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  • Giovedì 25 febbraio 2016

In Europa i poliziotti considerano qualcuno “sospetto” sulla base del colore della pelle?

È un'accusa rivolta da anni alla polizia americana – ed è una pratica illegale – ma gli allarmi sul terrorismo ne stanno facendo parlare anche qui

di Anthony Faiola – Washington Post

La polizia controlla un sospettato in una stazione ferroviaria di Parigi, il 19 novembre 2015 (THOMAS SAMSON/AFP/Getty Images)
La polizia controlla un sospettato in una stazione ferroviaria di Parigi, il 19 novembre 2015 (THOMAS SAMSON/AFP/Getty Images)

L’aumento dei controlli a campione e delle irruzioni nelle abitazioni da parte della polizia di molti stati europei secondo alcuni stanno inaugurando una nuova stagione di racial profiling, cioè la pratica per cui si considera sospetta una persona per via della sua etnia o del colore della pelle. In Francia sono preoccupati soprattutto i musulmani, che evidenziano il clima di paura che si è diffuso dopo gli attacchi di novembre a Parigi, in cui sono morte 130 persone. In paesi come Germania e Danimarca – dove sono cresciuti la diffidenza verso i richiedenti asilo e i timori per le minacce terroristiche – le misure della polizia verso le minoranze e le attività di racial profiling in nightclub e piscine pubbliche sono aumentate.

Gli attivisti per la difesa delle minoranze denunciano da anni pratiche di racial profiling in Europa, che però non sarebbero mai state tanto frequenti ed esplicite. Grazie all’attuale stato di emergenza in Francia, per esempio, oggi la polizia ha ampi poteri per detenere sospettati e fare irruzioni senza bisogno dell’ordinanza di un tribunale. Finora le autorità hanno compiuto 3.200 irruzioni e messo quasi 400 persone agli arresti domiciliari. Le irruzioni hanno portato all’apertura di solo cinque indagini legate al terrorismo, danneggiando però le porte di diverse case abitate per lo più da musulmani. In Francia ci sono stati casi diversi di detenzioni ingiuste legate a operazioni anti-terrorismo. A fine gennaio un giudice francese ha scoperto dopo nove settimane che Halim Abdelmalek, proprietario di un piccolo negozio di riparazioni per moto, era stato messo per errore agli arresti domiciliari. Alla fine è stato scarcerato, ma a causa della detenzione la sua officina è quasi fallita ed è stato costretto a licenziare due dipendenti. «Non ho detto niente ai miei figli: ho raccontato loro che mi ero fatto male alla schiena e che per questo dovevo stare a casa», ha sussurrato Abdelmalek nel suo soggiorno nella periferia di Parigi, mentre i suoi due figli piccoli sbirciavano da dietro una porta nel corridoio. «Ho paura: non c’è più uno stato di diritto, siamo in un regime discriminatorio. Ora siamo tutti sospettati».

Gli attivisti sostengono che il maggiore livello di controlli e arresti sia rivolto principalmente verso neri e persone provenienti dal sud dell’Asia: ne è nato un dibattito che ricorda quello sul trattamento delle minoranze etniche da parte delle forze dell’ordine negli Stati Uniti. In Europa, tuttavia, queste operazioni sembrano indirizzate prevalentemente verso persone “dall’aspetto musulmano”. In teoria le leggi dell’Unione Europea proibiscono il racial profiling, e in molti paesi, come Francia e Germania, di norma non esistono registri di fermi e perquisizioni. Ma da Barcellona a Varsavia, da Monaco a Parigi, è diventato normale vedere persone appartenenti a minoranze etniche fermate a posti di blocco della polizia, mentre i bianchi e i turisti passano oltre indisturbati.

Al termine di una serie di spettacoli in Belgio, il mese scorso il comico 33enne francese Yassine Belattar aveva preso un treno da Bruxelles a Parigi con un suo collaboratore. Poco dopo essere scesi a Parigi, ha raccontato Belattar, sono stati fermati bruscamente dalla polizia: Belattar, che ha la carnagione olivastra, è stato perquisito, mentre il suo socio bianco è potuto passare oltre. «Non potevo crederci. Ho detto ai poliziotti che il mio socio viaggiava con me: perché non perquisivano anche lui? Invece facevano passare tutte le persone bianche», ha raccontato Belattar. «Hanno aperto la mia valigia e tirato fuori i miei vestiti uno per uno. Ero nervoso e mi sentivo umiliato». All’aeroporto Tegel di Berlino questo mese due poliziotti tedeschi passavano in rassegna la folla nella zona del ritiro bagagli e hanno chiesto a circa cinque passeggeri, tutti con la pelle scura, di mostrare i passaporti. «Perché?», ha chiesto un indiano di mezza età che indossava un cappello di lana colorato. «È per questo, vero?», ha aggiunto sfregandosi la pelle del braccio, «se fossi come loro? Niente!».

