Da dove arrivano i gamberi che mangiamo

Sono un prodotto sempre più richiesto, pescato e allevato in grandissime quantità, e indovinate: dovremmo consumarne meno

Gamberi in un mercato di Mahachai, Thailandia. (AP Photo/Gemunu Amarasinghe, File)
Gamberi in un mercato di Mahachai, Thailandia. (AP Photo/Gemunu Amarasinghe, File)

La domanda internazionale di gamberi è cresciuta nettamente negli ultimi anni, e si stima che oggi rappresenti circa il 20 per cento del mercato ittico internazionale. Secondo la Commissione Europea il consumo di gamberi in Europa è di 1,56 chili a testa all’anno, in aumento del 4 per cento negli ultimi cinque anni. Le catture mondiali di gamberi sono aumentate del 14 per cento tra il 2007 e il 2016, ma si stima che nel 60 per cento dei casi i gamberi che si mangiano nel mondo provengano da acquacolture, una percentuale che sale fino all’82 per cento nel caso dei gamberi tropicali. L’allevamento mondiale dei gamberi ha aumentato la produzione di quasi il 60 per cento negli ultimi dieci anni, periodo nel quale i prezzi sono stati perlopiù stabili e relativamente bassi. Questa crescita repentina però ha fatto venir fuori diverse criticità, e oggi molti esperti avvertono che l’attuale domanda mondiale di gamberi non è sostenibile.

Parlando di gamberi, normalmente, si intendono varie specie di crostacei acquatici: dal gambero rosa alla mazzancolla al gambero rosso, pescati comunemente nel Mediterraneo, al gambero argentino, tra le specie più importate in Europa, al gambero tigre e al gambero bianco americano, tra quelli più comunemente allevati nel mondo. L’Italia è tra i paesi europei che pescano più gamberi – ma si parla di briciole: circa l’1 per cento delle catture mondiali arriva dall’Europa – ed è anche tra i principali importatori: al terzo posto, dopo Spagna e Francia, con circa 64mila tonnellate annue secondo Altroconsumo.

I principali paesi dai quali arrivano i gamberi importati in Europa sono Ecuador, Argentina, India e Vietnam. Per quanto riguarda il mercato globale, i paesi che pescano più gamberi sono Cina, India e Indonesia, che rappresentano circa il 62 per cento delle catture mondiali, seguiti dall’Argentina, che ha aumentato la produzione di circa il 275 per cento negli ultimi dieci anni. Per quanto riguarda l’acquacoltura, i maggiori produttori mondiali sono Cina, Indonesia e Vietnam, che hanno aumentato la produzione rispettivamente del 59 per cento, del 93 per cento e del 68 per cento negli ultimi dieci anni.

Ad avere dei problemi è sia la pesca dei gamberi, sia l’allevamento. Il problema della prima non sta tanto nello sfruttamento delle risorse: esistono alcune specie di gamberi minacciate dalla pesca, ma in generale i gamberi si riproducono come pazzi e a quanto sappiamo non li stiamo facendo estinguere. Ma ci sono diversi problemi che riguardano il loro habitat: il principale è legato alla tecnica usata dalla larghissima maggioranza delle barche che pescano gamberi, e cioè la pesca a strascico. Come suggerisce il nome, si pratica facendo scorrere sul fondale marino, a profondità di decine e decine di metri, una rete di forma conica. Da tempo viene considerata una delle tecniche di pesca industriale con il maggiore impatto ambientale, perché distrugge e asporta la gran parte degli organismi – coralli, alghe, molluschi, pesci, crostacei – che incontra.

