L’euro secondo Carlo Cottarelli

Ci ha causato dei problemi perché non ci siamo saputi adeguare, scrive nel suo ultimo libro, ma uscire è un'opzione che non vale la pena affrontare

Carlo Cottarelli dopo un convegno a Milano, 27 ottobre 2014.
(ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)
Carlo Cottarelli dopo un convegno a Milano, 27 ottobre 2014. (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo libro di Carlo CottarelliI sette peccati capitali dell’economia italiana, uscito per Feltrinelli lo scorso gennaio. Cottarelli – economista ed ex commissario alla revisione della spesa pubblica – ha ricevuto dal presidente della Repubblica l’incarico di formare un governo “neutrale”, dopo la rinuncia di Giuseppe Conte dovuta all’opposizione di Mattarella alla nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia. Mattarella domenica sera ha detto che Savona è «visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’euro».

Cottarelli ha detto più volte di essere contrario all’uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dall’euro. Teoricamente, spiega Cottarelli, abbandonare l’euro potrebbe risolvere i problemi di crescita, competitività e debito pubblico, ma solo a certe condizioni che è molto complicato che si verifichino in Italia e che potrebbero essere molto dolorose per tutti. Per quanto riguarda la competitività e la crescita, Cottarelli spiega che se abbandonassimo l’euro e introducessimo la nuova lira ci sarebbero due principali problemi: la lira si svaluterebbe immediatamente e la svalutazione farebbe aumentare il prezzo dei prodotti importati. È vero che in linea teorica questo restituirebbe competitività ai prodotti italiani (gli esportatori riceverebbero più nuove lire per quello che esportano), ma tutto questo funzionerebbe a un’unica condizione: che i salari rimangano fermi. Se aumentassero per adeguarsi all’aumento dei prezzi dei beni importati, come probabile, allora gli esportatori non avrebbero più alcun margine. Vista poi la fragile situazione italiana e l’alto tasso di disoccupazione, i salari non aumenterebbero e sarebbero tagliati in termini reali (cioè i nostri soldi varrebbero meno).

Il secondo problema ha a che fare con i debiti contratti in euro. Con la svalutazione della lira, il debito avrebbe più peso rispetto a prima: Cottarelli fa l’esempio di un ipotetico prestito di 100 mila euro contratto da qualcuno che ha un reddito di 50 mila euro l’anno. Il debito sarebbe pari a due anni di stipendio. Con l’introduzione della nuova lira, lo stipendio verrebbe convertito in 50 mila nuove lire, la lira si svaluterebbe e servirebbero 1,25 lire per comprare un euro. Di conseguenza, per restituire 100 mila euro servirebbero 125 mila nuove lire, cioè due anni e mezzo di stipendio. Insomma, non ne varrebbe la pena. La domanda di Cottarelli è dunque: «Possiamo risolvere i nostri problemi di crescita, competitività e debito pubblico senza uscire dall’euro?». Di seguito la risposta, tratta dal libro.

***

È sempre utile, quando si tratta di valutare un’opzione di politica economica, tentare di capire come si comportano altri paesi nelle stesse condizioni. Altri paesi del Sud Europa hanno sofferto problemi di adattamento all’euro simili a quelli dell’Italia. Cosa stanno facendo? Riescono a recuperare competitività rispetto ai paesi nordici? Fino al periodo più recente, la Francia non ci stava riuscendo: i costi del lavoro per unità di prodotto hanno continuato ad aumentare, seppur leggermente. Con l’elezione di Emmanuel Macron sono state lanciate diverse riforme, e vedremo che risultato avranno. Chi invece sta recuperando competitività sono Spagna e Portogallo, dove i costi di produzione sono in discesa dal 2009. Li sta aiutando nella rincorsa alla Germania il fatto che in questo paese i costi del lavoro ora stanno aumentando: in Germania la disoccupazione è al 4 per cento, il livello più basso dal 1980, e i salari stanno crescendo più della produttività. Il Portogallo ha così ormai riassorbito il divario, in termini di aumento dei costi di produzione, che si era creato tra il 2000 e il 2008; la Spagna ci è vicino. Se ci stanno riuscendo loro non potremmo riuscirci anche noi?

L’aumento dei costi del lavoro in Germania è una buona notizia anche per noi. Negli ultimi anni il costo del lavoro in Germania è aumentato un po’ più che da noi, ma il divario creatosi nella scorsa decade è ancora elevato: stiamo recuperando ma troppo lentamente. E, nel frattempo, stiamo ora perdendo competitività rispetto a Spagna e Portogallo, dove, appunto, i costi stanno scendendo, il che non è una buona notizia, per esempio per il settore del turismo.

Occorre quindi fare di più per recuperare competitività. Ora, il costo del lavoro per unità di prodotto è il rapporto tra due fattori: il livello dei salari nominali e il livello della produttività. Può quindi scendere se si riducono i salari in euro, oppure se, a parità di salari, aumenta la produttività, cioè il prodotto per ora lavorata. Tagliare i salari è però una cosa poco piacevole, soprattutto per chi li riceve. Inoltre, porta a meno consumi, il che riduce la domanda aggregata, seppure questo sarebbe compensato da un aumento delle esportazioni. La seconda opzione (aumentare la produttività) è chiaramente preferibile. Ma, più in generale, è meglio cercare di riformare l’economia italiana in modo che non solo i costi del lavoro, ma tutti i costi che un’impresa deve affrontare siano ridotti, facilitando quindi un recupero di competitività.

