George Michael è stato sottovalutato

La sua esuberanza e le canzoni pop un po' frivole hanno spinto la critica a trascurare il peso politico e sociale che ebbe negli anni Ottanta

di Tyler Huckabee – Washington Post

George Michael durante un concerto a San Diego nel 2008 (Kevin Winter/Getty Images)
George Michael durante un concerto a San Diego nel 2008 (Kevin Winter/Getty Images)

Come metà degli Wham! e da solista, George Michael ha lasciato una collezione di singoli pop melensi che non ha pari, ma anche canzoni oneste, spinte e malinconiche. La maggior parte delle cose che i suoi detrattori non sopportavano erano esattamente le stesse che i suoi fan adoravano: la sua sincerità buonista e la sua incrollabile allegria. Nel 2016 è facile vedere queste cose come reliquie di un tempo passato, ma spiccavano anche nel suo periodo migliore, alla fine degli anni Ottanta. In un Regno Unito nettamente diviso dal thatcherismo, il marchio del pop ottimista di Michael pareva ingenuo e addirittura ignorante. Il tempo avrebbe rivelato che in realtà era coraggioso.

Nel 1979 Michael e il suo amico Andrew Ridgeley formarono un gruppo ska. Fu un fallimento, ma i due riemersero fondando gli Wham! e mandarono un demo a una nuova casa discografica chiamata Innervision, a cui la loro musica piacque molto. Michael e Ridgeley realizzarono in breve tempo il loro disco di debutto, “Fantastic”, da cui fu tratto Wham Rap!, che divenne rapidamente un successo. Il pezzo era divertente, le adolescenti lo adorarono e divenne una piccola hit. Michael e Ridgeley, cosa ancora più importante, si “vendevano” bene: erano giovani, belli, divertenti e famosi per salire sul palco indossando giacche di camoscio aperte e imbottendosi la parte davanti dei jeans con un volano da badminton. Presto si convinsero che Innervision li trattava ingiustamente, così annullarono il contratto e passarono a una nuova casa discografica, rinunciando a tutti i guadagni futuri derivanti dal loro primo disco. Sarebbe potuta sembrare una mossa avventata se gli Wham! si fossero dimostrati uno di quei gruppi da-una-canzone-di-successo-e-basta, come finirono per diventare molti dei loro ingenui contemporanei.

Non fu così: il loro primo singolo con la nuova etichetta fu Wake Me Up Before You Go-Go. Anche se non sapete nient’altro sugli Wham!, questa canzone la conoscete. Dice molto di quello che serve sapere sul gruppo, e in particolare su Michael. Sembra un lavoro di Sondheim e l’impressione è che quando parte il pezzo tutti debbano iniziare a far piroette sopra i tavoli del ristorante. È una delizia, se vi piace quel genere di cosa, altrimenti lo troverete diabolico. Negli anni Ottanta quel genere di cosa piaceva ad abbastanza persone da spingere gli Wham! verso la fama mondiale e a rivaleggiare con i Culture Club per il titolo di gruppo pop più popolare del Regno Unito degli anni Ottanta. Ma la rabbia che ribolliva nella disaffezionata scena alternativa britannica avrebbe fatto sì che gli Wham! fossero per sempre esclusi da un certo livello di rispettabilità alla moda e dall’acclamazione della critica.

L’anno dell’uscita di Wake Me Up Before You Go-Go fu lo stesso del debutto degli Smiths, e se alla critica gli Wham! piacquero, gli Smiths furono adorati. La musica seria stava tendendo verso il panico nucleare e l’angoscia politica. In quest’ottica, la produzione degli Wham! venne bollata come un po’ immatura. Michael, tuttavia, era un musicista molto più avveduto di quanto all’epoca gli venisse riconosciuto. La sua successiva carriera da solista – con pezzi come Freedom ’90, Father Figure, Praying for Time – avrebbe consolidato la sua posizione di talento sofisticato. Diverse persone, tuttavia, rimasero perplesse quando nel 1983 Michael partecipò al talk show Eight Days a Week parlando entusiasticamente di “Closer”, l’ossessionante e malinconico disco dei Joy Division. Chiunque fosse stato abbastanza attento avrebbe potuto notare che Michael era ben consapevole dell’epoca in cui si era ritrovato ad avere un ruolo importante. Invece di covare rabbia scelse semplicemente di reagire con ottimismo.

