTER; eppure pochi si sono ricordati di lui alla notizia della morte. Tra loro c’è Vanessa Friedman, l’esperta di moda del New York Times, che ha scritto un ritratto per ricordarlo e ha cercato di inquadrare la sua storia in uno scenario più ampio, quello dei radicali cambiamenti nel mondo della moda degli ultimi anni: «fu anche una vittima della transizione della moda da incubatoio creativo di individualità a industria globale».

Thimister era nato a Maastricht, nei Paesi Bassi, nel 1962; dopo aver frequentato l’Accademia reale di belle arti di Anversa, lavorò come assistente di Karl Lagerfeld e per l’azienda francese Patou. Nel 1991, a 30 anni, divenne direttore creativo di Balenciaga; la sua prima sfilata di haute couture, completamente in bianco e nero, viene descritta spesso come il momento in cui l’azienda riprese a occuparsi di alta moda: «è per lui che tornammo a interessarci a Balenciaga», ha ricordato per esempio Julie Gilhart, allora responsabile della moda per Barneys New York, la famosa catena di grandi magazzini di lusso.

Nel 1997 Thimister lasciò l’azienda – il suo posto venne preso da Nicolas Ghesquière – per fondare il suo omonimo marchio. Faticò a far quadrare i conti e lo chiuse nel 2004; nel 2005 divenne il direttore artistico dell’azienda di scarpe Charles Jourdan, dove rimase per due anni; nel 2010 ritornò alla Settimana della moda di Parigi con una sfilata di alta moda chiamata “1915: Blood and Opulence”, una mescolanza di cappotti ispirati a quelli degli ufficiali russi, giacche militari dagli interni rosso sangue e seta e raso, un tentativo di rispondere «ai problemi di oggi che sono la conclusione di quel periodo», disse riferendosi alla Prima guerra mondiale. La collezione piacque molto e lo convinse a disegnare, l’anno successo, un nuovo marchio di ready-to-wear, che però non spiccò mai e chiuse nel 2013. Da allora lavorò come interior designer, consulente del marchio italiano Pucci e insegnando alla scuola d’arte La Cambre di Bruxelles e all’istituto francese della moda a Parigi.

Friedman scoprì il suo lavoro nel 1997 o nel 1998, probabilmente alla sua prima Settimana della moda di Parigi, e rimase subito colpita da un abito che divenne il primo pezzo di moda che comprò: Thimister, scrive, era «un talento in grado di restare in equilibrio sul filo del rasoio tra poesia e un’intensità un po’ grunge». Ha fatto parte, spiega sempre Friedman, dell’ultima schiera di stilisti maturati tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, quelli che ancora credevano nella creatività e nell’ispirazione prima di scoprire «che nel XXI secolo il successo era stabilito dal marketing e dal flusso costante di prodotti», quando «la parola chiave non era più la visione ma la dichiarazione di visione».

Secondo Friedman le altre vittime di questo passaggio sono Alexander McQueen, stilista britannico a capo di Givenchy morto anche lui suicida, a 40 anni, nel 2010; il francese Christophe Decarnin, che nel 2006 divenne direttore creativo di Balmain facendola notare in tutto il mondo prima di venirne licenziato nel 2011 per un esaurimento nervoso; il britannico John Galliano, che nel 2011 venne licenziato da Dior quando sbroccò in una sfilza di insulti antisemiti, che lui attribuì alla dipendenza da droga e alcol e allo stress dovuto al lavoro. Galliano è l’unico che si è ripreso, con una nuova carriera nell’azienda francese Maison Margiela.

La storia di questi stilisti è sempre la stessa: ci si fa strada finendo per dirigere una grossa azienda di moda, si crea un proprio marchio, si lotta per far quadrare i conti con ruoli secondari in un marchio più ingessato e meno interessante, arrivano i problemi finanziari, si chiude, si ritorna, si chiude di nuovo. Secondo Friedman non è un caso ma un segnale: «se continuiamo a non fare attenzione a queste storie, siamo destinati a ripeterle».

Thimister viveva in un appartamento tutto in bianco e nero con un orso polare e un elefante impagliati; si trovava vicino agli Invalides, nel centro di Parigi, ed era appartenuto un tempo a Hubert de Givenchy, o perlomeno così raccontava. Il suo primo partner commerciale, Sebastian Suhl, lo ricorda come incline alla depressione e ai cambi d’umore, «esasperatamente testardo ed egocentrico, ma straordinariamente sensibile, gentile, generoso». «Possedeva, in altre parole, molte delle qualità un tempo associate all’idea di stilista: drammaticità, esasperazione, eccentricità, gusto per l’eccesso, tutte cose per cui si chiudeva un occhio nel nome dell’arte, anzi era quello che ci si aspettava e che piaceva in un artista», scrive Friedman. Negli anni segnati dall’attentato alle Torri Gemelle, dalla crisi economica globale, dall’ascesa della Cina e di internet che hanno cambiato le regole del gioco, non c’è più posto per queste indulgenze. «Sarebbe rassicurante pensare che il talento conquista ogni cosa, ma pensarlo sarebbe solo una bella favola», sostiene Friedman: il lavoro dello stilista e il mondo della moda sono cambiati e «non c’è stato spazio per la transizione, o per la disarmonia che è venuta poi. Tra ieri e oggi si è aperta una voragine e molti stilisti, tra cui Thimister, ci sono caduti dentro. Il paradosso è che i vestiti che ha creato hanno una bellezza senza tempo».

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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.