Le autorità europee negano con fermezza di ricorrere al racial profiling. In privato, però, molti funzionari di sicurezza hanno ammesso che viste le caratteristiche comuni di molti sospettati di terrorismo e di migranti, è meno probabile che a essere fermati siano, per esempio, una nonna francese o un manager tedesco ben vestito, sottolineando però che l’etnia non è l’elemento determinante per decidere chi controllare e citando anche altri fattori come il comportamento e l’abbigliamento. «Siamo accusati sempre più spesso di razzismo», ha detto Ivo Priebe, portavoce della polizia federale tedesca, «Respingo l’accusa. Conduciamo controlli sulla base delle informazioni a disposizione della polizia, e non in base al colore della pelle».

In Germania il problema non è solo il terrorismo. Il numero crescente di accuse di molestie sessuali e aggressioni rivolte a richiedenti asilo ha spinto nightclub, bar e piscine pubbliche a vietare l’ingresso agli uomini giovani che hanno un certo tipo di aspetto. Nella città tedesca di Münster il gruppo locale di attivisti “Alleanza Anti Deportazione” ha documentato come l’8 febbraio, durante le celebrazioni annuali per il Carnevale, sette persone siano state fermate e perquisite a un posto di blocco della polizia. Nessuna di loro sembrava di origine tedesca. La polizia ha detto di averle scelte «per puro caso».

Altre persone sottolineano come le paure legate al terrorismo e ai migranti stiano rendendo le attività di profilazione razziale più accettabili socialmente. In Danimarca almeno un nightclub ha già adottato una misura per tenere lontani i rifugiati: accetta solo clienti che parlano danese, tedesco o inglese, e altri locali starebbero prendendo in considerazione di introdurre la stessa politica. Lo scorso novembre un gruppo di quattro uomini di Monaco, due bianchi e due neri, ha condotto uno studio senza valore scientifico e ha verificato le politiche di ingresso di alcune discoteche in due notti diverse. La prima notte 19 locali su 20 hanno fatto entrare i bianchi, e 14 hanno respinto i neri. La seconda notte, invece, i tedeschi bianchi sono riusciti ad entrare in tutte le discoteche, mentre i neri sono stati respinti in 14 locali su 25. «Siamo stati anche aggrediti verbalmente e fisicamente», ha raccontato Boubacar Bah, un migrante arrivato in Germania dal Senegal che ha partecipato allo studio. «Quando ho provato a superarlo, il buttafuori mi ha spinto via. Ci aspettavamo che mi dicesse che non potevo entrare, ma non che mi spingesse. È difficile non perdere il controllo quando ti viene negata la dignità umana in questo modo».

In Francia le autorità hanno difeso le 3.200 irruzioni compiute durante lo stato di emergenza. Se è vero che da una parte sono state avviate solo cinque indagini per terrorismo, le irruzioni hanno però portato alla scoperta di quantità significative di armi, droghe e altre prove di attività illegali. Ma secondo i gruppi per la difesa delle libertà civili le prove a sostegno dei maggiori controlli verso i musulmani sono inconsistenti. Abdelmalek, per esempio, è stato condannato agli arresti domiciliari poco dopo gli attacchi di novembre a Parigi. Tra le altre accuse, le autorità hanno sostenuto di averlo visto fotografare, diversi mesi prima, la casa di uno dei vignettisti di Charlie Hebdo, il giornale satirico attaccato da estremisti di origine francese nel gennaio del 2015. Abdelmalek sostiene che in realtà si trovava a un incrocio vicino, e stava semplicemente parlando al telefono con sua moglie, con cui si sarebbe incontrato per portare il figlio a casa della madre di Abdelmalek, che vive a qualche metro dalla casa del vignettista. Dopo aver fatto ricorso contro la condanna agli arresti domiciliari, il mese scorso un giudice ha dato ragione ad Abdelmalek. Lo stato francese dovrà pagargli 1.482 euro, una somma che secondo Abdelmalek non si avvicina nemmeno a coprire i danni subiti dal suo negozio a causa delle nove settimane di domiciliari. «Il punto non sono i soldi: è la dignità, a cui non si può dare un prezzo», ha detto.

© 2016 – Washington Post