E qui ci ricolleghiamo ai temi (ai peccati) discussi nelle pagine precedenti. Se la pubblica amministrazione diventa più efficiente e i costi della burocrazia si riducono, le imprese se ne avvantaggiano: spendere tempo a compilare moduli o attendere mesi per un’autorizzazione comporta un costo, compreso per le imprese che esportano. Occorre quindi rendere la pubblica amministrazione più efficiente per ridurre i costi delle imprese, attraverso un massiccio abbattimento della burocrazia. La recente riforma Madia è stata vincolata da troppi paletti perché possa avere risultati davvero significativi sull’efficienza della pubblica amministrazione.

Se la giustizia civile è lenta, l’incertezza del diritto costituisce un costo per le imprese che operano sul nostro territorio e un deterrente all’investimento. E, se non si investe, la produttività non cresce o si riduce. Occorre rendere la giustizia più veloce. I risultati raggiunti finora sono ancora insufficienti.

L’investimento in Italia si riduce anche se la corruzione scoraggia le imprese più efficienti dall’investire in Italia (perché “chi poi vince gli appalti è chi paga più tangenti”). E ancora, se l’evasione fiscale consente alle imprese meno efficienti di sopravvivere, le imprese più efficienti e che pagano le tasse preferiranno investire all’estero. Se il Sud Italia riesce finalmente a diventare un luogo dove conviene investire, la produttività del Sud, e quella dell’intero paese, aumenta. Anche in queste aree non ci sono segni di un chiaro miglioramento negli ultimi anni.

Occorre inoltre una decisa azione per aumentare la concorrenza. Non ne ho parlato molto in questo libro (non ho spazio a sufficienza!), ma è un tema essenziale. Un’economia di mercato funziona bene se c’è abbastanza concorrenza, se cioè sono le imprese migliori a emergere. Ci sono voluti più di due anni per approvare il provvedimento sulla concorrenza presentato dal Governo Renzi e che doveva essere il primo di una serie di leggi annuali su questo tema. Ed è uscito annacquato dal parlamento. Non è un buon segno. La concorrenza è una condizione necessaria per un aumento dell’efficienza, della produttività e della competitività.

Un altro tema fondamentale è quello della tassazione: il peso della tassazione sul lavoro e sulle imprese italiane è più elevato che in Germania, e se vogliamo recuperare competitività bisogna ridurlo. Ma per ridurlo in modo credibile occorre risparmiare sulla spesa pubblica. Negli ultimi anni, la pressione fiscale, a partire dall’operazione degli 80 euro sul costo del lavoro, si è alleggerita, ma ciò a scapito di un ritardo nel processo di risanamento dei conti pubblici che è invece essenziale per la sostenibilità del nostro debito pubblico, e quindi per la credibilità della riduzione delle stesse tasse. Questo è evidente dall’osservazione dell’andamento del cosiddetto “avanzo primario” delle pubbliche amministrazioni: l’avanzo primario, la differenza tra entrate dello stato e spesa al netto degli interessi, è l’insieme delle risorse che servono per pagare gli interessi e, potenzialmente, ridurre il debito pubblico. Secondo il Documento di economia e finanza formulato nella primavera del 2014, l’avanzo primario avrebbe dovuto raggiungere nel 2017 il 4,6 per cento del Pil. Tra il 2013 e il 2017, il rapporto tra debito e Pil avrebbe dovuto ridursi di 7 punti percentuali e mezzo. Alla fine, invece, nonostante la correzione imposta dalla Commissione europea nel corso del 2017, l’avanzo primario ora è stimato all’1,7 per cento e tra il 2013 e il 2017 il debito è previsto essere aumentato di un punto percentuale e mezzo di Pil. Il minor avanzo primario è per il 40 per cento dovuto all’effetto automatico della più moderata crescita del Pil rispetto a quanto previsto nel 2014 (se il Pil cresce meno le entrate dello stato crescono meno); ma per il restante 60 per cento è dovuto alla riduzione delle aliquote di tassazione decise senza un’adeguata riduzione della spesa, che è anzi aumentata al netto degli interessi. Ma tagli di tassazione a scapito della solidità dei conti hanno effetto limitato sulle decisioni di spesa e investimento del settore privato perché sono considerati come temporanei, e l’effetto sulla crescita è stato di conseguenza modesto. La legge di bilancio per il 2018 non cambia molto. Nonostante la previsione di una continua crescita a un tasso soddisfacente (l’1 e mezzo per cento), l’avanzo primario aumenta solo in modo modesto salendo al 2 per cento: avremmo dovuto essere al 5 per cento sempre secondo i piani dell’aprile del 2014.

Tutto sommato, credo che sia di gran lunga preferibile cercare di tornare alla crescita riformando l’economia italiana, piuttosto che scegliere il salto nel buio rappresentato da un’uscita dall’euro. Ma per intraprendere una strada alternativa occorre muoversi per tempo e negli ultimi anni non lo abbiamo fatto.

Il rischio, nell’attendere, è che uno shock di qualunque natura possa causare una caduta del Pil. Questo scatenerebbe probabilmente un nuovo attacco speculativo contro l’Italia. Se il Pil scendesse, il rapporto tra debito pubblico e Pil riprenderebbe a crescere e aumenterebbe la sfiducia nella possibilità del paese di rimettersi su un sentiero di crescita e di sostenere il nostro debito pubblico. Cosa accadrebbe a quel punto è difficile dirlo. Potremmo essere costretti dagli attacchi speculativi sui mercati finanziari a uscire dall’euro. O potremmo essere costretti a chiamare la Troika. Come ho detto, non sarebbe piacevole.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione in “Serie Bianca” febbraio 2018