La storia italiana di “Game of Thrones”

Abbiamo parlato con Sky per capire come e quanto la serie ha cambiato la storia della televisione anche qui da noi

Un mese fa è finita Game of Thrones – forse ve ne è arrivata notizia – dopo 8 stagioni, 73 episodi e più di 4mila minuti complessivi che, nei quasi tremila giorni tra il primo e l’ultimo episodio, hanno lasciato un segno nella storia della televisione. Per il numero di persone che l’hanno vista, ma anche per l’influenza culturale e il modo in cui se ne è parlato, in un’era di binge-watching e visioni televisive asincrone, qualcuno si è chiesto se sarà “l’ultima serie che guarderemo tutti insieme“, per anni, settimana dopo settimana. Nell’attesa, ne abbiamo parlato con chi la serie l’ha mostrata in Italia.

In Italia ogni nuova stagione di Game of Thrones è sempre arrivata innanzitutto su Sky, ma non sempre sullo stesso canale. Le prime stagioni furono trasmesse da Sky Cinema e e solo le ultime da Sky Atlantic, il canale dedicato alle serie tv, diretto da Antonio Visca. Parlando del “Trono” – la chiama così, e in effetti non si è mai davvero capito se in Italia la serie sia più conosciuta come Game of Thrones o come Trono di Spade – Visca racconta che inizialmente andò in onda su Sky Cinema per via di una certa «qualità cinematografica» che permetteva alla serie di non sfigurare in quel contesto, ma anche perché, più semplicemente, Sky Atlantic ancora non esisteva.

Sky Cinema divenne il canale italiano di Game of Thrones in seguito a un accordo limitato: solo nel 2014 è arrivato quello che Visca chiama «volume deal», un esteso accordo di cooperazione su diversi contenuti sottoscritto tra HBO, il canale americano che ha prodotto la serie, e Sky Italia. Visca all’epoca non lavorava a Sky, ma spiega che nel 2011 ebbe «il piacere e l’onore di essere il primo a fare vedere la serie in Italia» perché dirigeva il Telefilm Festival, che mostrò in anteprima la prima puntata. «Io ero là», racconta, «e ti puoi immaginare l’effetto che poteva fare vedere la Barriera su uno schermo enorme».

I primi anni di Game of Thrones in Italia seguirono un percorso tradizionale e canonico, non molto diverso da quello che la serie avrebbe avuto se fosse arrivata negli anni Ottanta sulla Rai o nei Novanta su Mediaset: due episodi a settimana, doppiati in italiano, a parecchio tempo di distanza dalla trasmissione originale statunitense. Non c’è un vero motivo, ma per molti anni in Italia si è fatto così: due episodi alla volta, uno dopo l’altro, così da raggiungere una durata complessiva di trasmissione di più di un’ora e mezza, per occupare più o meno lo spazio di un film e non scombussolare troppo le radicate abitudini di chi si metteva davanti allo schermo. Per capirci, il primo episodio della serie – “Winter is coming” – andò in onda negli Stati Uniti per la prima volta il 17 aprile 2011; in Italia “L’inverno sta arrivando” fu trasmesso per la prima volta il 19 novembre 2011, subito prima del secondo episodio “La Strada del Re”. Gli spettatori americani videro la decapitazione di Ned Stark a metà giugno, gli italiani due settimane prima di Natale.

Negli anni Novanta, mandare in onda due episodi uno dopo l’altro mentre negli Stati Uniti ne usciva uno a settimana non era un problema, perché quegli episodi arrivavano in Italia con un ritardo di qualche settimana, a volte persino di qualche mese. Le cose cominciarono a cambiare quando le persone iniziarono a guardare le serie tv subito dopo la trasmissione statunitense e in lingua originale – scaricandole da Internet, illegalmente e spontaneamente: ma se avessero aspettato le tv… – e si organizzarono in gruppi e comunità sempre più efficienti e popolari per produrne i sottotitoli in italiano.


La crescente e vastissima diffusione di Internet e dei social network creò il contesto ideale per questo tipo di fruizione: esisteva di fatto un’unica grande conversazione globale sulla serie del momento, fatta di recensioni, meme, video laterali, articoli, teorie, eccetera, e trovarsi in Italia non proteggeva in alcun modo da spoiler e anticipazioni. Quando la prima stagione di Lost fu trasmessa per la prima volta in Italia, nel marzo del 2005, nove mesi dopo la prima trasmissione statunitense, gli appassionati italiani di serie tv l’avevano già vista. Col passare degli anni nacque insomma un nuovo pubblico, sempre più influente e numeroso: quelli che le serie volevano guardarle subito, e possibilmente in lingua originale.

