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  • Mercoledì 25 novembre 2015

Storie di New York, raccontate da Capote, Fitzgerald e tanti altri

Il racconto di Tom Wolfe tratto da un'antologia dedicata alla città, curata da Paolo Cognetti e appena pubblicata da Einaudi

Il ponte di Brooklyn a New York, 24 febbraio 2015
(AP Photo/Seth Wenig)
Il ponte di Brooklyn a New York, 24 febbraio 2015 (AP Photo/Seth Wenig)

New York stories è un’antologia di 22 racconti pubblicata da Einaudi e curata dallo scrittore Paolo Cognetti che si era già occupato della città in New York è una finestra senza tende. New York è la città su cui nel Novecento si è scritto di più e come ricorda Cognetti nell’introduzione: «Ogni antologia su New York è solo una delle tante possibili. Non c’è scrittore, americano o no, che passando di lì non abbia lasciato un racconto, un romanzo, una poesia, una pagina di diario. Più che un libro, se ne farebbe una biblioteca». Anche a causa della sovrabbondanza, la raccolta si limita ai racconti escludendo estratti di romanzi famosi come Colazione da Tiffany di Capote, Il Grande Gatsby di Scott Fitzgerald o Il giovane Holden di Salinger. Il libro è suddiviso in cinque sezioni ordinate secondo un criterio cronologico: Gli anni ruggenti
, La grande migrazione, I love NY
, L’età ribelle, Luminosa decadenza di New York. Ogni sezione è introdotta da un breve testo del curatore. I racconti sono, nell’ordine in cui appaiono di: 1. Francis Scott Fitzgerald 2. Dorothy Parker 3. Thomas Wolfe 4. Henry Miller 5. Mario Soldati 6. 
Zora Neal Hurston 7. Bernard Malamud 8. Nicholasa Mohr 9. Truman Capote 10. John Cheever 11. Richard Yates 12. Maeve Brennan 13. Ed Sanders 14. Oriana Fallaci 15. Grace Paley 16. 
Mario Maffi 17. Joan Didion 18. 
Don DeLillo 19. 
David Leavitt 20. Mona Simpson 21. Nathan Englander 22. Colson Whitehead.

Un indice-mappa della città con i numerini indica i luoghi in cui ogni racconto è ambientato.

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Il racconto che pubblichiamo è di Thomas Wolfe, scrittore morto nel 1938, a soli 38 anni, che fu tra i più famosi e apprezzati della sua generazione, per esempio da William Faulkner. Solo i morti conoscono Brooklyn descrive l’incontro del narratore con un ubriaco che vuole andare a Bensonhurst perché gli piace il nome, ma non sa come arrivarci nonostante porti con sé un’enorme cartina.

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* * *

Thomas Wolfe
Solo i morti conoscono Brooklyn 

Nessuno al mondo conosce davvero tutta Brooklyn – nessuno vivo, quantomeno – perché ti ci vuole una vita intera anche solo per fartene un’idea, di questa città.
Ed ecco che mentre sto aspettando il mio treno vedo questo tipo. Alto e grosso. È la prima volta che lo vedo in vita mia. E, be’, sembrava messo male, si vedeva che aveva bevuto un sacco ma che provava a tenere botta: non biascicava e camminava abbastanza diritto. Dunque, questo tizio si avvicina a un altro piú basso e gli fa: – Come faccio ad arrivare alla Diciottesima Strada all’angolo con la Sessantasettesima?

– Oddio, sai che non lo so, amico? – gli risponde il piccoletto. – Neppure io vivo qui da molto. Dov’è questo posto? – chiede. – Dalle parti di Flatbush?
– Naaa, – dice il tipo alto, – è a Bensonhurst. Ma non ci sono mai stato. Come ci si arriva?
– Oddio, – dice l’altro, grattandosi la testa, si vedeva che non aveva idea di come arrivarci, – sai che non ne ho mai sentito parlare, amico? Qualcuno di voi sa dov’è? – mi chiede.
– Certo, – dico, – è a Bensonhurst. Prendi l’espresso che si fa la Quarta Avenue, scendi alla Cinquantanovesima, lí prendi il locale per Sea Beach, scendi sulla Diciottesima e cammini per quattro isolati. Tutto qui, – dico.
– Cosa? – si mette in mezzo uno mai visto prima, uno di quelli che la sanno sempre lunga. – Che stai dicendo? – dice, oh, la sapeva lunga davvero. – Questo qui non sa di che parla! Te lo dico io cosa fare, – dice al tizio alto.
– Cambi e prendi la West End alla Trentaseiesima, – dice, – vai dritto per due isolati, giri e prosegui per altri quattro, – gli fa, – e sei bello che arrivato –. Sapeva davvero tutto, oh sí.
– Ah sí? – dico. – E chi è che te l’ha detto, a te? – Mi rodeva che fosse cosí sicuro di quello che diceva. – Da quant’è che vivi qui? – gli faccio.
– Tutta la vita, – dice quello. – Sono di Willamsburg, – dice. – E ti potrei raccontare certe cose, di questa città, che non hai mai sentito prima, – mi fa.
– Sí? – dico.
– Sí, – dice.
– Be’, se non le ho mai sentite io, allora, magari non le ha mai sentite nessuno. Magari perché te le studi la notte, – gli faccio, – prima di andare a nanna, mentre ritagli i cartamodelli o cose cosí.
– Ah sí? – dice. – Pensi di saperla lunga, eh?
– Oh, non saprei, – dico. – Che io sappia i piccioni non hanno ancora preso la mia testa per quella della statua di Lincoln, – gli faccio. – Ma ne so a sufficienza per distinguere un pagliaccio quando ne vedo uno.

