Nicole Kidman è sottovalutata?
Nonostante le parti diverse e poco convenzionali che ha recitato in carriera, difficilmente la consideriamo una "grande attrice": a torto, dice il Washington Post
di Ann Hornaday – The Washington Post
Nicole Kidman. Il nome evoca molte immagini e associazioni: la cascata di ricci rossi, il viso impertinente e gli occhi blu di quando era ancora un’attrice alle prime armi; il matrimonio con Tom Cruise e la successiva fuga da Scientology; il fisico agile e i tratti innocenti che presenta ancora oggi. Un’espressione che però spesso ci dimentichiamo di attribuire a Kidman è “grande attrice”. Forse per via del suo atteggiamento, caratterizzato da una modestia schiva e riservata, ha reso facile sottovalutare Kidman nel corso di una carriera ormai trentennale. La settimana scorsa, però, ci ha fatto ricordare perché dovremmo apprezzare un’attrice che è riuscita ad avere una delle carriere più affascinanti in assoluto in un settore famoso per etichettare le star all’inizio della loro carriera, tenerle chiuse in una scatola e poi scartarle quando le loro caratteristiche fisiche iniziano a mostrare segni di decadimento o di naturale evoluzione.
Kidman è riuscita a sfuggire a questa trappola, come può confermare chiunque abbia visto la recente serie di HBO Big Little Lies. La serie – a metà tra un thriller che coinvolge lo spettatore in modo compulsivo e un melodramma domestico – si è rivelata un successo inaspettato nell’era del “picco della televisione”, grazie principalmente al suo cast, che comprende Reese Witherspoon, Laura Dern, Zoë Kravitz, Shailene Woodley e Kidman, nella parte di una donna vittima di abusi sposata con un dirigente di successo. Kidman – che ha coprodotto la serie insieme a Whiterspoon – si è fatta notare per la sua interpretazione di una donna che combatte per la sua sopravvivenza fisica e psichica, trasmettendo un senso di vergogna, ambiguità, fredda confusione, determinazione e segni appena percepibili di forza latente. Quella di Kidman, mai appariscente o gratuita, è un’interpretazione delicata e studiata nei minimi dettagli, come la porcellana di cui sembra fatto il suo personaggio, Celeste, che ricorda una bambola.
Subito dopo la grande prova in Big Little Lies Kidman ha condotto il suo pubblico in tutt’altra direzione: in Queen of the Desert, uscito venerdì negli Stati Uniti, interpreta la celebre esploratrice, scrittrice e fotografa Gertrude Bell, una contemporanea di T.E. Lawrence che viaggiò nella penisola araba all’inizio del Novecento contribuendo a ridisegnare i confini nazionali della regione dopo la Prima guerra mondiale. Queen of the Desert, scritto e diretto da Werner Herzog con un insolito tocco poco incisivo e a tratti banalmente sentimentale, non è un gran film. Spesso, anzi, risulta essere un film brutto, nonostante gli sforzi accaniti di realizzare la versione al femminile di Lawrence d’Arabia. Nessuno dei difetti del film, però, è imputabile a Kidman, che domina lo schermo in quasi ogni scena con compostezza regale e moderazione (e, apparentemente, anche con una dose generosa di crema solare protezione 50). Nella filmografia di Kidman questa è una dinamica frequente: l’attrice ha qualche celebre fallimento alle spalle, come il film storico eccessivo e pseudo-epico Australia, o The Paperboy, deliziosamente sopra le righe, o l’avventato film sulla vita di Grace Kelly, Grace di Monaco, per citare i più recenti. Anche nei suoi film peggiori, tuttavia, il problema non è mai Kidman. Le sue interpretazioni si elevano rispetto a qualsiasi porcheria in cui reciti, come se la sua suprema padronanza di sé come attrice l’avesse resa immune al materiale tossico sul quale doveva lavorare.
