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  • Martedì 3 aprile 2018

Scrivere per ridere

Date retta a Democrito, e iscrivetevi al corso della scuola Belleville

Woody Allen in "Scoop"
Woody Allen in "Scoop"

Scrivere per ridere è il corso con Federico Baccomo e Marco Rossari in partenza il 17 aprile 2018 alla scuola Belleville. Si parlerà di parodia, satira e paradosso; si studierà la storia del comico in letteratura e nello spettacolo; si impareranno i trucchi per scrivere battute e costruire dialoghi brillanti; si affronterà lo sviluppo di un’idea comica dal soggetto alla sceneggiatura. 

Federico Baccomo ha adattato per il cinema due suoi romanzi, Studio illegale (regia di Umberto Carteni, con Fabio Volo ed Ennio Fantastichini) e La gente che sta bene (regia di Francesco Patierno, con Claudio Bisio, Diego Abatantuono e Margherita Buy). Marco Rossari è autore di vari romanzi. Ha curato l’antologia Racconti da ridere, ispirata alle lezioni tenute a Belleville, che include testi di Umberto Eco, Michele Mari, Alan Bennet, David Sedaris, Stefano Benni, Nora Ephron e molti altri. Ne proponiamo l’introduzione qui.

Non ridete: quest’anno sono finito tra la dozzina di autori che concorreva a un premio piuttosto prestigioso. Come da tradizione, la serata per selezionare la cinquina si è svolta in un celebre appartamento romano dei Parioli, dove si trova una terrazza calcata tra gli altri da Elsa Morante e Goffredo Parise.
Entrati nell’atrio, io e alcuni amici ci siamo messi ad aspettare l’ascensore quando a un tratto, dal nulla, è spuntato un vecchio signore elegante, stempiato e canuto, dalle sopracciglia foltissime e dal cipiglio severo. Si è piazzato davanti alla porta dell’ascensore, con leggera prepotenza.
Se ne stava lì muto.
– Ma ci stiamo tutti? – ha chiesto un amico.
– Guarda che questo non esiste, – ho bisbigliato, – è il fantasma di Alberto Moravia.
L’amico mi ha guardato avvilito. – Si può sapere perché dici sempre tutte queste scemenze?
Già, perché?
Come avrei potuto rispondere?
Forse con la storiella di Democrito e Ippocrate.

Si dice che a un tratto della sua vita Democrito, come Greta Garbo, attaccò a ridere. Proprio lui, uomo rispettabile, cittadino di riguardo, pilastro della comunità, filosofo.
«Democrito ride di tutto!» esclamavano sconfortati gli amici, perché il saggio aveva cominciato a osservare i concittadini e a sogghignare di ogni loro gesto, suscitando un profondo sconcerto, a tal punto che i senatori della città inviarono una lettera a Ippocrate e gli chiesero aiuto. Il medico salì su una nave (mi piace immaginarlo sul piccolo traghetto che si chiama Skopelitis e ancora gira tra le Piccole Cicladi) e andò a visitarlo. Sapeva che Democrito era un uomo malinconico, e per sua esperienza questo tipo di persona spesso si chiude in se stessa e guarda gli altri in modo diverso. Infatti lo trovò abbacchiato, ma capace di passare nel giro di pochissimo dalla ponderazione all’eccitazione. Anzi, quando Ippocrate – grave, autorevole – gli disse che tutto questo era comprensibile, che i mali del mondo inevitabilmente toglievano all’uomo la tranquillità, Democrito cominciò a ridergli in faccia. Il filosofo gli spiegò che ridere degli uomini è inevitabile, perché in loro si trovano ogni follia e ogni ridicolaggine.
Ippocrate rimase folgorato. Davanti all’assemblea dei senatori, dichiarò che Democrito era «il saggio tra i saggi, il solo capace di render savi gli uomini».

