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Agostino Di Bartolomei, vent’anni fa

La storia del suicidio di un calciatore molto amato e rispettato e quella di una partita – e che partita – che si giocò esattamente dieci anni prima, in un libro pubblicato da Fandango

Il 30 maggio 1994, vent’anni fa, morì suicida a 39 anni l’ex calciatore Agostino Di Bartolomei. Aveva giocato nella Roma dal 1972 al 1984, vincendo uno Scudetto e diventandone capitano molto rispettato e amato, dai suoi tifosi e non solo. Fu poi ceduto al Milan e finì la carriera tra Cesena e Salernitana. Non si è mai capito se fu o no una coincidenza, ma Di Bartolomei si uccise esattamente 10 anni dopo la finale della Coppa dei Campioni che perse con la Roma, in casa, ai rigori contro il Liverpool.

La sua storia, e quella della famosa finale di Coppa dei Campioni, è raccontata in L’Ultima partita. Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei, un libro di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno. Bianconi è giornalista e scrittore, Salerno è giornalista e autore televisivo. L’Ultima partita è pubblicato da Fandango e sul Post potete leggerne qualche pagina.

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Roma, 30 maggio 1984. Stadio Olimpico, ore 20.15.
Finale della Coppa dei Campioni di calcio tra la Roma e il Liverpool. I riflettori sono già accesi, ma è ancora giorno quando le due squadre fanno ingresso in campo.
I giallorossi si affidano a Tancredi, Nappi, Bonetti, Righetti, Fãlcao, Nela; Conti, Cerezo, Pruzzo, Di Bartolomei, Graziani.
Gli inglesi rispondono con Grobbelaar, Neal, Kennedy; Lawrenson, Whelan, Hansen; Dalglish, Lee, Rush, Johnston, Souness.
A disposizione dell’allenatore della Roma, Nils Liedholm, ci sono Malgioglio, Oddi, Strukelj, Chierico e Vincenzi. Sulla panchina dei “reds”, a far compagnia al coach Joe Fagan, siedono Bolder, Nicol, Hodgson, Robinson e Gillespie.
Dirige l’incontro il signor Fredriksson, della Federazione svedese.
Gli spettatori sono più di settantamila. L’incasso al botteghino registra il record assoluto per l’Italia: un miliardo e trecentoventisette milioni più gli spiccioli. Il terreno di gioco è in ottime condizioni, la temperatura ideale.
In tribuna d’onore, tra i dirigenti federali e quelli delle due squadre, ha appena preso posto il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. La curva dei tifosi romanisti, la curva Sud, espone un grande striscione: “Non passa lo straniero”.
Sul primo canale della Rai, Bruno Pizzul prende la linea e comincia la sua telecronaca: “Signore e signori, buonasera. Il grande mercoledì è dunque arrivato”.

Salerno, 30 maggio 1994. Ore 10.52.
“ANSA – Agostino Di Bartolomei, ex calciatore della Roma e del Milan, si è ucciso stamani sparandosi un colpo di pistola sul terrazzo della sua villa di San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, dove si era trasferito dopo aver concluso la sua attività sportiva. Aveva trentanove anni. (SEGUE).”
Il primo lancio di agenzia arriva nelle redazioni dei giornali due ore dopo che la tragedia ha svegliato di soprassalto Marisa De Santis, quarantasei anni, la moglie di Agostino.

“Mamma, mamma!”, urla il figlio Gianmarco, ventenne, frutto di un matrimonio precedente. È lui che sente il botto, il colpo. È lui, che sta lavorando al computer con un suo amico, ad accorrere e a trovare in una pozza di sangue l’ex campione. In giardino c’è il padre di Marisa, Antonio De Santis, che vede suo nipote mentre tenta di praticare la respirazione bocca a bocca. Luca, dodici anni, il piccolo di casa, figlio di Di Bartolomei, per fortuna è già a scuola.
Quando squilla il telefono dei carabinieri di Agropoli, distante una trentina di chilometri, non c’è più nulla da fare. Nonostante i tentativi di aiuto della moglie e di un medico, Paola La Padula, i danni procurati dal calibro 38 special “Smith & Wesson” sono irreparabili. Puntata al cuore, la pistola è servita allo scopo. Il corpo dell’ex calciatore non viene rimosso fino all’arrivo del magistrato, il sostituto procuratore di Vallo della Lucania Renato Martusciello, che può soltanto disporre la prova per verificare se effettivamente è stato Agostino a sparare.

Franco Di Bartolomei del telefonino non sa che farsene, non ce l’ha. Passeggia per Roma con il fratello. Va in ufficio ma non deve lavorare e cammina in sandali e pantaloncini, la tenuta migliore per affrontare un maggio capitolino particolarmente caldo.
Il giorno prima ha compiuto settantuno anni ed è stato contento quando da Salerno è arrivata la telefonata del figlio: “Papà, auguri, come stai?”. “Bene grazie”, ha risposto. Era domenica sera e dall’altra parte del filo non sembravano esserci dubbi: “Mercoledì vengo a Roma”. “Allora ci vediamo mercoledì.” Anche il nipotino Luca gli ha fatto gli auguri, e la nuora Marisa.
In macchina non ha la radio, ma ora, di ritorno a casa trova la moglie in lacrime. Ci mette un attimo a capire quello che è successo. Ci mette un attimo a prendere sottobraccio la compagna di una vita, a riaccendere il motore, e a partire senza neanche cambiarsi. Non si dà pace, non riesce a credere alla verità di quello che è successo. “Agostino si è suicidato? Non è possibile, perché mai?”
Non bastano quattrocento chilometri per trovare una risposta. E l’incredulità è sempre una buona compagna di viaggio. Un’incredulità che la madre di Agostino, Maria Luisa, getta in faccia ai cronisti che aspettano la famiglia davanti al cancello della villa, a San Marco: “Cercate di rispettare il nostro dolore. Sono arrivata adesso. Voglio capire che cosa è successo. Di sicuro quella del suicidio è una grande bugia. Non aveva nessun motivo, mio figlio, per togliersi la vita. È stata una fatalità, una disgrazia. Il colpo è partito mentre stava cercando di pulire quell’arma. Lui ne aveva una collezione, le maneggiava spesso, questo lo so”.

