Spandau Ballet, le sei canzoni più belle

Per quelli che se li ricordano benissimo e per quelli che li vedono stasera a Sanremo per la prima volta

Gli Spandau Ballet, una delle band più famose degli anni Ottanta, saranno ospiti stasera al festival di Sanremo. C’erano già stati nel 1986, e avevano presentato in anteprima “Fight for Ourselves”, il primo singolo estratto dal disco Through the Barricades. Da allora la band si è sciolta con vari litigi (Hadley, Norman e Keeble hanno tentato di fare causa a Gary Kemp), si è poi riunita nel 2009, e ha pubblicato il disco Once More.

Per chi se li ricorda benissimo e per chi invece li vede per la prima volta, queste sono le sei loro canzoni che il peraltro direttore del Post Luca Sofri aveva scelto per il suo libro Playlist.

Spandau Ballet
(1979-1990, Londra, Inghilterra)
Vediamo di capirci: loro erano davvero imbarazzanti, con quelle mise, i ciuffi, e la voce pomposa di Tony Hadley. E non hanno inventato niente. Niente a che vedere con i Duran Duran, né con i Pet Shop Boys, al massimo se la battevano con i Culture Club (e infatti hanno chiuso presto, tutti e due: gli Spandau litigando e facendosi causa, tra l’altro). Detto questo, lasciano alcune canzonette melense gradevoli, e qualcuna ottima nel disco della svolta da classifica, True.

Lifeline
(True, 1983)
Qui erano bravini: “uh-uh-uh uhuh!”. E il piacere fisico che dà, precipitare sulla lingua quello “younever-really-know-just-what-you’re-givin’-now-you’re-livin’-in-thelaiflàiiiiiin…”.

Gold
(True, 1983)
“Grazie di essere venuto, scusa se le sedie sono tutte consumate…”. Una delle loro due grandi canzoni, malgrado non abbia tutti i torti chi l’ha definito “un vano tentativo di suonare Roxy Music, col risultato di suonare Tom Jones”.

True

(True, 1983)
L’altra delle loro due grandi canzoni. Tutto è perfetto, Tony Hadley non esagera, la base è geniale, i coretti ci stanno. Un classico, stravenduta, abusata, remixata e campionata, in particolare nell’ottima versione hip-hop dei P.M. Dawn.

Communication

(True, 1983)
Ci sono canzoni che partono e ti viene voglia di schioccare le dita. Al ritornello, stai già ballettando. Datato – pieno di simil-scratches e distorsioni – ma ancora efficace il remix.

I’ll fly for you
(Parade, 1984)
Al disco successivo alla conquista del mondo, li avevamo già persi. Diverse canzonette vendibili, ma niente di memorabile, salvo l’improvviso raddrizzamento di spina dorsale nel ritornello di “I’ll fly for you”, ancor più efficace nel contrapporsi alla sonnolenza delle strofe.

How many lies?
(Through the barricades, 1986)
Molto trombonesca, con quel declamare enfaticamente “how many lies must we see?” (neanche fosse un grido di protesta sulla censura governativa). Però poi la canticchi, e a questo punto della loro carriera era il meglio che sapessero fare.