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  • Sabato 23 maggio 2015

La Roma di “Mia madre”, di Nanni Moretti

L’ospedale Forlanini, Prati e il Campidoglio: li racconta un libro dedicato a tutti i luoghi romani che compaiono nei suoi film

Una scena di Mia madre di Nanni Moretti
Una scena di Mia madre di Nanni Moretti

La casa editrice Lozzi ha pubblicato Viaggio a Roma con Nanni Moretti , degli scrittori Paolo Di Paolo e Giorgio Biferali. Il libro racconta i luoghi – piazze, strade, palazzi e scorci – in cui sono stati girati i film romani di Nanni Moretti, da Aprile, a Caro Diario a Mia Madre, rievocandone le atmosfere, i personaggi e le battute. Per ogni film vengono indicati i quartieri principali in cui è stato girato, insieme a una mappa in cui si svolge una scena importante della vicenda. Il libro è accompagnato da alcune fotografie e da un’intervista con Moretti che parla del legame suo e dei suoi film con Roma.

Paolo Di Paolo è uno scrittore nato a Roma nel 1983 mentre Moretti girava Bianca; è autore tra le altre cose di Dove eravate tutti (Feltrinelli 2011) e di Mandami tanta vita (Feltrinelli 2013), tra i finalisti del Premio Strega 2013. Giorgio Biferali, è nato sempre a Roma nel 1988, mentre Moretti girava Palombella Rossa. È autore del saggio Giorgio Manganelli. Amore, controfigura del nulla (Artemide 2014).

Di seguito, la parte in cui Moretti racconta dei luoghi di Mia madre, il suo ultimo film, e parte del capitolo che vi è dedicato.

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Autori: Quali sono i luoghi in cui è ambientato il suo ultimo film, Mia madre?
Moretti: È presente, in buona parte del film, l’ospedale Forlanini, di cui abbiamo preso un’ala reale e dismessa e l’abbiamo trattata come un teatro di posa (come ho fatto spesso in altri film). La casa della mamma è nel quartiere Prati, in via Crescenzio, ed è un ambiente importante per il film e per Margherita, la protagonista; era un appartamento vuoto e l’arredamento è stato scelto interamente da noi. Per il “film nel film” abbiamo girato in una cartiera di Pomezia e in una tipografia su via Tiburtina, le sequenze in macchina sono nella zona del Torrino e all’Eur. La mensa del set è ricostruita nei capannoni del Poligrafico dello Stato. L’ufficio del mio personaggio è ricostruito in un locale che si chiama Lanificio, in via di Pietralata. Appaiono anche piazza Mancini, la stazione Ostiense – già apparsa in Sogni d’oro –, un bar all’aperto alle spalle del Campidoglio. Una scena all’alba, dopo la morte della madre, è girata su una terrazza, dalle parti di viale Somalia, si vede in lontananza la Tangenziale. Le manifestazioni di protesta del “film nel film” sono girate davanti a viale Gottardo, zona Montesacro.
Autori: Da cosa è nato questo film? Moretti: Dalla morte di mia madre, credo. Se non fossi passato attraverso questo avvenimento non avrei fatto questo film. Alle volte, i film ti vengono in mente per delle paure, per dei fantasmi. Altre volte, invece, per dei fatti realmente accaduti. Autori: Ci siamo lasciati indietro la domanda a cui lei, in qualche modo, deve rispondere, ovvero quella fatta a Stajano sul rapporto con Roma.
Moretti: La prima cosa che mi viene in mente è la possibilità di girare in Vespa, non solo d’estate, di andarsene in giro per la città senza meta. La seconda cosa a cui penso è la luce di giornate meravigliose come quella di oggi, in cui stiamo parlando, una luce che credo ci sia in pochi posti nel mondo. Che rapporto ho con Roma? Mah, me la potrei cavare dicendo che è mia madre. È come la domanda «che rapporto hai con tua madre?». Tua madre è tua madre, è quella che ti ha dato la vita.
Autori: Un’ultima domanda: un film non suo, anche più di uno, che pensa abbia raccontato qualcosa di questa città?
Moretti: Beh, Estate romana di Garrone, Pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio.
Autori: Tutti film recenti…
Moretti: E allora anche Accattone e Mamma Roma di Pasolini. E di Fellini, La Dolce Vita e Roma.