Il capitano dei carabinieri Fernando Sicuro lo sa anche lui. Sa che Di Bartolomei aveva un regolare porto d’armi, ma sa anche che difficilmente la tesi del suicidio potrà essere confutata. Le tracce, la disposizione del corpo ritrovato supino, la situazione, tutto lascia presagire che l’ipotesi fatta dagli inquirenti appena giunti sul posto non cambierà. L’accidente, la tragica fatalità è solo una pista per alleviare la disperazione di parenti e amici. Di questo è convinto anche il magistrato che fa trasferire la salma del calciatore all’ospedale civile San Luca di Vallo della Lucania per l’autopsia.

Quello che manca a tutti è invece il perché. Perché quella mattina, appena sveglio, l’ex leader giallorosso, si sia alzato con calma verso le sette e mezzo, senza disturbare nessuno, sia andato nello studio dove tiene le armi – una carabina 4,5mm, una pistola 357 Magnum, la “Smith & Wesson” – abbia pulito quest’ultima e poi, sul grande balcone di casa, si sia sparato un colpo al cuore.
“Il Di Bartolomei indossava un paio di pantaloni ginnici, jeansati, di colore celeste e una maglietta da pigiama di colore beige. Ai piedi non portava né scarpe né calze”, viene annotato nel verbale di sopralluogo.
Non c’è un segnale, un biglietto, un movente. Si setaccia la sua vita senza trovare granché. Non basta a giustificare tutto il fallimento di un’agenzia di assicurazioni aperta da Agostino, che aveva accumulato un passivo di alcune decine di milioni. Una cifra importante, ma non tale da intaccare la serenità di Di Bartolomei che, comunque, con il calcio qualche soldo è riuscito a metterlo da parte. “Un’esposizione debitoria alquanto modesta rispetto al suo notevole patrimonio”, dicono gli inquirenti. Né le difficoltà trovate nel metter su una “cittadella dello sport” a Castellabate sembrano così forti da spingere al suicidio.

La moglie non si dà pace e confessa nel pianto: “Ieri sera era così tranquillo… Abbiamo passeggiato a lungo vicino al porto in compagnia di alcuni miei cugini venuti da Roma. Avevamo cenato in famiglia, in quindici, e poi eravamo usciti. Avevamo giocato anche a fresbee con i bambini. Era sereno. La tragedia mi ha colto totalmente di sorpresa”.
E viene colto di sorpresa anche tutto il mondo del calcio.
Nils Liedholm il telegiornale lo guarda spesso. Non è un periodo facile per l’Italia e le notizie clamorose sono almeno due anni che non mancano. Ad aprile, il 28, Silvio Berlusconi ha ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo; in pochi mesi quello che era un semplice imprenditore, presidente e proprietario dell’impero televisivo Fininvest e del Milan, ha fondato un partito e vinto le elezioni. Il 29 Sergio Cusani, finanziere socialista, viene condannato a otto anni per lo scandalo della maxi tangente Enimont. Il 2 maggio il pilota brasiliano di Formula 1, Ayrton Senna, se n’è andato dritto in una curva durante il Gran Premio di San Marino. Venti giorni dopo la Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio per associazione a delinquere di stampo mafioso del senatore a vita Giulio Andreotti.
La notizia che arriva da Salerno, però, per l’allenatore svedese è un’altra cosa. Uno dei giocatori che ha visto crescere e che più ha formato, lanciato, accudito, si è ammazzato. Insieme, dopo quarant’anni, avevano riportato lo scudetto nella capitale. Liedholm prende il telefono e chiama Roma, in società, cerca dei tecnici Colucci e Tessari, cerca qualcuno che può saperne di più, che può raccontargli quello che veramente è successo al suo capitano. Ma più che trovare risposte, trova domande. Quelle della stampa italiana, sportiva e non, a caccia di commenti. Il telefono del “barone” è tra quelli che squilla di più.
“Non lo sentivo ormai da un paio di anni, ma i rapporti sono sempre stati splendidi”, confida al cronista della Gazzetta dello Sport. “Mi aveva cercato per chiedermi di andare alle sue scuole calcio ma la cosa non era mai stata possibile.” Anche a lui, soprattutto a lui, sfugge il motivo di quel gesto disperato: “Lo stupore deriva dal fatto che Agostino è sempre stato una persona estremamente equilibrata”.
Liedholm sa che “lui non parlava mai dei suoi problemi; semmai ne parlava solo dopo, quando li aveva affrontati e risolti”. Ma del suo ultimo problema Di Bartolomei non può parlare più con nessuno.

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