Io non lo so quante volte sono stato rimproverato per avere messo l’umorismo nelle cose che scrivevo (o che dicevo, se è per questo). Frotte di amici, sconfortati, scuotono la testa: «Non ti prendi abbastanza sul serio».
Ed è vero.
E non è vero.
Anche se la tentazione è forte, non imbastirò qui l’ennesima polemica sull’umorismo sottovalutato. Ma di sicuro, per citare James Thurber, la comicità è una cosa seria. E non vive certo in un ghetto.
Čechov scriveva racconti umoristici. Kafka faceva ridere gli amici. Abbiamo mai contato la quantità di battute che affollano le tragedie elisabettiane? Ci siamo mai resi conto quante schegge di Poe e Dostoevskij sono contenute nel Circolo Pickwick? Voi non avete sempre pensato che Godot fosse una pièce perfetta per due comici (e infatti negli Stati Uniti la interpretarono Steve Martin e Robin Williams, qui da noi Gaber e Jannacci)? Abbiamo considerato i giochi di parole presenti nell’opera di James Joyce? Quanto si (e ci) divertiva il più erudito degli scrittori italiani, ossia Umberto Eco? Abbiamo dato retta ad Alberto Arbasino quando spiegava che dietro a Bertolt Brecht c’è Karl Valentin? Quanti poeti tromboni sanno raggiungere le vette di Stanisław J. Lec quando li freddò tutti con un aforisma sublime come: «Le rose profumano per mestiere»? Che cosa riescono a dirci della società e del mondo (e degli esseri umani) autori come Daniil Charms o Douglas Adams, Jerome Klapka Jerome o Ennio Flaiano? Lamento di Portnoy non è forse il primo romanzo stand-up comedy della storia? La tristezza di Buster Keaton non ci ha sempre fatto sghignazzare e poi di nuovo immalinconire? E davvero nella vostra formazione Woody Allen ha contato meno di Don DeLillo, che pure al centro di Underworld mette proprio, toh, un comico?
E poi, al massimo, non sarà arrivato il momento di rovesciare l’assunto? In un confronto tra Le ali della colomba e Le avventure di Huckleberry Finn cosa ci direbbe un rilevatore di pagine lette? E quindi può la letteratura tragica o drammatica o compresa o pensosa o compunta che sia (quante sciocchezze), essere all’altezza di quella umoristica o comica o… Ma insomma, anche questa storia delle definizioni è bizzarra, è letteratura e basta, non c’è bisogno di definirla.
E a volte si ride.

Così è nata l’idea di questa antologia, un’ampia panoramica – personale e selettiva, com’è inevitabile – sui grandi classici e sulle perle minori della letteratura umoristica, a partire da Mark Twain per arrivare fino a oggi, con autori più e meno noti. E così si è preferito raggruppare i racconti in senso tematico, e non cronologico. Parodie, satire, ironie, paradossi, rovesciamenti hanno attraversato le epoche in modo trasversale e hanno lasciato ai lettori avvertiti l’impressione di quanto ampio fosse lo spettro che, da Gogol′ a Sedaris, la commedia ha proiettato sul canone letterario e viceversa.
Certo, da quando il cabaret imperversa su tutte le reti non è facile difendere la comicità. Sarà un lavoro sporco, ma qualcuno dovrà pur continuare a farlo: voi smettereste di fare sesso solo perché l’ha fatto anche Donald Trump? Anzi, quanto è importante l’ironia consapevole proprio oggi che ogni battuta – sui social network o su WhatsApp – dev’essere accompagnata da un segno grafico, un emoticon o un emoji, affinché l’interlocutore non dico che la capisca, ma almeno non si offenda? E quanto è decisivo rileggere i classici, acquisirne le basi, adesso che dall’ambiguità dello humour siamo passati alle granitiche collere dei commenti in rete? E cosa ci racconta questo sulle sfaccettature dell’essere umano?