I brutti film in cui ha recitato, poi, sono relativamente pochi rispetto alla miriade di trionfi: Kidman vinse un Oscar per la sua interpretazione di Virginia Woolf in The Hours (si discute ancora su quel naso), arrivato ben sette anni dopo la sua incredibile prova nei panni della giornalista televisiva alla ricerca della notorietà in Da morire, nel quale mise a tacere definitivamente chi dubitava di lei. Basterebbe solo considerare il ruolo privo di vanità di Kidman come attrice non protagonista in Lion dell’anno scorso, soffermarsi velocemente su Moulin Rouge! e The Others, e tornare ai ruoli che l’hanno portata al successo in Ore 10: Calma piatta e Giorni di tuono per apprezzare il rigore e la varietà espressiva di un’attrice che può reggere con facilità il confronto con interpreti del calibro di Meryl Streep, Viola Davis e Cate Blanchett, ma che raramente viene accostata a loro.
Rigore, varietà e, soprattutto, curiosità: le scelte di Kidman riguardo ai soggetti e ai registi con i quali decide di lavorare sono ammirevoli quanto le sue prove da attrice. Da quando è diventata un’attrice di successo, Kidman ha realizzato piccoli film artisticamente rischiosi, che avrebbero potuto non essere vantaggiosi dal punto di vista finanziario, della fama o del pubblico, ma che hanno promosso il cinema in maniera esilarante, a volte strana o addirittura alienante. Per ogni tradizionale produzione hollywoodiana in cui ha recitato, come Ritorno a Cold Mountain o The interpreter, Kidman si è anche prestata a freddi esperimenti brechtiani di sottomissione come attrice, come in Dogville di Lars von Trier, oppure ha sostenuto registi emergenti, come nel caso del thriller soprannaturale di Jonathan Glazer Birth – Io sono Sean. In pochi hanno visto l’ipnotica interpretazione di Kidman della fotografa Diane Arbus nell’innovativo Fur – Un ritratto immaginario, quella di una madre in lutto in Rabbit Hole, o ancora quella della figlia adulta traumatizzata dai genitori, artisti egocentrici, in The Family Gang. Kidman è diventata una delle interpreti più preziose e avventurose del settore, un’attrice di prima grandezza che – fregandosene delle classifiche di riconoscibilità e di gradimento – sfrutta le suo doti e la sua capacità di generare alti incassi al botteghino per far progredire l’arte cinematografica. Non dovrebbe sorprendere il fatto che i suoi prossimi progetti comprendono una serie TV poliziesca, tagliente e femminista come Top of the Lake e film diretti da Sofia Coppola e dal provocatore greco Yorgos Lanthimos (The Lobster).
L’anno scorso, scrivendo dell’attrice Isabelle Huppert su New Republic, la critica Miriam Bale ha sottolineato come nel film Elle Huppert fosse diventata un’autrice, e di come le sue capacità e il suo personaggio potente fossero riusciti a trascendere il soggetto del film contribuendo a plasmarlo, con un ruolo cruciale quanto quello del regista. Lo stesso – in modo addirittura più evidente – vale per Kidman, il cui acuto occhio autoriale non si rivela in un film solo ma nell’arco di un’intera carriera. In un settore che si dedica alla fuga, alle rassicurazioni superficiali e alla banalizzazione, Kidman ha perseguito con determinazione la riflessività, l’intelligenza e il rischio, sia come attrice che come produttrice (alla voce rischio vedasi il thriller erotico imperfetto, strambo ma meravigliosamente focalizzato sulle donne In the Cut).
Per le attrici cercare di superare i confini, esplorare limiti da trasgredire in nome della pubblicità, per “espandersi” o semplicemente mantenere la loro rilevanza non è una novità. Nel caso di Kidman, però, la sua interpretazione più raffinata potrebbe essere cumulativa, e va ben al di là del lavoro consuetudinario nel portare un personaggio dalla sceneggiatura allo schermo. Il suo genio è strategico quanto tecnico, nel suo modo di sfruttare costantemente la sua fama a favore della crescita, del gusto e della sofisticazione. Grazie alle sue eccezionali doti tecniche e fisiche, negli ultimi trent’anni avrebbe potuto limitarsi a comportarsi come una sonnambula. Invece Nicole Kidman ha scelto di tenere gli occhi ben aperti.
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