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  • Venerdì 27 marzo 2015

Nel mondo a venire

Come inizia il nuovo romanzo di Ben Lerner, che ha dentro un trentenne alle prese con successo, paternità e malattia, e New York

È uscito per Sellerio il libro di Ben Lerner Nel mondo a venire, tradotto da Martina Testa. Il romanzo, il secondo dello scrittore e poeta newyorkese dopo Un uomo di passaggio, è un intreccio di autobiografia e finzione e ha due protagonisti: il narratore, un uomo poco più che trentenne che vede la sua vita cambiare di colpo, e la città di New York, anch’essa scossa da cambiamenti, come se si adattasse a quelli del protagonista.

Questo è l’inizio del romanzo.

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Il comune aveva riconvertito un tratto sopraelevato di ferrovia metropolitana abbandonata in un giardino pensile con un percorso pedonale, e io e l’agente stavamo passeggiando verso sud in una giornata insolitamente calda per quella stagione dopo un pranzo di festeggiamento a Chelsea dal prezzo esorbitante, a base fra l’altro di polipetti che lo chef aveva letteralmente massaggiato fino alla morte. Esserini di una morbidezza incredibile che avevamo mandato giù interi, ed era la prima volta che consumavo una testa tutta d’un pezzo, specie poi di un animale che decora la propria tana, che è stato osservato giocare in maniera complessa. Passeggiammo verso sud tra i deboli luccichii delle rotaie in disuso e i ciuffi di sommacco e di scotano disposti con cura finché non raggiungemmo quella parte della High Line dove la passerella è stata tagliata e grazie a degli scalini di legno si scende di vari livelli sotto la struttura; il piano più basso è dotato di finestre verticali che si affacciano su Tenth Avenue formando una sorta di anfiteatro dove ci si può sedere a guardare il traffico. Ci sedemmo a guardare il traffico e sto scherzando solo fino a un certo punto quando dico che avvertivo in me un’intelligenza aliena, mi sentivo soggetto a una sequenza di immagini, sensazioni, ricordi ed emozioni che, in senso stretto, non mi appartenevano: la capacità di percepire la luce polarizzata; una combinazione di gusto e tatto nel momento in cui le ventose venivano strofinate nel sale; un senso di terrore localizzato alle estremità del mio corpo che bypassava totalmente il cervello. Stavo dicendo queste cose a voce alta all’agente, che aspirava ed espirava fumo, e ridevamo.

Qualche mese prima, l’agente mi aveva scritto un’email dicendosi convinta che sarei riuscito a ottenere un «bell’anticipo a sei cifre» sulla base di un mio racconto pubblicato sul «New Yorker»: dovevo solo promettere di trasformarlo in un romanzo. Ero riuscito a buttare giù una sinossi appassionata ancorché vaga e di lì a poco si era scatenata un’asta agguerrita fra i principali editori newyorkesi e stavamo mangiando cefalopodi in quella che sarebbe diventata la scena di apertura del libro. «Come hai intenzione di espandere il racconto, di preciso?», mi aveva chiesto l’agente, con uno sguardo distante negli occhi perché stava calcolando la mancia.

«Mi proietterò in diversi futuri simultaneamente», avrei dovuto rispondere, «con un lieve tremolio della mano; mi imbarcherò in un percorso dall’ironia alla sincerità nella metropoli che sprofonda, come un aspirante Whitman della vulnerabile rete».