Già dalla seconda stagione di Game of Thrones le cose migliorarono, per gli spettatori italiani. HBO mandò i suoi episodi in onda nelle dieci settimane tra l’1 aprile e il 3 giugno 2012. Sky Cinema partì l’11 maggio, con un ritardo di poco più di un mese, e trasmettendo gli episodi a coppie finì quasi in pari, l’8 giugno. Lo stesso accadde per la terza stagione, che sia lì che qui iniziò in primavera e finì prima dell’estate.

Nel 2014, con la quarta stagione, arrivò Sky Atlantic, il canale che già nel nome aveva un chiaro riferimento all’oceano oltre il quale intendeva guardare. Il lancio di Sky Atlantic avvenne il 9 aprile 2014 e Visca spiega che «la sera stessa del lancio andò in onda il primo episodio della quarta stagione del Trono», tre giorni dopo che l’episodio era andato in onda su HBO dall’altra parte dell’Atlantico. «L’attenzione intorno alla serie era cresciuta», spiega Visca usando un eufemismo: sempre più persone la guardavano e soprattutto sempre meno persone erano disposte ad aspettare molto tempo per vederla, rischiando spoiler di ogni tipo, scegliendo quindi in molti casi di guardarla in modo illegale.

Nel frattempo Game of Thrones era diventato il contenuto audiovisivo più piratato al mondo. Visca lo giudica «un brutto record ma anche un fatto che ci spinse a fare il passo successivo». Fu così che «dall’aprile 2015 si decise di mandare in onda la serie con il feed della costa orientale degli Stati Uniti», quella che guarda sull’Atlantico. Tradotto: trasmetterla in Italia contemporaneamente agli Stati Uniti.

Semplificando un po’, l’accordo tra HBO e Sky su Game of Thrones non obbligava Sky a far passare un certo lasso di tempo prima della messa in onda, ma nemmeno imponeva di mandare in onda gli episodi in contemporanea. «Non è esplicitamente previsto da parte del fornitore l’obbligo a fornire le puntate in contemporanea», spiega Visca: «Diciamo che normalmente c’era una clausola di best effort in cui il fornitore si impegnava a fare il meglio possibile per garantire la messa in onda ravvicinata, ma senza che questo significasse la contemporaneità». In altre parole, il ritardo tra Stati Uniti e Italia era dovuto a consuetudini – come quella dei due episodi per volta – e solo in misura minore a questioni tecnologiche.

Nell’autunno 2014, Sky Atlantic iniziò «un lungo processo di allineamento dei sistemi di sicurezza, di editing, di messa in onda, di lavorazione di file e di gestione di tutto il flusso dei materiali, per far sì che HBO potesse consegnare la puntata in anticipo rispetto agli Stati Uniti». HBO mandò qualcuno in Italia per fare un «processo di auditing», in seguito al quale Sky fu ritenuta abbastanza affidabile da poter ricevere gli episodi prima che HBO li mandasse in onda, così da poterli lavorare e rendere disponibili in perfetta contemporaneità. Si trattò perlopiù di questioni tecniche di cyber-security, ma non solo: Visca spiega per esempio che HBO pretese da Sky che le porte delle sue sale di editing, comunque non facilmente accessibili da chiunque, si potessero chiudere a chiave, così che se l’operatore si assentava, anche solo per andare in bagno, nessuno potesse entrare.

La quinta stagione, la seconda a essere mostrata su Sky Atlantic, fu quindi la prima a non prevedere alcun ritardo tra la prima visione americana e quella italiana. E come andò? Visca spiega che «ci sono tanti modi di leggere lo stesso dato» perché una serie può essere vista in diretta, in differita, in download, in italiano o in inglese, su un canale o su una piattaforma, in una tv o in uno smartphone. Sky Atlantic si concentra soprattutto su quattro parametri: gli spettatori che nelle prime 24 ore dalla sua disponibilità guardano un episodio in inglese o in italiano, e quelli che lo fanno nei successivi sette giorni, cioè prima dell’uscita del successivo.