La pesca a strascico, poi, è una delle tecniche che comportano le maggiori catture accidentali, cioè di specie diverse da quelle che si vogliono pescare. Spesso queste catture superano fino a dieci volte il peso delle catture intenzionali, e riguardano anche specie a rischio. Nei mari tropicali, per esempio, una delle specie più minacciate dalla pesca di gamberi è la tartaruga marina, che se rimane impigliata in una rete muore soffocata. Da circa vent’anni, per questo, si sono diffusi dei sistemi appositi chiamati “turtle excluder device” (TED), progettati per permettere alle tartarughe di sfuggire alle reti: consistono in strutture fatte di sbarre distanti una decina di centimetri, che lasciano passare quello che è più piccolo ma trattengono le cose più grandi, tra cui le tartarughe. In teoria sono obbligatori per tutti i paesi che esportano gamberi negli Stati Uniti, anche se in pratica questo obbligo è di frequente disatteso.

Gamberi appena pescati su un peschereccio in Louisiana. (Mario Tama/Getty Images)

Per quanto riguarda l’acquacoltura, invece, i problemi riguardano il fatto che i gamberi sono allevati spesso in paesi con scarsi standard, sia per quanto riguarda la sicurezza del cibo sia le condizioni dei lavoratori. In molti paesi l’espansione delle acquacolture di gamberi ha comportato una rapida distruzione delle foreste di mangrovie, tra gli habitat più fragili al mondo e peraltro tra quelle più efficaci per quanto riguarda l’assorbimento di anidride carbonica. Si stima che dal 1980 si sia perso il 20 per cento delle foreste di mangrovie mondiali, circa metà delle quali a causa dell’acquacoltura: di questa parte, la maggior parte dipende dall’allevamento di gamberi. Recentemente alcuni governi del sud est asiatico hanno provato a risolvere il problema, imponendo qualche limite al disboscamento di mangrovie per l’acquacoltura.

Esiste poi, come in molti altri casi di allevamenti intensivi, il problema della facile diffusione di malattie, che spesso si trasmettono anche al di fuori degli allevamenti, e che sono spesso combattute con un esteso uso di antibiotici. L’industria di molti paesi si basa su piccoli allevamenti familiari – si stima che in Vietnam ce ne siano circa 100mila, per esempio – e per questo è molto difficile fare controlli efficaci, anche per quanto riguarda le sostanze inquinanti riversate nei fiumi. È un problema per esempio dell’area del delta del Mekong, tra quelle che producono più gamberi e tra le più inquinate del mondo, visto che il fiume ci arriva dopo aver attraversato Cina, Birmania, Thailandia, Laos e Cambogia, raccogliendo prodotti di scarico in ciascuno di questi paesi.

Un’acquacoltura di gamberi in allestimento nella provincia di Ben Tre, in Vietnam. (Linh Pham/Getty Images)

In altri paesi, specialmente in Thailandia, si è scoperto che la produzione di gamberi esportati in Occidente si basa su lavoro in condizioni di schiavitù: un’inchiesta del Guardian di alcuni anni fa rivelò che Charoen Pokphand Foods, il più grande produttore mondiale di gamberi d’allevamento, comprava i mangimi da fornitori che usavano barche da pesca il cui equipaggio era composto da schiavi costretti a turni da venti ore al giorno, picchiati, venduti come animali e soggetti addirittura a esecuzioni sommarie. Tra i clienti internazionali di Charoen Pokphand Foods c’erano Walmart, Carrefour, Tesco e Costco, tra le più grandi catene di supermercati al mondo.

L’inchiesta fece scoppiare un grande scandalo, l’Unione Europea minacciò la Thailandia di bloccare le importazioni di crostacei e Charoen Pokphand Foods avviò delle indagini per non comprare più da quei fornitori. Un rapporto di Human Rights Watch del 2018 aveva però denunciato che situazioni come quelle scoperte dal Guardian continuano a verificarsi in Thailandia e Cambogia.

Come per molte altre questioni sulla sostenibilità del cibo, le soluzioni dipendono soltanto in parte dall’impegno individuale. Spesso conoscere la provenienza dei gamberi che mangiamo è difficile, soprattutto al ristorante o in prodotti lavorati. Il consiglio che danno gli esperti di impatto ambientale del cibo è, come in molti altri casi, quello di mangiarne meno, e cercare di scegliere quelli che hanno un qualche tipo di certificazione di sostenibilità, anche se sono più costosi.