Il mio treno stava arrivando, altrimenti gliele avrei date, giuro, ma quando ho visto che arrivava il mio treno gli ho detto: – Bene, cazzone, mi spiace non potermi occupare di te, ma ci vedremo di sicuro, prima o poi, magari al cimitero –. E poi faccio al tipo alto, che se ne era rimasto lí tutto il tempo: – Seguimi, – gli dico. E poi, una volta sul treno, gli chiedo: – Dov’è che vai, di preciso, a Bensonhurst? – gli faccio. – Numero civico, via? – gli chiedo. Capite? Pensavo che se mi avesse dato l’indirizzo esatto avrei potuto aiutarlo piú facilmente.

– Ah sí? – dice quello. – Abbiamo un intelligentone, eh? Be’, se sei cosí intelligente, bada che prima o poi qualcuno non ti metta le mani in faccia, – dice. – Riflettici, dato che sei cosí intelligente.
– Oh, – dice. – Non ho un indirizzo preciso. Non conosco nessuno, lí.
– E allora che ci vai a fare?
– Oh, – mi fa, – giusto a dare un’occhiata, – dice il tipo. – Mi piace il nome, Bensonhurst, capisci? Cosí ho pensato che dovevo andare a darci un’occhiata, – dice.
– Che cosa? – dico. – Che fai? Mi prendi per il culo? – Pensavo stesse scherzando.
– No, – mi fa, – è la verità. Mi piace andarmene in giro e dare un’occhiata ai posti con dei nomi interessanti. In effetti, mi piace andarmene in giro e osservare i posti e basta.
– E come fai a sapere di certi posti, – gli faccio, – se non ci sei mai stato prima?
– Bè, – dice, – ho una cartina.
– Una cartina? – gli faccio.
– Certo, – dice. – Una cartina che mi dice tutto quello che c’è da sapere su questi posti. Me la porto dietro ogni volta che vengo a fare un giro da queste parti, – dice.

E, per dio!, detto questo la tira fuori dalla tasca e, credetemi, ce l’aveva davvero – stava dicendo la verità – una grande cartina di tutta la cavolo di città con lo schema di tutti i quartieri. Sapete: Canarsie e East New York e Flatbush, Bensonhurst, South Brooklyn, gli Heights, Bay Ridge, Greenpoint – tutta spiattellata lí, l’intera città, ce l’ha tutta lí su quella sua cartina.

– Sei stato in tutti questi posti? – gli faccio.
– Certo, – dice. – La maggior parte. Sono stato a Red Hook, ieri sera, – dice.
– Per dio! Red Hook, – dico. – E che ci facevi laggiú?
– Oh, – mi fa. – Niente di che. Ho fatto due passi. Sono entrato in un paio di locali a bere una cosa, – dice. – Ma perlopiú ho camminato.
– Camminato?
– Esatto, – mi fa. – Non so come si chiama il posto, ma posso indicartelo sulla cartina, – dice. – A un certo punto mi sono ritrovato in mezzo a questi grandi campi vuoti, completamente vuoti, neanche una casa, – dice, – ma potevo vedere delle navi in lontananza, tutte illuminate. Stavano caricando. Cosí ho attraversato uno di quei campi, – dice, – fino a raggiungerle.
– Chiaro, – dico. – Ho capito dov’eri. Dalle parti del bacino Erie.
– Sí, – mi dice, – immagino di sí. C’erano queste grosse gru e questi grandi montacarichi e stavano caricando le navi e si vedevano anche le navi nei bacini di carenaggio tutte illuminate, cosí ho tagliato per i campi fino ad arrivarci vicino, – dice.
– E poi cos’hai fatto? – gli chiedo.
– Oh, – mi fa, – niente di che. Dopo un po’ sono tornato indietro per i campi e mi sono fermato in un paio di posti a bere una cosa.
– E mentre eri lí non è successo niente di particolare? – chiedo.
– No, – mi fa, – niente di che. In uno dei locali, un paio di tipi erano sbronzi e si sono menati, ma li hanno sbattuti fuori, – dice, – e poi uno dei due ha fatto per tornare indietro, ma il barista ha tirato fuori la mazza da baseball da sotto il bancone, e cosí il tipo se ne è andato.
– Dio santo! – dico. – Red Hook!
– Già, – mi fa lui, – proprio cosí.
– Be’, stanne alla larga, – gli dico. – Stacci lontano.
– Perché? – mi fa. – Che c’è che non va in Red Hook? – Oh, be’, – dico, – è solo uno di quei posti da cui è bene stare alla larga, tutto qui. Un posto da cui è meglio star alla larga.
– Perché? – mi fa. – Perché dici cosí?

