Perché una tela bianca è un’opera d’arte
Magari avreste potuto farla anche voi, ma non è quello il punto
Davanti a molte opere di arte contemporanea, anche famose e decisive, sono frequenti reazioni che vanno dall’incredulità all’indignazione e che sfociano in un “questo avrei potuto farlo anche io! / mio figlio di sei anni“, che prima o poi abbiamo sentito e detto tutti. Capita soprattutto con i quadri astratti ed espressionisti, fatti di chiazze, linee e macchie, e con l’arte concettuale: coi movimenti insomma dove l’abilità manuale dell’artista passa in secondo piano rispetto all’elaborazione di un’idea, alla libera espressione dell’interiorità o a uno studio formale. Se accostamenti di linee e colori sono difficili da capire, lo sono ancora di più le tele bianche, semplicemente bianche: eppure sono opere fondamentali che hanno fatto la storia dell’arte mondiale e che vengono vendute per milioni di dollari alle aste. Un video di Vox ha provato a spiegare perché sono arte e perché no, non avreste potuto farlo anche voi.
La maggior parte degli artisti che ha dipinto tele bianche fa parte, spiega il video, del minimalismo, un movimento che si sviluppò soprattutto negli Stati Uniti tra gli anni Sessanta e Settanta come reazione all’espressionismo astratto degli anni Quaranta e Cinquanta, un tipo di pittura gestuale, espressiva, emotiva, che voleva esprimere l’inconscio dell’autore: ne fu esponente per esempio Jackson Pollock, con le sue pennellate e secchiate di colore gettate e colate istintivamente sulla tela. Al contrario i minimalisti erano convinti che l’autore dovesse scomparire e che l’arte non dovesse per forza indicare qualcos’altro: come spiegò il pittore Frank Stella «Quel che vedi è quel che vedi» («What you see is what you see»). Volevano che il loro lavoro fosse semplice, armonico, ordinato ed essenziale, come appunto una tela bianca.
Il primo importante esempio di tela bianca però è ben antecedente al minimalismo americano e risale al Suprematismo, un movimento delle avanguardie russe incentrato su linee e forme geometriche: nel 1918 Kazimir Malevich dipinse White on White, con due quadrati di diverse sfumature di bianco incastrati asimmetricamente uno sull’altro. Fu una delle opere più rivoluzionarie e radicali dell’epoca, dove l’unica traccia dell’autore emergeva nella texture e nelle sottili variazioni di bianco.
White on White, Kazimir Malevich (1918) (MoMA)
Altrettanto rivoluzionari, tanto che il mondo dell’arte parlò di “scandalo“, furono i White Paintings dell’americano Robert Rauschenberg, del 1951. Sono cinque opere costituite da un diverso numero di pannelli modulari, dipinti di bianco applicato con un rullo. Rauschenberg voleva creare un oggetto che sembrasse immacolato, mai toccato da mano umana, nato interamente puro. Li paragonò una volta a un orologio: se si era abbastanza attenti si potevano cogliere sulla superficie lievissimi cambiamenti e sfumature e capire che ora fosse e che tempo facesse fuori.
Tre pannelli dei White Paintings di Robert Rauschenberg (Rocor)
L’influenza dei White Paintings non restò confinata nel mondo delle arti visive: il musicista John Cage spiegò che gli diede l’idea per 4’33”, un brano del 1952 in cui un musicista resta seduto al pianoforte senza toccarne i tasti per quattro minuti e 33 secondi, lasciando emergere e invitando l’ascoltatore a fare attenzione ai suoni dell’ambiente attorno.
Vent’anni dopo uno dei più prolifici autori di tele bianche fu Robert Ryman, artista concettuale e minimalista nato a Nashville nel 1930, che realizzò decine di monocromi bianchi giocando sulla diversità di cornici, texture e strutture. La sua opera più famosa in tal senso è Vector, realizzata tra il 1975 e il 1977, costituita da un pannello di undici moduli di legno della stessa grandezza dipinti di bianco e appesi alla stessa distanza l’uno dall’altro, così che anche lo sfondo diventasse parte dell’opera. Nel 2015 Bridge, una sua tela bianca, è stata venduta all’asta da Christie’s per 20,6 milioni di dollari, 17 milioni di euro.
Bridge (1980) di Robert Ridman (Christie’s)
Altre tele bianche sono quelle di Agnes Martin, che ricercano la bellezza e la serenità: «l’arte è la rappresentazione concreta dei nostri sentimenti più sottili», spiegò una volta. E un’altra che «i miei dipinti non parlano di ciò che si vede, ma di quello che è presente in eterno nella mente». Martin iniziò a sperimentare con il bianco dopo aver osservato il deserto del New Mexico e finì per dipingere tele quadrate larghe mezzo metro, dove il bianco è articolato in una leggera griglia di linee evanescenti, come si vede per esempio in White Stone di Agnes Martin.
White Stone di Agnes Martin, conservato al Guggenheim di New York (Sergio Calleja)
Le grandi tele bianche erano poco comprensibili anche in quegli anni in cui molti artisti vi si dedicavano: per esempio il venditore d’arte che rappresentava l’artista Jo Baer decise di intitolare “Serie coreana” un gruppo di 16 tele bianche, perché la sua arte era sconosciuta e incompresa in Occidente quanto quella coreana. Il bianco era circoscritto da cornici blu e nere, come poi molti altri quadri successivi di Baer, tutti con un grosso bordo nero e un più sottile interno, dei colori più vari: erano soprattutto studi sulle sfumature, sulla luce e sui suoi effetti.
Untitled (White Square Lavender) (1964-1974) di Jo Baer (Christie’s)
Anche gli studi sul bianco del modernista Josef Albers – esponente tedesco del Bauhaus poi naturalizzato statunitense – ebbero un impatto, come tutti i suoi lavori. I più famosi sono gli Omaggi al quadrato, una serie che iniziò nel 1949 e che continuò per circa 25 anni studiando le interazioni cromatiche: ogni studio è composto da tre o quattro quadrati accostati o inseriti uno nell’altro.
La forza dei White Paintings e delle tele bianche in generale, spiega il sito del Museum of Modern Art di New York, «sta negli spostamenti di attenzione richiesti all’osservatore: impongono di rallentare, di guardare più volte da vicino, di ispezionare le mute superfici dipinte in cerca di sottili cambiamenti di colore, luce e texture». L’impegno e il coinvolgimento necessario da parte dell’osservatore è la chiave per comprendere tutti questi quadri bianchi, spiega anche Elisabeth Sherman, una curatrice del Whitney Museum di New York, dedicato all’arte contemporanea. Il bianco, ricorda Sherman, non è mai qualcosa di assolutamente puro, è fatto di una varietà di pigmenti, come sa chiunque abbia dipinto di bianco i muri di casa, trovandosi davanti a una gamma numerosa tra cui scegliere. Osservando da vicino queste tele bianche emergono linee sottili, grumi di colore, consistenze diverse, pattern, persino colori che compongono le diverse sfumature di bianco. Sono opere che non dicono tanto qualcosa in sé, ma che spesso provocano una reazione nello spettatore: che sia di rabbia, indignazione, spaesamento o abbandono. Come spiega Sherman, solo osservandole si può imparare qualcosa sull’opera, ma soprattutto su di noi.