La caratteristica maglietta di Michael con la scritta “CHOOSE LIFE” (“Scegli la vita”) – creata dalla stilista e attivista politica Katharine Hamnett – non fu pensata come presa di posizione antiabortista, ma piuttosto come un appello intenzionale alla speranza di fronte a prospettive scoraggianti. Da un punto di vista politico il Regno Unito dell’epoca (come quello di oggi) era nettamente polarizzato a seconda delle generazioni. Michael e molti dei suoi coetanei erano contrari alle politiche conservatrici di Margaret Thatcher, e i gruppi musicali diventarono sempre di più la linea della ribellione. Come precursori della nascente era delle boy band, gli Wham! non avrebbero dovuto farsi coinvolgere nella lotta: ma lo fecero comunque. Suonarono a un concerto di beneficenza per dei minatori in sciopero, una mossa enorme e sorprendentemente politica per un gruppo all’apice della sua fama (immaginatevi, per esempio, Ariana Grande apparire oggi a uno sciopero del sindacato degli insegnanti).

Michael faceva parte della sdolcinata scena pop britannica, ma non era della scena. Come raccontò notoriamente a Rolling Stone nel 1988, «ascoltando un disco dei Supremes o un disco dei Beatles, che vennero realizzati nel periodo in cui il pop era visto come una forma d’arte mediocre, come è possibile non rendersi conto di come l’entusiasmo di un buon disco pop sia una forma d’arte? A un certo punto il pop ha perso tutto il rispetto che aveva. Io penso che quello che faccio è prendere ostinatamente le sue difese». Michael credeva nel pop e pensava che avesse potere. A molte persone piace credere di essere di un livello troppo alto per la musica pop, ma molte altre non lo fanno. Michael faceva musica per queste. Visse anche seguendo il suo ottimismo sconfinato.

Dopo la sua morte, sui social network sono emerse decine di storie sulla generosità segreta di Michael, dalla mance a quattro cifre date a cameriere in difficoltà, a turni anonimi di volontariato nei rifugi per i senzatetto. Verificare queste storie è difficile, ma la passione di Michael per la beneficenza è ben nota. Che si trattasse di un concerto gratuito per il National Health Service, il sistema sanitario britannico, come ringraziamento per le cure a sua madre, o di una donazione segreta a un concorrente del quiz televisivo inglese Deal or No Deal che aveva bisogno di cure mediche, Michael non si accontentava di rimanere nella sua bolla di speranza, ma visse per allargarla ad altre persone. Tutti i soldi che guadagnò con i diritti di Last Christmas furono destinati alla lotta alla fame in Etiopia.

Poi ci fu il suo impegno per la comunità LGBT. Le voci sulla sessualità di Michael circolarono per gran parte della sua carriera, fino a quando, dopo un arresto a Beverly Hills, confermò di essere gay. Michael decise poi di raccontare anche una delle più grandi tragedie della sua vita: la breve ma appassionata relazione con lo stilista brasiliano Anselmo Feleppa, che andò avanti dal 1991 alla morte di Feleppa per un’emorragia cerebrale legata all’AIDS nel 1993. Michael scrisse per lui “Jesus to a Child” e divenne un importante sostenitore del Terrence Higgins Trust, un ente benefico che si occupa di HIV. Fu anche, cosa quasi altrettanto importante e non certo di poco conto, una celebrità orgogliosamente gay negli anni Novanta. Vista con il senno di poi, l’esuberanza che caratterizzò gli Wham! e parte del lavoro solista di Michael sembra ancora più profonda. Michael scriveva canzoni incredibilmente popolari sull’amore e lo struggimento per una società che sapeva non avrebbe abbracciato a pieno la sua sessualità.

Tutto questo restituisce un ritratto di Michael decisamente più multidimensionale rispetto al ragazzo con un gilet di camoscio che si infilava un volano nei jeans. Ma a differenza di moltissimi casi in cui dopo la morte di un personaggio famoso vengono svelati dei fatti sul suo conto, i dettagli sulla vita di Michael aumentano solo il suo fascino. Sorridere davanti alle avversità non è un’impresa da poco, e il suo unico trucco è stato non far mai trasparire le sue vulnerabilità. Certo, non è sembrata una cosa difficile. Ma non lo sembra nemmeno un salto mortale, se si sa cosa si sta facendo. Michael sapeva che probabilmente la sua musica non sarebbe mai stata presa sul serio quanto meritava. Ma sapeva anche che uno stadio riempito da 90mila fan urlanti non poteva poi essere tanto male.

© 2016 – The Washington Post