Dio santo! Che puoi farci con uno cosí fesso? Ho capito che non valeva la pena dirgli nulla, non avrebbe capito di cosa stavo parlando, cosí gli ho detto solo: – Ah, niente. Rischi di perderti, laggiú, tutto qui.

– Perdermi? – mi fa. – Naaa, non mi perdo di sicuro. Ho una cartina, – dice.

Una cartina! Red Hook! Dio santo!

E poi questo tizio comincia a farmi un sacco di domande strane: e quanto è grande Brooklyn e se riesco a orientarmici e quanto ci vuole, a uno, per conoscerla tutta.

– Ascolta, – gli faccio, – togliti un’idea simile dalla testa, – dico. – Non arriverai mai a conoscere davvero tutta Brooklyn, – dico, – neppure in mille anni. Vivo qui da tutta la vita, – faccio, – e non so tutto quello che c’è da sapere, perciò come fai a pensare di conoscerla tutta, questa città, – dico, – se neppure ci vivi?
– Già, – mi fa lui, – ma ho una cartina che mi aiuta.
– Cartina o no, – gli dico, – non arriverai mai a conoscere davvero Brooklyn, non con una cartina, – gli dico.
– Sai nuotare? – mi fa, cosí, all’improvviso. Dio santo! A quel punto, capite, mi ero accorto che non era tutto finito. Aveva bevuto parecchio, certo, ma aveva uno sguardo un po’ folle che non mi convinceva per niente.
– Sai nuotare? – mi chiede.
– Certo, – gli dico. – Tu no?
– Macché, – mi fa. – Qualche bracciata. Mai davvero imparato.
– Be’, in realtà è facilissimo, – dico. – Tutto quello che ti serve è un po’ di fiducia in te stesso. Sai come ho imparato io? Un giorno, dovevo avere otto anni, mio fratello piú grande mi ha spinto giú dal molo coi vestiti e tutto, «Adesso nuoti, – mi ha detto, – nuoti, oppure anneghi». E, indovina?, ho nuotato. Quando sai che devi, lo fai. Tutto quello che ti serve è un po’ di fiducia. E una volta che hai imparato, – gli dico, – non hai piú niente di cui preoccuparti. Non lo dimentichi piú. È una di quelle cose che ti porti appresso per tutta la vita.
– Come un pesce, – gli faccio. – Un pesce, proprio cosí – gli dico. – Ho imparato a nuotare ai moli, da ragazzino, con gli amici, – dico.
– E nuoti bene? – mi chiede.
– E cosa faresti se vedessi un uomo affogare? – mi chiede.
– Cosa farei? Be’, mi butterei in acqua per provare a tirarlo fuori, – gli faccio, – ecco cosa farei.
– E hai mai visto un uomo affogare?
– Sí, – faccio, – due. Due tizi, a Coney Island tutte e due le volte. Si erano spinti troppo al largo e nessuno dei due sapeva nuotare. Sono annegati prima ancora che qualcuno potesse raggiungerli.
– Cosa succede alle persone che affogano, qui? – mi fa. – Che affogano «qui», dove? – chiedo.
– A Brooklyn.
– Non so cosa intendi, – gli dico. – Mai sentito di qualcuno annegato a Brooklyn, a meno che non intendi in piscina. Come fai ad affogare a Brooklyn? – gli faccio. – Sono altri, i posti in cui rischi di annegare, sai, quelli dove c’è l’acqua, tipo, chessò, l’oceano.
– Affogare, – fa lui, guardando la sua cartina. – Affogare.

Dio santo! A quel punto era chiaro che non stava bene, aveva questa espressione da pazzo, negli occhi, quando ti guardava, e non sapevo cosa avrebbe potuto fare. Ci stavamo avvicinando a una stazione, a quel punto – non era la mia, ma sono sceso lo stesso e ho aspettato il treno dopo.

– Be’, ci vediamo, – gli faccio. – Stammi bene.
– Affogare, – fa lui, guardando la sua cartina. – Affogare. Per dio, da allora ho pensato un sacco di volte a questo tipo, chiedendomi cosa gli fosse successo, mentre se ne andava in giro per Bensonhurst solo perché gli piaceva il nome. A girare di notte da solo per Red Hook con la sua cartina davanti agli occhi! Se ho mai visto qualcuno affogare, qui a Brooklyn! Quanto ci metterebbe, uno con una cartina, a conoscere Brooklyn palmo a palmo! Dio santo! Che matto! Comunque, mi chiedo cosa gli sia successo! Mi chiedo se qualcuno l’ha fracassato di botte o se ne va ancora in giro di notte per la metro con la sua cartina! Poveraccio! Capite? Mi viene da ridere, a ripensarci! Magari, adesso si è finalmente ficcato in testa che non vivrà abbastanza a lungo da conoscere davvero tutta Brooklyn. Ci vuole una vita, per conoscere davvero tutta Brooklyn. E anche allora, non la conoscerai mai per davvero.

Traduzione di Mario Capello

© 2015 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino