Esistono anche gli iperpoliglotti

Quelli che parlano almeno 11 lingue, a volte anche molte di più: gli scienziati vorrebbero capire come ci riescono

(INDRANIL MUKHERJEE/AFP/Getty Images)
(INDRANIL MUKHERJEE/AFP/Getty Images)

Una persona che parla più lingue viene definita poliglotta; una che ne parla ancora di più è un iperpoliglotta. In entrambi i casi, però, ci sono due problemi: capire quante lingue servono per qualificare qualcuno come poliglotta e iperpoliglotta, e capire cosa vuol dire parlare una lingua. Quanto bene bisogna conoscere lo spagnolo o il sanscrito, insomma, per poter dire di conoscere lo spagnolo o il sanscrito? Se ne è occupata Judith Thurman, che ha scritto per il New Yorker l’articolo “Il mistero delle persone che parlano decine di lingue“.

Thurman ha incontrato iperpoliglotti, scienziate ed esperti di poliglottismo (qualcuno dice anche poliglossia) per capire com’è che qualcuno finisce a conoscere piuttosto bene più di dieci lingue, come fa a impararle e, soprattutto, «cosa gli iperpoliglotti possono insegnare a tutti noi».

Le imprese eccezionali affascinano sempre i comuni mortali. In parte perché sono cose che si possono mettere nella stanza dei trofei della nostra squadra, la Squadra Homo Sapiens: spostano un po’ più in là quello che è umanamente possibile. Ma anche per un altro motivo: se l’ultra-maratoneta Dean Karnazes può correre 560 chilometri senza dormire, forse può darci la giusta motivazione per fare quella corsetta nel parco. […] Se Luis Miguel Rojas-Berscia può parlare ventidue lingue, forse anche tu puoi farcela in quel corso di spagnolo.

La parola iperpoligotta iniziò a essere usata vent’anni fa, quando il linguista britannico Richard Hudson si mise a cercare poliglotti fuori dall’ordinario (l’ordinario dei poliglotti). Il giornalista Michael Erard usò la sua ricerca per scrivere il libro Babel no more: non più Babele, dalla torre biblica in cui si parlavano così tante lingue che nessuno ci capì più niente. Il New Yorker ha scritto che, anche grazie a Hudson, «la soglia accettata per essere definito un iperpoliglotta è di 11 lingue». Per quanto riguarda i normali poliglotti, la soglia generalmente riconosciuta è di almeno 6 lingue, anche se la Treccani è più generica e definisce poliglotta «una persona che conosce e parla più lingue».

Nel 2009 Erard trovò circa 400 persone che si potevano definire poliglotte, la metà di loro parlavano almeno sette lingue; 17 ne parlavano almeno 11 e vennero quindi definite iperpoliglotte. I dati sugli iperpoliglotti sono però ancora parziali: magari in Turkmenistan c’è qualcuno che parla 15 lingue e non è stato trovato da Erard, oppure qualcuno dei 17 esagera la sua effettiva conoscenza di un paio di lingue. Di certo non è ancora chiaro se ci sia qualcosa di neurologico, biologico o metodologico che renda più facile per qualcuno di diventare iperpoliglotta.

Thurman ha spiegato però che, grazie alle informazioni disponibili, «emerge un profilo parziale». È probabile infatti che un poliglotta sia mancino, che abbia problemi di asma o allergia, e che abbia un quoziente intellettivo sopra la media; la percentuale di omosessuali tra i poliglotti è alta, ma che servono maggiori basi scientifiche per affermarlo. Inoltre, la maggior parte degli iperpoliglotti sono maschi, ma è un po’ come dire che “la maggior parte dei registi sono maschi”: le ragioni con ogni probabilità sono storiche e sociali, piuttosto che biologiche. Nel 2012 Erard disseTime:

Se qualcuno venisse e mi dicesse «conosco uno che parla 15 lingue», risponderei: «Non sarei stupito se tu mi dicessi che quel qualcuno è mancino, non ha la patente e si perde spesso, è uomo ed è introverso, pragmatico e indipendente». La parte potenzialmente controversa è il collegamento con l’omosessualità. Ma se mi dicessero che quel qualcuno è gay, la cosa non mi stupirebbe.

Alla domanda «chiunque può diventare iperpoliglotta?», Erard rispose: «Non penso». Spiegò anche che è difficile che gli iperpoliglotti abbiano incarichi importanti o molto ben retribuiti: «Parlare 25 lingue non ti rende ricco, perché dedichi gran parte del tuo tempo all’apprendimento e non resta molto tempo per avere successo». Thurman ha scritto che «la maggior parte degli iperpoliglotti sono eruditi solitari» e che solo alcuni fanno il lavoro che vi aspettereste: traduttori o interpreti.

C’è un’altra cosa che accomuna quasi tutti gli iperpoliglotti: «Quando chiedo loro quante lingue parlano, hanno un sussulto», ha scritto Thurman. Richard Simcott – un iperpoliglotta britannico che organizza un’annuale conferenza di poliglottismo in cui i partecipanti hanno un cartellino con le lingue in cui possono fare conversazione – ha detto che «nessuno riesce mai a padroneggiare tutte le sfumature di una lingua» e alla domanda “quante lingue parli?” risponde: «Ne ho studiate più di 50 e ne uso più o meno la metà». Sostiene però che riesce a passare per madrelingua in almeno sei lingue. Simcott ha quarant’anni ed è ambidestro ed eterosessuale; vive in Macedonia con la figlia e la moglie, che parla 11 lingue e già a tre anni era trilingue. Quella cosa dell’impararle presto, le lingue, perché il cervello è più aperto, è vera: ma non vale sempre, perché Simcott per esempio è cresciuto con due genitori che parlavano solo inglese.

Non c’è una risposta facile nemmeno alla domanda “come si diventa poliglotti, e poi iperpoliglotti?”. Alle domande di Erard o Thurman qualcuno ha risposto come il compagno secchione delle superiori, dicendo solo che imparare le lingue gli viene piuttosto facile. Qualcuno ha detto che legge e ascolta molto, qualcun altro ha citato tecniche di memoria particolari, come i “palazzi della memoria” di cui parla il libro L’arte di ricordare tutto. Simcott ha detto: «Non ho una memoria fuori dall’ordinario. In molte cose, sono nella media. Un neurolinguista di New York mi ha fatto fare dei test e ne è venuto fuori che ero molto bravo a ricordare liste di parole senza senso. Poi ero bravo a riprodurre suoni. Comunque, più lingue impari e più è facile: ognuna si aggancia in qualche modo a quelle che già sai».

Alexander Argüelles, uno statunitense che vive a Singapore, raccontò a Erard come studiava le lingue. Disse che ogni notte si alzava alle tre e scriveva un paio di pagine in sanscrito, arabo o cinese, le lingue che definì «sorgenti etimologiche»; poi continuava con altre lingue fino a scrivere 24 pagine. Verso l’alba andava a correre ascoltando audiolibri in altre lingue, poi tornava a casa e studiava grammatica e fonetica, segnando su un foglio Excel il tempo dedicato a ogni lingua. Argüelles disse che secondo lui c’erano tre tipi di poliglotti: «I geni, che eccellono in ogni cosa; quelli bravi solo con le lingue e quelli come me», cioè gli stacanovisti.

C’è anche un noto iperpoliglotta italiano, Emanuele Marini.

Alcuni test dimostrano che abbiamo tutti una maggiore attività cerebrale, quando parliamo una lingua diversa dalla nostra; nel caso degli iperpoliglotti testati, però, l’attività cerebrale è meno maggiore: «Il loro vantaggio non sembra stare nelle capacità, ma nell’efficienza». Simon Fisher, esperto di neurogenetica, ha detto: «La genetica del talento è un territorio inesplorato. È qualcosa di difficile da testare ed è anche un argomento sensibile. Ma non si può negare il fatto che il genoma predisponga certe cose in un certo modo».

