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  • Martedì 11 giugno 2019

La maledizione dei classici

Alicia Giménez-Bartlett immagina le insofferenze di una sedicenne per il latino in un racconto inedito che presenterà stasera al Festival di Massenzio a Roma

di Alicia Giménez-Bartlett

Dettaglio di un bassorilievo sull'Arco di Costantino a Roma (Hulton Archive/Getty Images)
Dettaglio di un bassorilievo sull'Arco di Costantino a Roma (Hulton Archive/Getty Images)

Alicia Giménez-Bartlett, scrittrice di grande successo internazionale i cui libri sono pubblicati in Italia da Sellerio, interverrà martedì al Festival di Massenzio a Roma per leggere un suo racconto inedito dedicato spiritosamente ai classici greci e latini, di cui è protagonista Aurelia, sedici anni: la serata ospiterà anche le letture di Antonio Manzini, Scott Spencer e Roberto Alajmo e la musica di Carlo Boccadoro. Le informazioni per partecipare sono qui, quella che segue è la prima parte del racconto.

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Odio i classici. Sono un orrore, un incubo. Tanto per cominciare, chi sono i classici? Ho sempre pensato che fossero gli scrittori, i filosofi e gli artisti vissuti in Grecia e a Roma tantissimi anni fa. E invece no, un pomeriggio ho scoperto che sono classici anche autori come Dante, Balzac, Kant e pittori come Velázquez e Michelangelo. Un mucchio di gente vissuta molto tempo dopo i classici veri, quelli con la toga, la barba e i sandali di cuoio. Come la mettiamo? Quello che non è classico, non dovrebbe essere moderno? Sembra di no. È classico tutto quello che è successo nella cultura un bel po’ di tempo fa e funziona ancora adesso come una specie di guida, per indicarci la strada giusta. Ma poi non capisco neanche questo. A quanto ho letto nei libri, gli autori moderni di ogni epoca fanno di tutto per non assomigliare ai classici, per ribellarsi alle regole, per superarli. Senza contare poi i significati più frivoli della parola. L’altro giorno, per esempio, la mia amica Mónica mi diceva che il vestito che le ha regalato sua zia non le piace, perché è troppo classico. Che gran casino. Tutto è classico oppure niente è classico e non si capisce nemmeno se il fatto che una cosa sia classica sia un bene o un male.

Mi chiamo Aurelia. Ho sedici anni e faccio la terza liceo. Mio padre insegna Matematica all’università e mia madre… mia madre insegna Lettere classiche, quelle vere, quelle dei greci e dei romani. Certo, direte voi, avere una madre che insegna i classici è già una tragedia di per sé, un motivo sufficiente per detestarli. Una madre può farti detestare qualsiasi cosa, e mica lo fa apposta. Le madri sono già parecchio pesanti PER SE (come direbbe la mia). Se poi sono professoresse, la pesantezza aumenta in misura esponenziale, e se la materia di cui si occupano sono i classici, allora noi figli siamo costretti a vivere sotto un enorme macigno che non ci lascia nemmeno respirare.

Sto esagerando? Magari. Sono stata allevata a forza di sentenze latine, e… Ma forse è meglio che vi faccia un esempio reale perché possiate avere un’idea del problema. Situazione: mia madre fa una torta di compleanno per mio padre. Luogo: la cucina di casa nostra. Io seduta, lei in piedi che legge la lista degli ingredienti di una vecchia ricetta scritta su un foglio. Ecco le sue precise parole:

«Questa torta la faccio IN MEMORIAM di tua nonna. Le veniva buonissima, me lo ricordo come fosse oggi. Tu sai che nel mio CURRICULUM VITAE l’arte della preparazione dolciaria non figura tra le mie prerogative, ma come EXTREMA RATIO ci toccherà mangiarcela lo stesso, anche se non sarà perfetta. Potevo passare in pasticceria, ma preferisco farla EX PROFESSO, visto che è il genetliaco del PATER FAMILIAS. Vedrai, sarà un DELIRIUM TREMENS di cioccolato. Comunque, ALEA IACTA EST, la metto in forno e vediamo cosa succede. Nel frattempo aiutami a risistemare il MARE MAGNUM che c’è qui in cucina».

Allora, esageravo? Chi avrebbe voglia di mangiarsi un simile impasto? È come se mia madre parlasse continuamente con un vecchio prontuario di sentenze latine tra le mani. Ma non pensiate che io abbia pescato l’esempio da un giorno particolarmente ispirato, macché, lei funziona così in ogni momento della vita. Dice: «A PRIORI, non ho niente in contrario che tu vada a quella festa. Ma deciderò A POSTERIORI, quando saprò che voti hai preso». Quando non riordino la mia stanza prima di uscire mi sembra di sentire la cantilena: «Non ti sognare di andartene lasciando tutto sottosopra. Te l’ho già ripetuto AD NAUSEAM».

Insopportabile! E dire che finora ho riportato solo espressioni isolate, perché i classici ogni tanto lei li cita con tutta la frase completa. Quando ha le prove d’esame degli studenti da correggere si siede al tavolo del soggiorno, fa un bel sospiro rassegnato e mormora: «ARS LONGA, VITA BREVIS». Se capita che io passi di lì, traduce perfino: «Le cose da fare sono tante, la vita è breve», e poi aggiunge: «L’ha detto Ippocrate».

Una sera che cenavamo tranquilli, e mio padre, povero, ha pensato di servirsi un’altra fetta di arrosto, mia madre ha tuonato: «COPIA CIBORUM SUBTILITAS IMPEDITUR». Per noi quella era una novità, e perciò quando ha visto che la fissavamo con due occhi così per la sorpresa, si è degnata di scandire lenta e solenne: «L’eccesso di cibo ottunde l’intelligenza». Mio padre ha replicato allegramente con il classico: «MENS SANA IN CORPORE SANO», che non c’entrava un tubo, ma se l’è cavata. Ha continuato a mangiare come un bue.

Nessuno si salva dal furore greco-latino di mia madre. Il colmo dei colmi è che perfino il gatto, che ovviamente si chiama Virgilio, riceve la sua parte di sentenze latine. Mi ricordo di una volta in cui mia madre era nervosa. Aveva avuto una giornata piena di non so che impegni, casini, contrattempi…. fatto sta che si è seduta in poltrona, con una tazza di tè e qualche dolcetto per rilassarsi. Mio padre l’ha chiamata dalla cucina e si è alzata per rispondergli. Al suo ritorno, il bravo Virgilio si stava già sbafando i suoi dolci. Ebbene, invece di cacciare un urlo o di lanciargli una ciabatta per distoglierlo dalla sua malefatta, che sarebbe stata la cosa più normale del mondo, ha guardato tristemente il felino dicendo: «TU QUOQUE, BRUTE, FILI MI?». Chiaro che Virgilio non ci ha capito un cavolo, e nemmeno io, ma ho preferito non chiederle niente, perché nervosa com’era, magari la ciabattata la rifilava a me e non al gatto.

Qualche anno fa il governo spagnolo, non so esattamente quale, e per essere più precisi il ministero dell’istruzione, ha emanato un decreto che aboliva l’insegnamento delle lingue classiche nei licei. Tutti i giornali e le televisioni hanno commentato la notizia. Tutti gli studenti del paese hanno applaudito con entusiasmo. Io per prima, figuratevi, le mie grida di vittoria e i miei canti di gioia facevano tremare il soffitto. Ma quando sono arrivata a casa quel pomeriggio ho trovato una scena drammatica. Mia madre piangeva, mio padre cercava di consolarla. Piangeva sul serio, lacrime vere, e non perché quella disposizione ministeriale mettesse a rischio il suo lavoro, lei insegna all’università. No, la sua disperazione nasceva dal convincimento che i ragazzi avrebbero perso un mucchio di cose importanti nella vita, per colpa di quel decreto. Avrebbero perso la saggezza dei classici, la loro capacità di riflessione, la loro profondità. Avrebbero perso i loro consigli, chiari e sicuri, basati sull’esperienza, sull’umiltà e il buon senso. Avrebbero perso l’arte di pensare, di governare, di fare politica. Avrebbero detto addio all’incredibile divertimento offerto dalla mitologia, piena di dèi, semidei e uomini alle prese con avventure galanti, metamorfosi favolose, orribili vendette, amori spettacolari con rapimenti in groppa a tori selvaggi. Avrebbero dimenticato le lezioni di storia che ci vengono da Atene e da Roma, le congiure, la lealtà, la POLIS democratica, i trattati, le legioni vittoriose, le conquiste e la decadenza, le battaglie, non solo quelle combattute con le armi ma anche quelle della parola, i tribuni, i senatori e gli imperatori pazzi… Mia madre piangeva con tutta l’anima. Mio padre, come dicevo, cercava di consolarla, ma stranamente non faceva nulla per ridimensionare la gravità di quel provvedimento. Anzi, aggiungeva argomenti, dal suo punto di vista professionale, per confermare che non studiare più i classici sarebbe stata una cosa tremenda. Mi pare ancora di sentirlo: «La lingua latina ha una costruzione logica importantissima. I criteri che si apprendono studiandola strutturano il cervello in modo tale che la conoscenza della matematica diventa più accessibile, più immediata». Invece di aiutare mia madre a riprendersi dal suo dispiacere, quelle parole la sprofondavano ancora di più nello sconforto: «Talete di Mileto!» esclamava fra i singhiozzi.

Mio padre è un santo. Anche se non l’ho ancora detto esplicitamente, lo si deduce da quello che racconto. Lui e mia madre vanno d’accordo, si vogliono bene e tutto quanto. Lui è simpatico, sempre distratto, ha un gran senso dell’umorismo, e non prende le cose tragicamente come lei. In realtà non so che cosa pensa dello smisurato amore di mia madre per i classici. Le dà corda, la prende un po’ in giro. Preferisce non criticarla quando parte per la tangente, evita di creare discussioni. Gli piace uscirsene con demenzialità surreali, frasi latine che non c’entrano niente con la situazione: «CARPE DIEM!», «VENI, VIDI, VICI!», «BENEDICTA TU IN MULIERIBUS», «AVE, CAESAR», «ORA ET LABORA». A volte è peggio, perché si inventa un suo latino maccheronico: «A che ora CENATURUS SUMUS?». All’inizio mia madre se la prendeva, le sembrava una mancanza di rispetto, ma ormai ha rinunciato e si adegua. «AD HORAM NONAM» gli risponde, senza fare una piega.

In tutta sincerità devo dire che avere tanta familiarità con i classici certe volte mi ha fatto comodo. Qualche buon voto a scuola l’ho preso. Un giorno la professoressa di lettere ci ha chiesto di scegliere una frase di un personaggio celebre, non necessariamente uno scrittore. Poteva essere un filosofo, un generale o un pittore di corte. Ne ho parlato con mia madre e lei mi ha prestato dei libri. Dopo averci pensato tantissimo, ho scelto questa frase che disse Epitteto:

Accusare gli altri delle nostre disgrazie è prova di umana ignoranza. Accusare noi stessi è cominciare a capire. Non accusare né gli altri né noi stessi, questa è la vera saggezza.

© Alicia Giménez-Bartlett, 2019. Traduzione di Maria Nicola. Tutti i diritti riservati