Che cosa sia il riso se lo sono chiesti in tanti, da Pirandello a Bergson a Gregory Bateson. Fino al diciassettesimo secolo la parola «umoristico», come la intendiamo oggi, non esisteva nemmeno. Non c’era un vocabolo per definire il fatto. Eppure c’erano già stati Aristofane, Marziale e tanto altro. Quello comico forse è un linguaggio, innato eppure in fondo accessibile, ereditario ma talvolta assimilabile, diffuso ed elusivo insieme, tale e quale al tempo per sant’Agostino: «Se nessuno mi chiede cos’è, lo so; se devo spiegarlo a chi lo chiede, non lo so più».
Per chiarirmi le idee, in vista di questa ponderosa introduzione, ho provato ad aprire un saggio di psicologia sull’argomento e ho trovato: «L’ipofisi [P1] che produce l’ACTH [Q1] che stimola la produzione [S1] da parte della corteccia del surrene del composto F, non è mai la stessa ipofisi [P2] che viene a sua volta influenzata dalla conseguente concentrazione [S1] del composto F».
E mi è venuta tristezza.
Ho provato con la biologia e ho scoperto che l’umorismo ossigena il sangue, riduce gli ormoni legati allo stress e rafforza il sistema immunitario grazie a un’accresciuta attività delle cellule T (forse cosí battezzate in onore di Anthony Trollope, che mentre se la rideva leggendo un romanzo umoristico ci rimase secco per un colpo apoplettico), ma insomma non mi bastava.
Ho provato di nuovo con la filosofia.
Voltaire: «Coloro i quali conoscono per quale ragione il tipo di gioia che suscita la risata porti alla trazione del muscolo zigomatico all’indietro verso le orecchie, sono davvero persone sapienti». Grazie tante.
E con Spinoza non migliora. «La risata, – diceva, – è buona di per sé». Eppure, sostengono i suoi amici, rideva solo osservando due ragni che combattevano fino alla morte. Vatti a fidare.
L’umorismo varia secondo l’età, le epoche, le latitudini, il carattere, l’intelligenza e infine l’umorismo stesso. È mercuriale, imprendibile, sfuggente – onnipresente. Una buona battuta rompe il ghiaccio, una storiella risolve una serata, una risata dissipa la malinconia.
Ma il riso è anche sbotto, gaffe, errore, scivolone sulla proverbiale buccia di banana della vita. Cosa c’è di più divertente – divergente, stavo scrivendo – del lapsus? Se esiste un fool in questo porco mondo, quello è sicuramente il nostro inconscio.

Avevo un amico che andava dallo psicanalista.
«Piangi spesso?»
«No, però ridiamo molto».
Reazione, scatto, resistenza al fato, aggressività, svago, festa, imbarazzo: ecco cos’è l’umorismo.
Ma è anche intrattenimento. I predicatori inserivano le battute nei sermoni per evitare che i fedeli si addormentassero, e Shakespeare snocciolava giochi di parole osceni perché tenere desta l’attenzione nella bolgia del Globe non era facile.
È scuola di scrittura. Una barzelletta è un perfetto trattato di narratologia, come sapeva bene Eco. La sintesi di un aforisma è un cimento altissimo. Un limerick, come scriveva Gianni Celati, è un piccolo teatro della crudeltà.
«Falla ridere»: quanti scempi sono stati compiuti sotto l’egida di questo consiglio… E quante volte s’è raggiunto lo scopo in modo involontario. (Per una delle sue commedie piú celebri Ionesco prese ispirazione dall’effetto comico fortuito di un libro per imparare a masticare l’inglese. Ma pensiamo a Pietro Nenni: «Ora bisogna decidere, non resta che astenersi», e quanto racconta di politica italiana!)
Lo humour è irruenza, ma anche seduzione. La narrativa umoristica ha in comune con quella erotica la necessità di appellarsi all’altro, di strappargli dei suoni, di farlo partecipare fisicamente – tangibilmente – a ciò che viene rappresentato. Il fantasma dell’umorismo è il partner, ossia il lettore. Non ci si può fare il solletico da soli: c’è bisogno di connivenza. Laurence Sterne, il grande padre di tutti con il Tristram Shandy, lo dice bene in una lettera: «… chi sente veramente, porta dentro di sé metà del divertimento: le sue idee sono semplicemente evocate da quel che legge, e le vibrazioni interiori corrispondono così interamente a quelle eccitate dalla lettura, che è come se leggesse se stesso e non il libro». Siamo in due e siamo complici.
Il riso è piacere, ma anche sollievo, scampato pericolo, rivalsa.
È persistenza. Un tizio ha notato come una delle storielle contenute nel Liber Facetiarum di Poggio Bracciolini, forse il primo regesto di barzellette, viene ripetuta quasi identica in una puntata di Curb Your Enthusiasm, la serie americana con Larry David. Esiste una vecchia, triviale gag in cui le varie parti del corpo litigano su quale sia la più importante e alla fine la spunta l’ano perché, se smettesse di funzionare, si bloccherebbe tutto. «A comandare è un pezzo di merda». Già, che sciocchezza. Eppure è ripetuta quasi identica nella prima lettera di Paolo ai Corinzi: «Dio ha così organizzato il corpo, dando un più grande onore alla parte inferiore» (risate registrate).
È ribellione. Non molto tempo fa le mamme rampognavano ancora le figlie: «Ridere è volgare e sfacciato, una brava ragazza non lo fa». E una risata le ha seppellite.
L’umorismo è resistenza al potere. I governi dittatoriali detestano i libri, certo, ma ancora di più i libri satirici. Stalin non rideva mai. Al massimo, come ricorda il maresciallo Žukov nelle sue memorie, lo faceva con un risolino sinistro, tra sé e sé. Hitler istituì dei «tribunali della barzelletta»: un cabarettista berlinese fu giustiziato per aver chiamato il suo cavallo Adolf.
Pensiamo alle religioni, guardiamo cosa è successo nella redazione di un innocuo giornalino satirico parigino. «Bisognerebbe nazionalizzare il buonumore», scriveva il pericoloso Wolinski in una vignetta dove una famigliola era stesa su un prato a godersi la vita, e si è preso una sventagliata di mitra. E nella Bibbia non si ride granché. Che bello: lo spirito non è per nulla santo. Forse solo gli ebrei, che ne hanno passate troppe, sanno ridere. (Il riso è sopravvivenza).
L’umorismo è scherno, disperazione, resistenza al tragico. Ben vengano i Franti.
Qualche anno fa al funerale di mia nonna, sotto una pioggia scontata, in un cimitero grigio che più grigio non si poteva, al momento di inserire la bara nel loculo i portatori hanno avuto un momento di impaccio e di fatica: uno è mezzo scivolato, l’altro ha perso la presa, la bara – come in una comica grottesca – ha oscillato, è stata recuperata in extremis, oh-issa. In quel momento mia madre, sotto l’ombrello con me, mi ha indicato un parente, un uomo molto pratico, che con una smorfia spasmodica in viso contraeva i pugni chiusi come a voler aiutare i portatori in quella disgraziata pantomima. Tutt’e due siamo scoppiati a ridere.
La morte teme l’ilarità? Di certo l’ultimo rantolo di Madame Bovary è una risata aspra che dà i brividi. Nel terribile Racconto dell’ancella di Margaret Atwood (oggi tornato in auge grazie a una fortunata serie tv) si ride in un solo – indimenticabile – momento.
L’umorismo è tutto questo, ma anche sguardo sul mondo, amore per l’umanità e le sue tenere deficienze, conforto universale.
O forse, a caccia di questa benedetta definizione, potremmo affidarci semplicemente al genio di Saul Steinberg: «Cercare di definire l’umorismo è una delle definizioni di umorismo».
E ci sarà un motivo se l’uomo è l’unico animale che ride.