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Mia madre (2015)
Gianicolense – Flaminio – Prati Africano – Monteverde

È quasi innaturale accostare senza una ragione precisa questo vasto condominio dell’attesa, presidiato dai pini, che quasi lo schermano, lungo un tratto di circonvallazione Gianicolense. Venne su negli anni del fascismo, una lapide all’interno ricorda che fu edificato in ventiquattro mesi per volere di Mussolini e per via della furiosa epidemia di spagnola. Il corpo centrale dell’ospedale San Camillo-Forlanini, con i suoi toni fra arancio e rosa, le torrette e i lampioncini liberty rimanda subito a quei tardi anni Venti. La luce al neon lungo i corridoi riaggancia al presente, così come l’aria concentrata, tesa, anche stravolta, di chi entra o esce, senza guardarsi intorno – un mazzo di fiori in mano, la busta con la biancheria, i fogli di impegnative o analisi. Chi aspetta il tram 8, appena oltre i cancelli, seguita a parlare di casi di salute, sospeso fra ottimismo e rassegnazione. Da un luogo come questo la città non esiste, è un intralcio, una ridondanza inutile. Qualcosa di superfluo, come diventano per i fratelli Margherita e Giovanni – nel film Mia madre – i rispettivi mestieri. Lei regista, lui ingegnere. Il cuore del racconto e del tratto di esistenza che Moretti porta sullo schermo è tutto in una stanza di questo ospedale: il fascio di luce tenue, sbiadita che entra dalla finestra della stanza dove la signora Ada è ricoverata, certifica solo che Roma, fuori, c’è ancora. Nient’altro. Così ogni ospedale è un’isola: raddoppiata nel caso del Fatebenefratelli, sul Tevere, fondale di un evento gioioso – la nascita del figlio – in Aprile. In ogni caso, un tempo diverso, di attesa, che esclude tutto il resto: per Margherita e Giovanni, più si avvicina il momento del distacco dalla madre, più si annebbiano il flusso e il movimento del presente. Quello che in realtà non si è mai interrotto, e continua tuttora. La vita della città, il chiacchiericcio sul tram, gli appuntamenti per la cena, i “daje” e gli “scialla”, che a tendere l’orecchio intercetti davvero, insieme alle lamentele sul freddo di una signora in pelliccia.

Intanto, volendo alzare gli occhi all’altezza del Ponte Bianco, la nuvolaglia si è fatta rossiccia, la luce è calata all’improvviso, nell’ospedale è già ora di cena. Fra le prime scene del film, ce n’è una che mostra Margherita indecisa su cosa portare alla madre, dentro un negozio di alimentari in via dei Colli Portuensi. È sera – e l’intero film si sviluppa più su scene notturne che diurne. Tutto ciò che di più importante deve accadere, accade di sera, di notte, o di mattina presto. L’incontro della regista Margherita con il protagonista del suo film (interpretato da John Turturro), un percorso in macchina sulla Roma-Fiumicino con l’attore su di giri che si affaccia al finestrino dell’auto e grida una serie di nomi di grandi registi italiani, la scena che segue in un ristorante ai Parioli; l’ultima scena del film – di notte, in una piazza Mancini deserta –, un teso confronto di Margherita con il proprio compagno e ancora, una scena a metà fra sogno e veglia, in piazza Montecitorio, davanti al Capranichetta, teatro riconvertito a sala convegni: Margherita è come assediata dalla propria vita, il fratello la invita a riconquistare leggerezza. Sta girando il suo film su chi perde il lavoro, non è più convinta e adesso il lutto incombe, incombe l’orfanezza. La notizia della morte della signora Ada arriva di notte. La nipote ragazzina si gira nel letto e piange. Poi, accanto al padre, si affaccia da una terrazza che dà sulle strade del quartiere africano: le luci di viale Somalia, la tangenziale in lontananza. Il cielo si schiarisce appena, in prossimità dell’alba. È notte negli incubi, naturalmente, ed è notte quando la casa di Margherita – ricostruita a Monteverde Vecchio, via Maurizio Quadrio – si allaga; deciderà di trasferirsi nella casa della madre, in via Crescenzio. L’esterno non si vede mai, ma si intravede uno di quei grandi cortili piuttosto dimessi che puntellano questa strada in leggera pendenza dalla Mole Adriana verso piazza Risorgimento. Austera e quieta, al riparo dallo shopping di via Cola di Rienzo, ha questa schiera di massicci palazzi umbertini, gialli o rossicci, con vecchie portinerie. Attraversata da vie che portano i nomi di poeti latini, si svecchia all’altezza di locali alla moda e per via delle Smart che la percorrono in eterna ricerca di parcheggio.