***

C’era un polpo gigante dipinto sulla parete della stanza dove mi avevano mandato qualche mese prima, a settembre, per alcuni accertamenti: un polpo, una stella marina e vari animali acquatici forniti di branchie e di cranio; perché era il reparto di pediatria, e la scena subacquea avrebbe dovuto calmare e distrarre i bambini dagli aghi o dai martelletti per misurare la prontezza dei riflessi. Ero lì all’età di trentatré anni perché un medico mi aveva scoperto, per puro caso, una dilatazione della radice aortica del tutto asintomatica, ma potenzialmente aneurismatica, che richiedeva un’attenta osservazione e un probabile intervento chirurgico, e il motivo più comune di un disturbo del genere alla mia età è la sindrome di Marfan, una patologia genetica del tessuto connettivo che dà tipicamente origine ai fisici longilinei e flessibili. Quando ero andato dal cardiologo e lui mi aveva consigliato gli accertamenti gli avevo fatto notare la mia proporzione eccessiva di grasso corporeo, la lunghezza delle braccia nella norma e la statura solo leggermente sopra la media, ma lui di contro aveva notato le mie dita dei piedi lunghe e sottili e la mia lieve ipermobilità articolare, sostenendo che potevo benissimo rientrare nello spettro della patologia. Nella maggior parte dei pazienti la sindrome di Marfan viene diagnosticata durante la prima infanzia: da qui il reparto pediatrico.

Se ero davvero affetto da questa sindrome, mi aveva spiegato il cardiologo, la soglia oltre la quale sarebbe stato necessario intervenire chirurgicamente era più bassa (quando il diametro della radice aortica avesse raggiunto i 4,5 centimetri), anzi era assai vicina (stando alla risonanza magnetica, io ero a 4,2 centimetri), perché tra i marfanoidi è più alta la probabilità della cosiddetta «dissezione», cioè una lacerazione dell’aorta quasi sempre fatale; se all’origine non c’era una malattia genetica, se la mia aorta fosse stata ritenuta idiopatica, forse a un certo punto sarebbe stato comunque necessario operarmi, ma con una soglia più distante (5 centimetri) e la possibilità che il disturbo progredisse molto più lentamente. In ogni caso, ora su di me gravava la consapevolezza del fatto che c’era una probabilità statisticamente rilevante che l’arteria più grande del mio corpo si rompesse da un momento all’altro: evento a cui associavo, sia pure a torto, l’immagine di un tubo di gomma impazzito che mi spruzza sangue dentro il sangue; prima di accasciarmi, negli occhi mi compare uno sguardo distante, come se ecc. ecc.

Ed eccomi lì al Mount Sinai Hospital, sott’acqua su una sedia rossa di plastica progettata per un bambino dell’asilo, una sedia che ebbe immediatamente l’effetto di farmi sentire goffo e dinoccolato sotto il camice di carta, confermando così la patologia prima ancora dell’arrivo dell’équipe che doveva esaminarmi. Alex, che mi aveva accompagnato per darmi quello che lei chiamava sostegno morale ma era di fatto sostegno pratico, dato che mi ero dimostrato incapace di uscire dallo studio di un dottore con il benché minimo ricordo delle informazioni che mi erano state comunicate, sedeva di fronte a me sull’unica sedia da adulti, senz’altro collocata lì per un genitore, con un taccuino aperto in grembo.

Mi era stato anticipato che l’esame sarebbe stato condotto da un terzetto di medici che poi si sarebbero consultati e avrebbero fornito il loro parere, che nella mia testa equivaleva a un verdetto, ma c’erano due cose, nelle dottoresse che ora stavano entrando con sorrisi radiosi in volto, alle quali non ero preparato: erano bellissime ed erano più giovani di me. Per fortuna Alex era presente, perché altrimenti non mi avrebbe creduto quando le avessi raccontato che le dottoresse – tutte apparentemente originarie del subcontinente indiano – avevano proporzioni perfette sotto i camici bianchi, e visi di simmetria impeccabile dagli zigomi alti che, senza dubbio grazie all’abile applicazione di mascara e lucidalabbra, splendevano di salute quasi parodistica perfino sotto le luci dell’ospedale: oro scuro. Guardai Alex, che ricambiò inarcando le sopracciglia.

