Vi ricordate questa foto?

Fu scattata due anni fa in Norvegia, dove un fulmine uccise 323 renne: un gruppo di ricercatori ha studiato gli effetti di tutte quelle carcasse sull'ecosistema

Agenzia per l'ambiente della Norvegia Flickr
Agenzia per l'ambiente della Norvegia Flickr

Nell’agosto del 2016 un fulmine uccise 323 renne su una collina nel parco nazionale Hardangervidda, in Norvegia. Le renne si erano avvicinate sulle pendici di una collina per tenersi al caldo, poi un fulmine cadde tra loro e uccise quasi tutto il branco: la scarica si trasmise tramite l’umidità della terra e raggiunse tutti gli animali. Le foto della collina coperta di renne morte – scattate alcuni giorni dopo, quando le guardie del parco arrivarono in quel punto – furono riprese da tutti i giornali del mondo e arrivarono anche a Sam Steyaert, un ricercatore universitario che decise di sfruttare l’occasione per rispondere a una domanda. Cosa succede quando 300 renne muoiono tutte insieme nello stesso posto?

Agenzia per l’ambiente della Norvegia, Flickr.

Gli studi sugli effetti della decomposizione animale su un ecosistema non sono una cosa nuova. È stato studiato che quando un grosso animale si decompone a contatto con il terreno, produce un inacidimento della terra nelle immediate vicinanze che uccide la flora locale e – a distanza di tempo – permette la nascita di nuove specie di piante e fiori che prima non avrebbero potuto crescere. Quando Steyaert vide le foto del branco di renne morte, decise di iniziare subito uno studio degli effetti della decomposizione di così tanti animali su una superficie così ridotta.

Steyaert – che è un ricercatore all’Università del Sudest Norvegia – iniziò lo studio autofinanziandosi insieme a un gruppo di colleghi. Cominciarono a visitare la collina dove erano morte le renne, a fare foto, raccogliere osservazioni e campioni di terra da analizzare. Lo studio fu chiamato REINCAR: che è sia la crasi delle parole inglesi reindeer e carcasses (renne e carcasse) che l’inizio della parola reincarnation, reincarnazione. Sembrò appropriata, poiché lo studio si concentrava – in un certo senso – sulla vita dopo la morte.

Le prime osservazioni – racconta il New York Timesfurono fatte due mesi dopo la morte delle renne. Le carcasse erano ancora ricche di carne e la zona era piena di animali saprofagi, tra cui volpi, corvi e ghiottoni. I ricercatori cominciarono però a notare la presenza di grandi pile di feci, lasciate dagli animali che arrivavano sul posto per cibarsi della carne delle carcasse. Le osservazioni sono continuate per i mesi successivi e i ricercatori hanno notato un’abbondanza, tra le feci e le carcasse, di semi di empetro nero, un arbusto famoso per le sue bacche che per crescere ha bisogno di terreni con scarsa vegetazione e molto ricchi di nutrienti.

L’ipotesi che fecero i ricercatori fu che la decomposizione delle carcasse potesse avere quindi il duplice effetto di uccidere la vegetazione sulla collina e arricchire il terreno abbastanza da permettere ai semi di empetro nero di germogliare in una zona dove altrimenti non avrebbero potuto crescere. L’ipotesi è stata infine confermata nelle ultime settimane: le ultime osservazioni sulla collina – dove si vedono ancora i resti ossei delle renne – hanno mostrato che ci sono piantine di empetro nero su tutta l’area.

Un ricercatore dell’Università del Michigan – che non ha partecipato allo studio di Steyaert – ha spiegato al New York Times che un cambiamento così profondo di un ecosistema dovuto alla decomposizione degli animali non era mai stato studiato ed è una cosa nuova e “affascinante”. Steyaert – che ha pubblicato i primi risultati del suo studio a luglio – ha detto che continuerà a occuparsi di queste ricerche e a seguire gli sviluppi della collina che ha osservato per gli ultimi due anni.