Il parametro noto come Average Minute Rating, che misura quanti spettatori sono sintonizzati in media per minuto, dice che nella quinta stagione gli spettatori che videro la serie in italiano nel primo giorno e nei primi sette giorni furono di più di quelli che lo fecero con la versione in inglese. Ma non molti di più: 247mila contro 228mila per il primo giorno, e 479 mila contro 343mila nell’arco della prima settimana. Nella sesta stagione arrivò un primo sorpasso: gli spettatori che scelsero di guardare la serie in lingua originale nel primo giorno furono in media più di quelli che guardarono l’episodio in italiano (289mila contro 236mila). Ma fu solo un sorpasso parziale, perché nell’arco dei sette giorni – quindi nel periodo in cui la serie veniva vista da fan un po’ meno sfegatati – gli spettatori che guardarono la serie in italiano furono di più di quelli che la guardarono in inglese.

Nella settima stagione le cose cambiarono notevolmente: anche nei sette giorni ci fu un netto e definitivo sorpasso dell’inglese sull’italiano. Nell’ottava e ultima stagione gli spettatori che nelle prime 24 ore di disponibilità guardarono la serie in lingua originale furono 900mila, tre volte più di quelli che la guardarono in italiano. E anche a guardare il dato settimanale, gli spettatori della versione in inglese sono stati quasi il doppio di quelli in italiano (in media, un milione e 370mila contro 700mila).

Anche andando a vedere i dati dei singoli episodi, nella settima e nell’ottava stagione gli spettatori della versione originale sono sempre stati di più rispetto a quelli della versione doppiata. Nel caso del sesto e ultimo episodio dell’ottava stagione, più di un milione di spettatori ha guardato la versione originale nelle prime 24 ore della sua disponibilità.

Visca non entra troppo nei dettagli riguardo a quello che succedeva quando un episodio di Game of Thrones partiva da HBO e arrivava a Sky, ma spiega che ogni volta c’erano due file principali: il primo, in bassa risoluzione, arrivava qualche giorno prima rispetto alla messa in onda; il secondo, in alta definizione, arrivava a poche ore dalla messa in onda, giusto in tempo per essere preparato a essere trasmesso e, subito dopo, reso disponibile su SkyGo e NowTV. Il file in alta definizione veniva insomma solo ricevuto, controllato e sistemato con i sottotitoli in italiano; il grosso del lavoro si faceva sull’altro file, quello in bassa risoluzione, per ragioni di sicurezza.

I file in bassa risoluzione erano davvero «di bassissima qualità», spiega Visca: in bianco e nero, e con un evidente watermark. Erano però fondamentali per iniziare a lavorare sull’adattamento in italiano: prima quello per i sottotitoli e poi quello per il doppiaggio (due traduzioni diverse, perché in un caso ci sono limiti di spazio sullo schermo e nell’altro i movimenti delle labbra da rispettare). Tradurre i dialoghi dalla sola sceneggiatura è infatti «complicato e rischioso», dice Visca, perché aumenta la possibilità di errori e malintesi. Visca spiega che il lavoro sui file in bassa risoluzione era sempre un «processo non standardizzato» e «per definizione un processo di emergenza, non una scienza esatta». A volte erano 20 giorni, altre – soprattutto nel caso dell’ultima stagione – erano solo 10.

In ogni caso, la procedura era questa: Sky riceveva il file da HBO, lo controllava e lo girava allo studio di doppiaggio di Roma che ha curato la versione italiana di tutte le otto stagioni di Game of Thrones, e che nel 2014 fu sottoposto a un «processo di verifica» simile a quello a cui fu sottoposta Sky Italia. Non è stato facile lavorare al doppiaggio di Game of Thrones, perché è una serie molto parlata, con tante battute, e soprattutto con alcuni episodi in cui a dire almeno una battuta erano decine di personaggi diversi. Visca ricorda in particolare le difficoltà della settima stagione, andata in onda nel 2017 tra luglio e agosto: bisognava garantire in anticipo la disponibilità di tutti i doppiatori, perché non si poteva mica cambiare voce a un personaggio solo perché la sua voce italiana era in spiaggia sotto l’ombrellone.

Alla fine di tutto, prima della messa in onda delle due versioni – originale e in italiano – c’era quello che Visca definisce «ultimo controllo editoriale» da parte di Sky. Il controllo più complicato era quello sulla versione italiana, che però veniva fatto quando alcune centinaia di migliaia di spettatori già avevano avuto modo di vederlo in inglese. Il controllo sul file in inglese, praticamente già pronto così com’era, era più semplice ma più rischioso: bisognava lavorare su qualcosa che praticamente nessuno aveva già potuto vedere. In quel caso c’era qualcuno – Visca non spiega chi, quando, come e dove – che, probabilmente chiuso a chiave in una stanza di Sky Atlantic, per lavoro guardava l’episodio prima di tutti per controllare che tutto fosse in ordine. Poi tornava a casa, e non poteva parlarne con nessuno.