Mi chiesero di alzarmi in piedi e si misero a calcolarmi la lunghezza delle braccia, la curvatura del petto e della spina dorsale e l’arco dei piedi, a eseguire così tante misurazioni secondo un programma nosologico a me ignoto che mi sembrava che gli arti mi si fossero moltiplicati. Il fatto che le tre esaminatrici fossero più giovani di me costituiva un disgraziato spartiacque oltre il quale la scienza medica non poteva più rapportarsi al mio corpo con paterna benevolenza, perché quelle dottoresse avrebbero ormai visto nel mio organismo patologizzato il loro futuro declino e non la loro immaturità di un tempo. Eppure, in quella stanza arredata per dei bambini, mi ritrovai ridotto allo stato infantile da tre donne di improbabile avvenenza fra i venticinque e i trent’anni, mentre dalla distanza più che letterale della sua sedia Alex assisteva alla procedura con aria comprensiva.

Quest’essere riesce a sentire il sapore di ciò che tocca, ma ha una scarsa propriocezione, il cervello è incapace di determinare la posizione del corpo nella corrente, in particolare delle mie braccia, e la predominanza della flessibilità sugli input propriocettivi significa che gli manca la stereognosia, la capacità di crearsi un’immagine mentale della forma complessiva di ciò che tocco: è in grado di identificare le variazioni nella consistenza delle superfici, ma non riesce a combinare quei dati in un quadro generale, non riesce a leggere la narrazione realistica che il mondo appare essere. Ciò che intendo è che le varie parti del mio corpo stavano arrivando a possedere una terribile autonomia neurologica non solo in senso spaziale ma anche temporale: il futuro mi crollava addosso man mano che ogni contrazione espandeva, anche solo di un grado infinitesimale, le tubature troppo flessibili del mio cuore. Ero più vecchio e più giovane di tutte le persone presenti nella stanza, me stesso compreso.

***

Il sostegno di Alex era morale e pratico ma anche interessato, in quanto aveva recentemente avanzato la proposta di impregnarsi con il mio sperma, non, come si sforzò subito di chiarire, copulando, ma piuttosto mediante inseminazione intrauterina perché, per usare le sue parole, «scopare con te sarebbe troppo strano». L’argomento fu affrontato per la prima volta al Metropolitan Museum, che visitavamo spesso nel pomeriggio dei giorni feriali, dal momento che Alex era disoccupata, e io uno scrittore.

Ci eravamo conosciuti al mio primo e suo ultimo anno di università durante un corso noioso sui grandi romanzi e avevamo provato una simpatia istantanea e reciproca, ma non eravamo diventati migliori amici finché non ci eravamo ritrovati quasi vicini di casa a Brooklyn, dove mi ero trasferito qualche anno dopo la laurea, e avevamo cominciato le nostre passeggiate: passeggiate attraverso Prospect Park mentre la luce moriva fra i tigli; passeggiate dal nostro quartiere, Boerum Hill, a Sunset Park, dove guardavamo le ali soffici degli aquiloni nell’ora d’oro; passeggiate notturne lungo la Promenade di Brooklyn Heights con l’intensità incombente di Manhattan che scintillava al di là dell’acqua scura. Sei anni di queste passeggiate su un pianeta sempre più caldo, anche se le passeggiate non erano l’unica cosa che facevamo, avevano reso la presenza di Alex inseparabile dalla mia idea di movimento all’interno della città, al punto che la avvertivo accanto a me quando non c’era; quando attraversavo un ponte in silenzio, spesso mi sembrava che fosse un silenzio condiviso fra noi, anche se lei era nel nord dello stato a trovare i genitori o stava passando del tempo con il suo ragazzo del momento, che io immancabilmente odiavo.

Forse tirò fuori l’argomento al museo e non mentre prendevamo un caffè o qualcosa del genere perché nelle gallerie così come durante le passeggiate i nostri sguardi erano paralleli, puntati sulle tele di fronte a noi e non uno verso l’altro, condizione tipica dei nostri scambi più intimi; eravamo soliti elaborare i nostri punti di vista mentre costruivamo insieme, letteralmente, la vista che avevamo davanti. Non evitavamo di guardarci negli occhi, e io anzi ammiravo quella parvenza di cielo nuvoloso che c’era nei suoi, epitelio scuro e stroma chiaro, ma quando capitava tendevamo a smettere di parlare. Il che significava che pranzavamo in silenzio o chiacchierando del più e del meno, e solo passeggiando poi verso casa apprendevo che a sua madre era stato diagnosticato un tumore in fase avanzata. Può darsi che ci abbiate visti camminare su Atlantic Avenue, il suo viso un fiume di lacrime, il mio braccio intorno alle sue spalle, ma i nostri sguardi puntati dritti in avanti; o forse mi avete visto durante uno dei miei sempre più frequenti episodi di pianto, con lei che mi confortava allo stesso modo mentre attraversavamo il ponte di Brooklyn, non tanto una coppia di innamorati quanto di gemelli siamesi.

Quel giorno eravamo di fronte alla Giovanna d’Arco di Jules Bastien-Lepage – Alex le assomiglia un po’, nella versione del quadro – e lei disse, di punto in bianco: «Ho trentasei anni e sono single». (Grazie a dio aveva rotto col suo ultimo compagno, un avvocato specializzato in diritto del lavoro, divorziato e alle soglie dei cinquanta, che aveva seguito alcune pratiche per la clinica di cui lei era stata codirettrice prima che fallisse. Dopo due bicchieri di vino, cominciava invariabilmente ad ammannire a chiunque gli fosse a tiro racconti sul periodo che aveva trascorso in Guatemala impegnato in attività umanitarie dalla vaghezza sospetta; dopo tre bicchieri di vino, l’avvocato attaccava con la repressione sessuale e la complessiva frigidità della sua ex moglie; dopo quattro o cinque, iniziava a intrecciare questi temi fra loro incommensurabili, così che nel suo farfugliare sconnesso il genocidio e il sentirsi sessualmente rifiutato raggiungevano un’implicita equivalenza.

Ogni volta che ero presente mi assicuravo di riempirgli il bicchiere, affrettando la fine della relazione). «Non è passato un giorno, negli ultimi sei anni, in cui io non abbia voluto un bambino. Pensa quanto sono banale. Voglio che mia madre conosca mio figlio. Ho settantacinque settimane di indennità di disoccupazione e un’assicurazione sanitaria, più qualche modesto risparmio, e anche se so che ciò significa che dovrei avere più paura che mai di riprodurmi, in realtà mi fa solo pensare che non ci sarà mai un momento buono, che non posso aspettare che i ritmi professionali e biologici coincidano. Io e te siamo migliori amici. Non puoi vivere senza di me. Perché non doni tu lo sperma? Potremmo decidere insieme il tuo grado di coinvolgimento. Lo so che è una follia e voglio che accetti».

In alto a sinistra, nel dipinto, si librano tre angeli traslucidi. Hanno appena chiamato Giovanna, che stava lavorando al telaio nel giardino dei suoi genitori, a salvare la Francia. Un angelo si tiene la testa fra le mani. Giovanna sembra barcollare verso lo spettatore, alzando il braccio sinistro, forse per cercare un sostegno, nell’estasi della chiamata. Invece di afferrare rami o foglie la sua mano, che è attentamente collocata lungo l’asse visivo di uno degli altri angeli, sembra dissolversi nel nulla. Il cartello del museo dice che Bastien-Lepage fu aspramente criticato per non aver saputo conciliare l’evanescenza degli angeli con il realismo del corpo della futura santa, ma è proprio questo «difetto» che lo rende uno dei miei dipinti preferiti. È come se la tensione fra il mondo metafisico e quello fisico, fra due ordini di temporalità, producesse un’imperfezione nella matrice pittorica: lo sfondo le inghiotte le dita. Mentre ero lì quel pomeriggio con Alex, mi tornò in mente la foto che Marty porta con sé in Ritorno al futuro, film fondamentale della mia adolescenza: man mano che i viaggi nel tempo di Marty sconvolgono la preistoria della sua famiglia, lui e i suoi fratelli cominciano a svanire dall’istantanea. Solo che qui è una presenza, non un’assenza, a mangiare la mano della donna: la stanno trascinando dentro il futuro.