I poliglotti ci sono da sempre: Plutarco scrisse che Cleopatra aveva raramente bisogno di un interprete; si scrisse molto delle grandi capacità di Giuseppe Mezzofanti, cardinale del Diciassettesimo secolo; si dice che Elisabetta I parlasse inglese, gallese, irlandese, scozzese cornico e altre sei lingue; e Thurman ha scritto che Lord Byron parlava inglese, greco, francese, italiano, tedesco, latino e pure un po’ di armeno. Ma internet, i voli aerei economici e tutte le belle cose del Ventunesimo secolo hanno aumentato il numero di poliglotti e iperpoliglotti, e così la possibilità di studiarli. Oggi ci sono più conoscenze e più iperpoliglotti: tra qualche anno sarà anche possibile anche capire come cambierà, per esempio, l’apprendimento della figlia di Simcott, con un padre che parla 25 lingue e una madre che ne parla 11.

Naturalmente, come sempre e ovunque, ci sono anche impostori e millantatori. Un uomo di nome Ziad Fazah disse per anni di saper parlare 25 lingue e nel 1997 finì nel Guinness dei primati; poi lo invitarono a un programma tv in Cile e non riuscì neppure a rispondere a domande basilari di persone che parlavano quelle lingue.

Per provare a capire “Il mistero delle persone che parlano decine di lingue“, Thurman ha anche passato una settimana con una di loro: Luis Miguel Rojas-Berscia, un peruviano di 27 anni che studia psicolinguistica in Olanda. Thurman e Rojas-Berscia sono andati una settimana a Malta, perché Rojas-Berscia voleva aggiungere il maltese alla lista delle oltre ventidue che conosce: spagnolo, italiano, piemontese (ha origini italiane), inglese, mandarino, francese, esperanto, portoghese, rumeno, quechua, shawi, aymara, tedesco, olandese, catalano, russo, lingua hakka (un antico dialetto cinese), giapponese, coreano, lingua guaranì, farsi e serbo. E poi latino, greco antico, ebraico biblico, shiwilu, muniche e selk’nam, una lingua indigena della Terra del Fuoco (su cui ha fatto la tesi).

Il maltese è parlato da circa 500 mila persone. Rojas-Berscia ha spiegato di volerlo imparare per gioco e per piacere personale, perché da Malta sono passati vari popoli di varie lingue e perché «è l’unica lingua semitica dell’Unione Europea». A Malta si è portato un libro di grammatica maltese ma Thurman ha detto che non l’ha usato, perché voleva iniziare da zero partendo da “ciao” e “grazie”, ascoltando per prima cosa la gente parlare nei mercati e nei bar.

Rojas-Berscia ha detto – e Thurman ha scritto che l’ha dimostrato – che gli basta un giorno per imparare le cose essenziali. Secondo lui le cose essenziali da imparare sono: come formare predicati, come quantificare, come negare, i pronomi, i numeri e parole come “bello” o “brutto”. Poi parole come “perché” e “quindi”, alcuni verbi come “essere” o “sembrare”, e altri verbi di sopravvivenza come “mangiare”, “vedere”, “volere”, “camminare”, “comprare” o “ammalarsi”. In più, quello che Thurman ha definito «un discreto pacchetto di sostantivi». Rojas-Berscia chiedeva ai tassisti di insegnargli parole e poi cercava di usarle nei viaggi in auto con altri tassisti. Ha spiegato di «evitare gli intellettuali per non imparare il maltese dei libri ma quello della strada» e ha detto: «Non bisogna trovare un algoritmo. Bisogna prima essere parte della società».

Rojas-Berscia si scriveva le nuove parole imparate su un blocchetto e ha spiegato che sono importanti anche gli errori. «Se qualcuno fa un errore e ti dice sono arrabbiato a te, capisci anche qualcosa sulla sua lingua madre». Sul volo di ritorno da Malta, Rojas-Berscia ha detto che «la grammatica è facile ma l’ortografia difficile, e i verbi sembrano caotici». Thurman ha scritto che, dopo una settimana, «riusciva a leggere pezzetti di giornale e fare conversazione semplice, e deve aver imparato un migliaio di parole». Un tassista gli ha chiesto se viveva a Malta da un anno. Rojas-Berscia e Thurman si sono salutati a Amsterdam: a breve lui partirà per l’Australia per andare a studiare alcune lingue aborigene.