Perché, allora, dico e scrivo tutte queste scemenze?
Per sopravvivere, credo. E immagino che un po’ di questi racconti siano stati scritti per lo stesso motivo. In fondo questa è la mia personale antologia da girare a chi sottovaluta l’umorismo. S’intitola Racconti da ridere ma ridere non è nemmeno necessario. (Avevo un amico che davanti ai film comici non rideva mai. Niente, nemmeno un sorriso. E li amava moltissimo. Quant’era bello – esilarante – il suo riso interiore, cerebrale, morto). Pur mancando tanti nomi che per svariati motivi non è stato possibile inserire, ci sono racconti satirici, ironici, puramente comici, amari, demenziali, intellettualissimi. Esemplari, sorprendenti, inediti, dimenticati. Sagaci, irriverenti, profondi. Qualche premio Strega e perfino un premio Nobel. Tutte queste storie mi hanno fatto ridere ad alta voce o in silenzio, ma anche pensare, riflettere, annuire, ammirato da un lato dell’animo umano a cui non avevo fatto caso o semplicemente dall’arguzia di un personaggio o di una situazione o anche solo dal talento di uno scrittore.
Spero che vi divertano.
Ah, quella di Democrito, come tutte le storie troppo belle per essere vere, è troppo bella per essere vera. Lo scambio epistolare con il medico era tanto plausibile che, sebbene inventato di sana pianta, finí nel Corpus hippocraticum e l’idea perdurò tanto a lungo da imporre negli anni una dicotomia tra il filosofo che ride e quello che piange, ossia appunto Democrito ed Eraclito, tra commedia e tragedia, tra me e l’amico accanto all’ascensore dei Parioli.
Ad ogni modo, vero o falso che sia, io vi consiglio di dare retta a Democrito.

Da Racconti da ridere, a cura di Marco Rossari
Per gentile concessione: © 2017 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino